Per il comunismo del 2021
Raul Mordenti*
Strana e paradossale avventura quella della parola “comunismo”, che è al tempo stesso un concetto, un ideale, un programma, una storia politica, la vita concreta di milioni di uomini e donne sotto il cielo.
La parola “comunismo” deriva dal latino communis che significa “di tutti”, “in comune” (e che è contrapposto a proprius, cioè “di uno solo”), e dunque il comunismo è un fatto, o almeno un sogno, che esiste da sempre: esiste un comunismo primitivo, un comunismo proto-cristiano (cfr. Atti Ap. 2, 44-47; 4, 32-37; e i terribili versetti 5, 1-11), un comunismo medievale monastico (i benedettini) o ereticale (i dolciniani), un comunismo religioso (le “reducciones” dei Gesuiti in Paraguay), un comunismo utopistico nei secoli XVI-XVIII, un comunismo marxista, un comunismo anarchico, il comunismo della Commune di Parigi, il comunismo del Comintern, il comunismo dei movimenti almeno dal ’68 a oggi, etcomunismo, ed esistono oggi esperienze comunistiche nel mondo, specie nell’America-indio-afro-latina dove queste si innestano vitalmente su culture e tradizioni locali.
Il comunismo moderno è segnato dall’incontro con il movimento operaio, e si fa risalire al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels del 1848. È assai significativo che lì si legga che “I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai”1, e ciò che differenzia i comunisti dagli altri sono solo due cose: l’internazionalismo (“mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità”) e la coscienza storica del “movimento complessivo” della lotta fra le classi, in questo “essi hanno un vantaggio” sugli altri proletari in lotta. Ecco dunque una grande lezione, e anche un paradosso su cui riflettere. Segnalo un analogo paradosso nel fatto che il partito di Lenin, il partito che guida l’Ottobre, si chiama Partito Operaio Socialdemocratico Russo, in sigla POSDR (con la gloriosa “b”, per bolscevico)2.
L’aggettivo “comunista” qualificherà i partiti della III Internazionale comunista fondata nel 1919 per sostenere la rivoluzione nel mondo (e per difendere la Russia rivoluzionaria3), e viene da lì anche il nome del Partito italiano fondato a Livorno nel 1921.
Sottolineo che a definirsi “comunisti” furono i partiti (e non tutti) ma mai gli stati: nessun marxista definì mai “comunisti” gli stati dell’Urss o della Cina o di Cuba etc., per i quali si usò sempre l’aggettivo processuale di “socialisti”.
Tre “riduzioni”, false e disoneste, sul comunismo.
Questa lunga, ma necessaria, premessa serve a dire che parlando del comunismo vengono di solito operate una serie di successive riduzioni assolutamente intollerabili:
i) si riduce l’idea e la proposta del comunismo al solo comunismo di ispirazione marxista;
ii) si riduce il comunismo marxista alla sola esperienza storica dell’Urss;
iii) si riduce l’esperienza dell’Urss alla sola direzione staliniana, e anche quest’ultima si riduce solo agli errori e agli orrori di Stalin.
Io credo che i comunisti non possano partecipare a questo gioco di riduzioni, falso storicamente e disonesto intellettualmente. Ci sono state, ci sono e ci saranno, esperienze e proposte di comunismo che non c’entrano proprio nulla né con Stalin né con l’Urss (e spesso neanche con Marx), e che non possono in alcun modo essere inchiodate a quella vecchia croce. Fra queste esperienze c’è senz’altro quella di Rifondazione ma c’è anche – a mio avviso – la maggior parte dell’esperienza del PCI, certamente nella fondativa ispirazione di Gramsci ma pure in gran parte della politica togliattiana4, ciò che rende ancora più insensata e irresponsabile la scelta di Occhetto & Co. di identificare di fatto il PCI con l’Urss facendo coincidere lo scioglimento del primo con il crollo della seconda. Veramente è privo di senso (ma non è privo di danni) che i comunisti italiani debbano chiedere scusa dello stalinismo. Abbiamo cose più serie e più urgenti da fare. Quel po’ di democrazia che esiste in Italia è stata conquistata e difesa anzitutto dai comunisti, e questo merito storico non si è esaurito con la Resistenza e la Costituzione ma è proseguito per tutti i decenni di vita della Repubblica, estendendosi (oso dirlo) anche alle nostre generazioni. Noi siamo vissuti in una sorta di colpo di stato permanente, sempre sventato ma sempre operante nella politica italiana5: da Scelba alla “legge truffa” del ’53, dal Luglio ’60 al “rumor di sciabole” del ’64, dal “golpe Borghese” al terrorismo e alla strategia della tensione, fino all’assassinio di Moro nel 1978; e dopo, abbiamo avuto le bombe, la presidenza di Cossiga, la P2 di Gelli e il suo “piano di rinascita” attuato, pezzo dopo pezzo, da Berlusconi e dai governi di centrosinistra6, fino ai recenti tentativi di Renzi-Verdini. I nemici della democrazia sono sempre gli stessi: il triangolo fascisti, servizi segreti e americani, con la massoneria spesso a funzionare da collante del triangolo. Anche i difensori della democrazia italiana sono sempre gli stessi: prima il PCI, poi, man mano che questo si annichiliva, i nuovi comunisti, fino a Rifondazione comunista.
