Ceti spuri

Davide Vender*

Persiste nel nostro Paese una mentalità, un atteggiamento, una modalità sociale attraverso la quale si esprimono pratiche verbali e fatti sempre in bilico tra sovversione e richiesta di ordine sociale. Quando andiamo a mangiare in un ristorante, dietro al bancone troviamo spesso appesi tre calendari: Carabinieri, Finanza, Polizia. I proprietari, un particolare tipo di ceto medio all’interno della famiglia piccolo borghese, sono di solito uomini e donne che reclamano ordine e disciplina per tutelare al meglio le proprie attività.

Ma quando la crisi morde o la pandemia costringe a lunghi lockdown, essi scoprono la sovversione e l’estremismo.

Se viene erosa la loro capacità di consumo e di accumulazione, questi ceti sociali diventano aggressivi e si comportano in modo sovversivo (gli scontri sotto il Parlamento di qualche mese fa). Si scordano come per incanto dei calendari delle forze dell’ordine ben esposti all’interno dei loro locali. Questa forma di sovversivismo è una caratteristica costante della storia del nostro Bel Paese.

Ma proviamo a vedere cos’è la piccola borghesia. Possiamo dire che questi ceti, che ho definito “spuri”, sono la risultante dell’intersezione di tre forme di reddito: salario, profitto e rendita. Si contraddistinguono classicamente dai lavoratori che percepiscono un solo reddito, il salario, e dai proprietari dei mezzi di produzione a cui afferisce il profitto. Il piccolo borghese è proprietario dei mezzi di produzione da cui ricava il profitto, è proprietario della terra o dei locali da cui ricava rendita agraria o urbana e infine è pure un grande lavoratore perché insieme ai suoi dipendenti fatica giornalmente per tirare avanti l’attività. Questi ceti spuri sono un organismo sociale ermafrodita proprio perché la loro coscienza e mentalità viene forgiata dall’intersezione di queste tre forme di reddito. Questo dà luogo a comportamenti sociali specifici, diversi da ognuno degli altri soggetti sociali più definiti.

Per non fare che due esempi, vediamo che il Borghese degli anni ’20 era terrorizzato dallo squadrismo e dalla violenza sociale concentrata nella piccola proprietà contadina. D’altronde si sa che al borghese piace circondarsi di ambienti civili e tranquilli, egli non ama il caos.

D’altro lato, il lavoratore è di solito uomo realista che bada soprattutto alle condizioni di lavoro e allo stipendio a fine mese. Egli di rado esprime forme di sovversivismo sociale ma si trova a suo agio nelle lotte per l’emancipazione sociale e per la conquista dei diritti (quando non viene egemonizzato dall’ideologia piccolo borghese).

Il piccolo borghese è invece tutto e il contrario di tutto

La storiografia stenta nel dare una definizione finale del ventennio perché il fascismo rappresenta una contraddizione sociale come la sua base piccolo proprietaria che lo portò al potere e che ci si riconobbe.

Non a caso nel fenomeno fascista, ed in particolare nel suo immaginario, troviamo una ambivalenza tra la costruzione autoritaria e statale dell’ordine sociale – la dittatura, il regime – e la sovversione sociale che fu alla base della sua conquista del potere. Questo impasto di culto dell’ordine e della sovversione oltre ad essere proprio dell’ideologia fascista, ha a che vedere proprio con il dato contraddittorio della base materiale che ha permesso al fascismo di conquistare il potere.

Ci ricordiamo degli anni ’90? Il leghismo che dilagava nel nord-est? A un certo punto l’opinione pubblica nazionale dovette fare i conti con le idee del separatismo e del federalismo. Cortei, mobilitazioni popolari, assemblee per reclamare che il Nord era stufo di pagare le tasse e dunque chiedeva l’autonomia politica dal resto d’Italia. Proprio al Nord si svilupparono queste idee bizzarre in modi che ricordano come proprio nel Nord del Paese, negli anni del primo dopoguerra, a cavallo degli anni ‘20 del secolo scorso, si originarono le idee corporative del fascismo come movimento. Dopo la Grande Guerra si costituirono 500.000 nuove piccole proprietà, ubicate soprattutto nella Pianura Padana. Queste rappresentarono una sorta di recinzione originaria delle terre da cui presero forma nuove piccole proprietà. I soggetti in carne e ossa protagonisti di queste occupazioni furono i fanti-contadini che dopo la fine della Grande Guerra reclamarono, con la violenza sociale, il diritto alla recinzione e alla piccola proprietà. Il tutto avvenne in una struttura produttiva già frammentata e addirittura polverizzata. L’Italia degli anni ’20 era un paese al 90% agricolo, e dunque quel poco di industrializzazione presente nel triangolo industriale: Milano-Torino-Genova subì l’egemonia esercitata sul resto del paese dalla piccola proprietà contadina. È bene sottolineare come all’origine del fascismo ci fu proprio la piccola proprietà contadina – il ceto medio impiegatizio cittadino fu in larga parte un prodotto del regime fascista – mentre il nascente movimento operaio non fu contaminato dalle idee del nascente movimento fascista che ebbe il suo epicentro proprio nelle campagne.

