Ideologia e senso comune

Loris Caruso*

Cosa vuol dire “comunismo”? A questa domanda oggi nessuno, forse, sa rispondere.

Sul piano del senso comune, ‘comunismo’ richiama qualcosa di superato e concluso e/o pericoloso, un’entità grigia, antica, sepolta dalla storia.

Il capitalismo, al contrario, è percepito come luccicante e continua produzione della novità, movimento incessante, innovazione, progresso, energia che produce anche rischi e sofferenze (ammesso che vengano attribuite al capitalismo in quanto tale) ma che comunque è “vita”, anche se vita costretta nella forma della “fantasmagoria della merce”.

Soprattutto, il capitalismo esiste, è la realtà, è il contesto da affrontare tutti i giorni, è il sistema a cui ci si deve adattare, è l’insieme di azioni, habitus, norme, regole e comportamenti che bisogna interiorizzare per sopravvivere, lavorare, cercare di sviluppare la propria personalità, realizzare desideri e ambizioni, attribuirsi un valore, cercare di essere riconosciuti e apprezzati. Il comunismo invece, quando non è percepito come pura entità del passato o eredità inquietante, è vissuto come fantasticheria irrealistica o espressione identitaria nostalgica.

Non c’è niente di più egemonico di questo: essere percepiti come ciò che è vitale contro ciò che è irrimediabilmente passato, e come ciò che esiste contro ciò che è fantasia illusoria. Risiede qui l’abissale divario egemonico attuale tra la formazione sociale capitalistica e una prospettiva di alternativa sistemica. Ed è su questo divario che bisogna lavorare se si vuole provare a restituire cittadinanza, a rendere nuovamente pensabile, poi desiderabile, e infine perseguibile un’alternativa sistemica alla civiltà capitalistica. In cosa può consistere questo lavoro? Consiste fondamentalmente di tre aspetti: la costruzione ideologica, la sua traduzione nella contingenza politica, il suo rapporto con il senso comune.

Cosa vuol dire comunismo?

È necessario, per chiunque voglia tornare a utilizzare politicamente parole come “comunismo” e “socialismo”, ridefinirle e riattualizzarle. Cosa intendiamo oggi con queste parole? Significano ancora superamento delle classi sociali e “socializzazione dei mezzi di produzione”? Se sì, cosa significa oggi socializzazione dei mezzi di produzione? In una società socialista del XXI secolo, i mezzi di produzione sarebbero socializzati interamente o parzialmente? E come sarebbe organizzato il lavoro? In che modo una società basata sulla cooperazione e non sulla competizione intra-capitalistica e interpersonale, sarebbe in grado di stimolare il progresso tecnologico, orientandone però gli scopi al miglioramento generalizzato delle condizioni di vita?

Senza fare “ricette per le osterie dell’avvenire”, se si vogliono usare ancora termini come comunismo e socialismo bisogna ricominciare ad avere delle risposte a queste domande, ridefinendo il proprio orizzonte ideologico e adeguandolo a questo tempo.

Ma una costruzione ideologica è politicamente efficace se ha due caratteristiche. La prima è quella di non essere aliena rispetto alla società esistente e ad alcuni valori fondamentali con cui questa società si rappresenta. Il rapporto tra il “vecchio mondo” e il “nuovo mondo”, nella migliore tradizione del socialismo e del movimento operaio, ha una natura dialettica. Marx era anti-idealista e anti-borghese dall’interno.

Non discuteva i fini ideali e i mezzi materiali della modernità – le “forze produttive” e il loro sviluppo – ma sosteneva che niente dell’ideale moderno fosse realizzabile senza il superamento della divisione della società in classi. La marxiana “critica spregiudicata di tutto ciò che esiste” è una critica immanente, che non aggredisce il proprio oggetto da una postazione aliena, ma dall’interno, a partire da principi che appartengono a ciò che viene criticato. Marx era un eretico dello spirito moderno, della sua ideologia, della sua filosofia, della sua autorappresentazione, di cui faceva suoi i valori della secolarizzazione, del progresso, dello sviluppo del mondo pensato come progressiva razionalizzazione, del pieno sviluppo delle capacità dell’individuo, dell’eguaglianza (che nel pensiero liberale era solo formale).

Come si pone, oggi, il rapporto dialettico tra lo sviluppo a cui è arrivato il capitalismo e una nuova idea di socialismo e di comunismo? La ricerca di questa connessione è un lavoro teorico-politico centrale. Il capitalismo allo stesso tempo sviluppa come nessuna formazione sociale precedente le facoltà umane e le nega, le amputa, le limita, le ottunde. Le sviluppa limitandole ad alcuni e limitandole ad alcune, escludendone altre. Risultando quindi continuamente, perennemente contraddittorio, ma basato su contraddizioni sempre più estreme e complesse, che lasciano aperti i propri esiti ultimi. In questa apertura c’è lo spazio di nuove costruzioni ideologiche, se riescono a essere adeguate al proprio tempo.