Cosa ha reso dominante la narrazione anti-comunista: la più grande battaglia ideologica del Novecento
Ma c’è di più: nella vulgata dominante a proposito del comunismo viene compiuta un’altra operazione inaccettabile, cioè si sovrappone un giudizio di tipo morale al giudizio storico-politico e si annulla completamente il secondo nel primo. Intendiamoci: si può e si deve discutere anche degli aspetti morali del nostro fare politica, anzi questi aspetti sono certamente più importanti per i/le comunisti/e che per tutti gli altri. Ma se si discute così, mettendo al primo posto la morale, allora questo criterio deve poi valere per tutto e per tutti, e non solo per dannare i comunisti col pretesto di Stalin.
Direi che, se la guardiamo con un tale sguardo morale, l’intera storia dell’umanità diventa quella collezione di nefandezze che vide in essa il più grande scrittore italiano, Elsa Morante7. Nell’epoca moderna, questa spaventosa galleria di tragedie che è la storia ci parla soprattutto della borghesia e del capitalismo che hanno dominato il mondo, non certo del proletariato e dei comunisti che a quel dominio hanno cercato di opporsi.
Sono frutti avvelenati del dominio della borghesia sul mondo: la schiavitù, quel crimine fondativo della modernità che fu la conquista dell’America, il colonialismo genocida esteso a tutto il pianeta, e poi i fascismi e l’imperialismo, la catena ininterrotta di guerre fino alle due terribili del Novecento, Auschwitz e Hiroshima, e ancora nell’ultima parte del XX secolo e nella prima parte del XXI aggressioni, colpi di Stato, terrorismo, sostegno a feroci dittature, patriarcato e omofobia, persecuzioni, razzismi, galera e torture, rapina sistematica delle risorse dei popoli che si spinge fino alla distruzione ambientale del pianeta che è ormai sotto i nostri occhi. Davvero, se i corifei della borghesia vogliono discutere della storia con noi comunisti/e mettendo al primo posto la morale ci invitano a nozze.
E allora dobbiamo domandarci: se è così inconsistente la narrazione anti-comunista, fondata come abbiamo visto su grossolani trucchi logici e argomentativi, come mai una tale narrazione anti-comunista è dominante, fino ad aver reso il rifiuto del comunismo addirittura senso comune per larghe masse, anche di oppressi/e e di sfruttati/e?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire che per ottenere la proibizione del comunismo perfino nel senso comune, è stata combattuta da parte degli addetti all’egemonia del capitale la più grande battaglia ideologica del Novecento, una battaglia che essi hanno vinto quasi senza combattere, o almeno senza che noi ci siamo impegnati in essa come invece sarebbe stato necessario e possibile.
In questa epocale battaglia delle idee e dei valori il capitale ha impegnato i suoi intellettuali (direttamente arruolati alla bisogna), filosofi, storici, giornalisti, predicatori, artisti addetti all’immaginario e – non scordiamocelo mai – una immensa quantità di capitali e un’organizzazione formidabile e capillare, a cominciare dai mass media di cui detiene il monopolio in Occidente, i giornali, il cinema, le tv e perfino i cartoni animati. Tutto ciò ha dimostrato nei fatti un pervasivo e molecolare potere di persuasione. Così l’anticomunismo ha potuto invadere e dominare perfino l’immaginario. Ci si potrebbe domandare quanto sia costato al capitale impedire che le masse conoscessero i crimini dell’imperialismo ma anche (per sorridere un po’) quanto abbiano speso per far sì che le immagini delle file in Urss apparissero segno di miseria e dittatura e invece le medesime file in Inghilterra apparissero segno di civismo e libera auto-disciplina.
Credo che questi processi di intenzionale costruzione politica dell’immaginario delle masse, a cui il capitale dedica grande attenzione (e grandi investimenti) dovrebbero essere fatti oggetto di studi e riflessioni da parte nostra. Se Gramsci fosse vivo studierebbe queste cose.
Ma allora perché non abbandonare il comunismo?
Ma se le cose stanno così, se cioè noi oggi dobbiamo rimontare una formidabile interdizione del comunismo operata dall’ideologia dominante, ci si potrebbe chiedere perché mai conservare allora il nome di comunisti? Non sarebbe più comodo, più ragionevole inventarsi un altro nome a cui ispirarci? Questa domanda va presa sul serio, e vorrei motivare il mio convinto “no” con due considerazioni.