La piccola proprietà dall’agricoltura all’impresa.

Con l’industrializzazione del Paese negli anni ’30, questa piccola proprietà iniziò a sviluppare la multiattività. Il contadino di sera lavorava nella sua proprietà, e la mattina si recava nelle prime manifatture produttive. Questa che abbiamo definito “multiattività” rappresenta un passaggio fondamentale nell’industrializzazione dell’economia nazionale. Attraverso la multiattività, il piccolo proprietario svilupperà conoscenze manifatturiere e saperi produttivi che gli permetteranno di trasformare la sua attività agricola in piccola impresa produttiva. Le radici dello sviluppo della tanto decantata piccola proprietà produttiva, che oggi si configura nei 150 distretti industriali, risiedono proprio nella multiattività del piccolo proprietario contadino di epoca fascista.

Mentre in altri paesi si ricomponeva la proprietà agraria e si concentrava la produzione fino alla situazione contemporanea del sistema delle aziende agricole multinazionali, in Italia accadeva il contrario. Scomposizione e piccola manifattura. Questa microimprenditorialità sempre in bilico tra povertà e privilegi ha innervato la storia della nazione. Una persistenza strutturale di piccole proprietà con assetti societari familiari. Mentre in tutte le economie a capitalismo avanzato lo Stato Nazione si costruiva intorno allo sviluppo di grandi imprese nazionali sulle quali poggiava il senso di appartenenza e la forza economica della nazione, in Italia accadeva il contrario.

Lo Stato Nazionale si configurava intorno alla piccola proprietà contadina di epoca fascista e alla piccola proprietà produttiva o commerciale, così come attorno alle professioni, in epoca Repubblicana. In entrambi i casi non veniva risolto il problema di appartenenza civile e storica alla Nazione che rimaneva debolmente ancorato a un senso di indeterminatezza sociale e civile nazionale. Ci provò anche il movimento operaio a farsi Nazione. Dal secondo dopoguerra fino alla marcia dei 40.000 a Torino, il movimento dei lavoratori esercitò una profonda egemonia nella società italiana. Il Pci coniò il progetto del movimento operaio che si faceva Stato, mentre i movimenti rivoluzionari tentarono l’assalto al cielo inseguendo una immaginaria rivoluzione sociale. Ma anche questa volta il senso di appartenenza nazionale non fu raggiunto. Il risultato che ereditiamo dal ‘900 è un Paese senza Nazione e uno Stato costruito ed ereditato dal ventennio. E sì, perché il fascismo, come movimento della piccola proprietà, in assenza di élite borghesi e di classi dirigenti capitalisticamente forti, costruì con la forza e la dittatura lo Stato italiano, ma non la Nazione. Questa contraddizione ce la portiamo sulle spalle della nostra storia nazionale. Rappresenta l’Autobiografia della nazione caratterizzata dal protagonismo storico della piccola borghesia e dei ceti spuri.

Ma quali sono le tendenze che possiamo individuare nello sviluppo del ceto medio italiano?

Viviamo in epoca liquida. L’automazione prima e la rivoluzione digitale poi hanno scomposto il tessuto sociale che avevamo ereditato nella fase dell’industrializzazione fordista. Oggi i comportamenti sociali dei ceti medi sono ancora di più in simbiosi con l’andamento della produzione capitalista. Nel senso che risentono ancora più pesantemente delle contrazioni dei mercati e della ciclicità delle crisi. Se nei decenni passati il ceto medio si rappresentava attraverso comportamenti sociali arrembanti e indirizzati ad elevare le proprie capacità di consumo, ora sembra impaurito dall’erosione proprio della sua capacità di consumare merci ed accumulare capitale. I ceti spuri vivono spaventati dalla concorrenza fortissima che subiscono sia dalle importazioni dai paesi del terzo mondo di merci a un prezzo inferiore, sia dallo sviluppo della grande distribuzione: sono cioè colpiti pesantemente dai nuovi processi di globalizzazione. In piccole proprietà e in assetti societari perlopiù gestiti in consigli d’amministrazione famigliari, la piccola borghesia dei 150 distretti industriali, che rappresenta la punta avanzata della soggettività spuria nel nostro Paese, non ha poi così tante scelte.

Se dimostrerà capacità di servirsi del capitale finanziario e dell’innovazione tecnologica si svilupperà e saprà concorrere nei mercati globali; altrimenti sarà travolta dai mercati, e il suo destino sarà la proletarizzazione. Se le altre classi principali si scompongono e modificano contorni e assetti sociali, figuriamoci quelle di risulta. La partita del conflitto sociale nel nostro Paese si giocherà intorno a questa situazione. Studiarla con attenzione, senza ricadere in un’infruttuosa ricerca del primato della politica, può permetterci di conoscere e capire le tendenze.


* Davide Vender (1966), storico, ha curato Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ‘77, Odrdaek (1997). Attualmente, dirige con Katia Sardo, la Libreria Odradek di Roma.


Immagine da pxhere.com

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