In secondo luogo, e di conseguenza, è decisivo che un’ideologia emancipativa sia orientata al futuro: che interpreti e raccolga il passato e il presente, ma che si proietti in avanti, imponendosi come la rappresentazione della realtà che sviluppa potenzialità che il mondo presente non può sviluppare, e che sia più efficace del sistema sociale attuale nel proteggere da rischi decisivi, come quello ambientale e quello della disoccupazione di massa.

Originariamente, destra e sinistra erano sostanzialmente sinonimi di conservatori e progressisti. La sinistra era il nuovo. Il nuovo mondo inaugurato dalla Rivoluzione francese. La rivoluzione come accelerazione del tempo. I nuovi uomini e donne che sarebbero nati dalle rivoluzioni politiche e sociali e dal progresso. Le nuove classi e i nuovi ceti. Le nuove possibilità di vita offerte dalla scienza, dalla tecnica e dalla rivoluzione industriale. Le nuove forme politiche nate dalle rivoluzioni democratiche. Sinistra e futuro nascono intrecciate. Dalla seconda metà dell’Ottocento, il socialismo diventa la “profezia politica” che indica il mondo che, anticipato da elementi del presente, con la spinta dei nuovi soggetti sociali e dello sviluppo delle forze scientifiche e produttive potrà svilupparsi nel futuro, portando l’umanità “fuori dalla preistoria”. È noto che, storicamente, il movimento operaio non avrebbe avuto (nemmeno sindacalmente) la forza che ha avuto, se la sua capacità di mobilitazione non fosse stata innervata dalla “profezia politica” del socialismo.

La sinistra è quindi originariamente la frattura tra il passato del vecchio mondo e l’utopia di quello nuovo, ed è quasi indissolubilmente legata all’idea di progresso. Oggi, a parte alcune importanti esperienze latino-americane, ha perso la sua proiezione al futuro. Quella europea, nella migliore delle ipotesi, ha cercato di difendere, senza quasi mai riuscirci, le conquiste dei decenni passati. Ma non ha un’idea di società futura, non c’è un nuovo mondo verso cui tendere, non ne individua i segnali in quello presente, ha perso le classi e i ceti su cui sarebbe possibile edificarlo, non riesce a descriverla “nuova umanità” che potrebbe costituirsi. In una parola, è priva di ideologia. I suoi avversari sociali e politici invece – le forze conservatrici, che siano di tipo neo-autoritario o liberale – un’ideologia ce l’hanno sempre: è l’ideologia potentissima, perché realistica, del mondo così com’è, di cui prospettano solo qualche variazione secondaria.

Contingenza e senso comune

Il secondo elemento su cui lavorare è ancora di ordine ideologico e teorico, ma si tratta in questo caso di una dimensione ideologica intrecciata con la prassi. Si tratta di rispondere a queste domande: “Cosa significano comunismo o socialismo domani mattina? Se tu, comunista di un paese a capitalismo avanzato, andassi al governo domani, quali sono le tre-quattro cose fondamentali che faresti? Queste cose per chi sono utili e necessarie? Sono necessarie per te, che portandole avanti esprimi un’identità e/o riproduci un tuo ruolo politico, o sono necessarie a me come lavoratore e come cittadino comune? E come affronterai il conflitto con i poteri economici e sociali che si opporranno alle tue scelte? Come affronterai i rischi sistemici connessi a questo conflitto, come contrasterai il potere di ricatto capitalistico contro politiche redistributive, per il lavoro e ambientaliste?”. Siamo, qui, nel campo della traduzione. Una volta che si sia dotati di un orizzonte di società che incarni meglio degli avversari un’immagine del Nuovo, la si deve tradurre in poche idee-forza (come il “pace e terra” di Lenin citato nell’editoriale) che appaiano però anche razionali, efficaci e necessarie ad affrontare problemi diffusi e urgenti, oltre che a cogliere potenzialità latenti e inespresse. È il terreno della politica come contingenza, come invenzione funzionale ad affrontare determinate fasi politiche. Una contingenza, però, non assoluta, sempre riconducibile a un progetto di società generale capace di mobilitare e suscitare consenso, radicato in tendenze storiche reali.