La prima considerazione riguarda la nostra stessa esperienza; io sono abbastanza vecchio da ricordare almeno una mezza dozzina di tali astuti abbandoni del riferimento al comunismo: prima ancora di Occhetto, il soggetto “arcobaleno” che si doveva fare con DP, Pannella e Rutelli (qualcuno se lo ricorda?), e poi il PDS e il PD e le numerose scissioni a destra di Rifondazione, fino a SEL; ogni volta ci garantivano che l’abbandono del riferimento al comunismo nulla avrebbe tolto alla radicalità anticapitalistica del nuovo soggetto non più comunista. I risultati si sono visti. I risultati sono riassunti e simboleggiati (per non dire dei piddì) da figure come Pisapia, che ha votato al Parlamento europeo l’equiparazione fra comunismo e nazifascismo, o come Gennaro Migliore che veleggia fiero nel partitino di Renzi con lo sguardo fisso a un posto nel Governo, quale che sia. Se tre indizi rappresentano una prova, cento prove come queste rappresentano la certezza che l’abbandono del riferimento al comunismo comporta l’approdo al corrompimento opportunistico.
Ma c’è un’altra considerazione a sostegno del mio “no”, forse meno corriva di questa prima. L’abbandono del riferimento al comunismo comporta il rifiuto della storia, presuppone che tutto nasca oggi, con noi, senza alcun precedente. Ora un tale gesto è filosofico-culturale ma è più gravido di conseguenze politiche di quanto possa sembrare. Infatti l’“eterno presente” è esattamente l’ideologia del capitalismo globale trionfante, il capitalismo realizzato, che cancella la storia del passato perché aspira a negare la storia del futuro, affermando che tutto è come è e che nessuno sviluppo della storia umana sarà mai più possibile. E invece la storia non è affatto finita con il trionfo del capitalismo finanziario. Per questo è così importante l’affermazione comunista “Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano”, cioè capire che il bisogno di comunismo è inserito in un grande processo di liberazione dell’umanità che non si vuole e non si deve fermare.
Dunque il nostro essere comunisti non deriva dal rimpianto sentimentale di un comunismo che non c’è mai stato, bensì dal rifiuto razionale del capitalismo che c’è e della catastrofe che esso minaccia per l’umanità (su cui attira l’attenzione papa Francesco). Basta guardare che cosa sta succedendo là fuori non per restare comunisti ma per diventare comunisti, cioè per sforzarci giorno e notte di progettare la rivoluzione oggi e qui, prima che sia troppo tardi. Analizzare creativamente le nuove e irrisolvibili contraddizioni del capitalismo e agire dentro di esse il conflitto di classe nelle sue attuali inedite forme è dunque il compito oggi fronte a noi comunisti/e del 2021. In questo compito un contributo prezioso ci viene dalla lezione di chi ci ha preceduto, come i/le comunisti/e che – in una situazione certo non meno difficile della nostra – ebbero la forza di aprire a Livorno nel 1921 una nuova grande pagina della lotta di classe.
1 Friedrich Engels e Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista, Capitolo II “Proletari e comunisti”.
2 Solo nel marzo 1928 il POSDR(b) si chiamerà Partito Comunista Russo e poi (ma solo dal 1952) Partito Comunista dell’Unione Sovietica, PCUS.
3 L’Internazionale Comunista durerà solo dal 2 marzo 1919 al 25 maggio 1943, quando si sciolse, anche in nome della grande alleanza antifascista.
4 Qui cito solo la “svolta di Salerno”, il “partito di massa”, il V Congresso, etc. Ma una seria analisi di questa grande politica richiederebbe ben altro spazio; essa è sempre mancata in Rifondazione, e sarebbe bello che il centenario della fondazione del PCI fosse l’occasione per un serio convegno di studi tante volte invocato (e anche deliberato, ma invano, dal Congresso di Napoli).
5 Deriva da qui l’affermazione di un collaboratore di Borghese secondo cui quel golpe non fu affatto sconfitto, giacché ha conseguito gli obiettivi che si era prefisso: bloccare l’avanzata della sinistra e impedire un Goverrno con il PCI.
6 Un pezzo cruciale del piano di Gelli, l’abolizione della legge elettorale proporzionale, è purtroppo passato e senza adeguata opposizione: se ne vedono le micidiali conseguenze per la nostra democrazia.
7 Il riferimento è a tutta l’opera, ma si vedano in particolare le pagine introduttive a La Storia, Einaudi, 1974, pp.7-12.
* Raul Mordenti, comunista, ha militato nel movimento studentesco del ‘68 e nel movimento del ‘77. Ha partecipato alla fondazione del PRC provenendo da Democrazia Proletaria. È stato professore ordinario di “Critica letteraria” all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Si è occupato di didattica della letteratura, di informatica umanistica, di Boccaccio, di De Sanctis e di Gramsci.
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