Della contingenza fa parte anche il terzo terreno di azione, che è quello del rapporto con il senso comune. È inutile dotarsi di un progetto di società e di una sua traduzione potenzialmente efficace, se queste due costruzioni non arrivano al senso comune, e se quando ci arrivano non sono in grado di intercettarne rappresentazioni, bisogni, ambizioni e desideri. Vale la pena di ribadirlo: non solo bisogni, ma anche ambizioni e desideri, che sono il terreno privilegiato dell’egemonia capitalistica.

Da un lato, questo tema riguarda la dimensione della forza sociale e politica (quindi anche elettorale), la capacità organizzativa e comunicativa di arrivare alla popolazione e al senso comune.

La sinistra alternativa contemporanea, soprattutto in Italia, da tempo ha smesso di ragionare nell’ottica dell’acquisizione di forza. Ma le classi popolari non sono interessate a soggetti deboli. Non sono attratte da chi lotta per un quorum. Non hanno bisogno di aggiungere alla propria debolezza un’altra debolezza. Si avvicinano a chi punta credibilmente a “vincere” o almeno si ponga quell’obiettivo. Ragionare nell’ottica dell’acquisizione di forza (quindi della capacità di suscitare adesione e mobilitazione, di comunicare con efficacia e di avere consenso elettorale) significa agire sempre – quasi “ossessivamente” – essendo orientati al mondo esterno e cercando di massimizzare il proprio ruolo e la propria influenza. La sinistra alternativa italiana, negli ultimi anni, nella migliore delle ipotesi si è concentrata sulla gestione dei propri mondi interni, riservando pochissime energie all’elaborazione tattica e strategica. Il terreno della comunicazione è paradigmatico da questo punto di vista. È chiaro e scontato che mezzi di comunicazione capitalistici non diano volentieri visibilità a forze politiche anticapitalistiche. Ma non ci si può limitare a lamentarsi di questo. La propria visibilità bisogna conquistarla, quasi “strapparla”, e ragionare su come lo si possa fare, in una società iper-mediatizzata, è un compito politico ineludibile.

Al tema della forza e della comunicazione è legato quello del discorso politico. Se si riesce a stabilire una connessione con il senso comune, com’è possibile risultare convincenti? Anche in questo caso, il rapporto non può che essere dialettico. Ci si confronta, e si cerca di intercettare, il senso comune e la cultura di massa così come sono, senza fingere o sperare che siano altro. Si utilizzano ai propri scopi rappresentazioni, parole e orientamenti presenti nella cultura popolare e di massa, facendo leva su alcuni, provando a cambiare il senso di altri, aggiungendone di nuovi che non risultino però alieni rispetto al dibattito corrente e a principi, idee e parole già diffusi. Anche questo approccio fa parte dellamigliore tradizione marxista. Gramsci scriveva:

Si presenta una questione teorica fondamentale, a questo proposito: la teoria moderna [cioè il marxismo, NdR] può essere in opposizione con i sentimenti “spontanei” delle masse? (“spontanei” nel senso che non dovuti a un’attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole, ma formatisi attraverso l’esperienza quotidiana illuminata dal “senso comune”). Non può essere in opposizione: tra di essi c’è differenza “quantitativa”, di grado, non di qualità: deve essere possibile una “riduzione”, per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa.

Un’idea di socialismo e di comunismo non può nascere “in opposizione ai sentimenti spontanei delle masse”. Per fare esempi che riguardano il nostro tempo. Se in una certa fase storica le persone sembrano addebitare la maggior parte dei problemi alla classe politica, si deve apparire come i principali avversari del politicismo, del carrierismo e dell’affarismo. Se sembrano ricevere consenso proposte politiche organizzativamente innovative (come attualmente i cosiddetti “partiti digitali”), non ci si può limitare a riproporre strutture e pratiche inventate alla fine dell’Ottocento, che furono invenzioni geniali per la loro epoca.

Se le persone sembrano chiedere alla politica di tornare a essere uno strumento di protezione, dal momento che la politica è ancora principalmente limitata alla dimensione nazionale, non si può inorridire di fronte alla parola “nazione” come se significasse tout court “fascismo”. Si potrebbero fare altri esempi, ma il punto è questo: non si può apparire estranei al senso comune diffuso, se si vuole parlare “al popolo” e non tra sé stessi. Non bisogna nemmeno semplicemente accoglierlo così com’è, anche perché il senso comune non è “una cosa”, ma un insieme frastagliato e frammentario di rappresentazioni e orientamenti anche molto contraddittori tra loro, all’interno dei quali è sempre possibile lavorare dialetticamente, a patto di volerlo fare davvero.


* Loris Caruso insegna Sociologia all’Università di Bergamo. Fa parte della rete di ricercatori e attivisti “Il Cantiere delle idee”


Foto in apertura di Soman da commons.wikimedia.org

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