Rapina globale. La resistenza dei popoli contro l’estrattivismo
Claudia Fanti*
Sono gli eroi del nostro pianeta: difendono le foreste, le acque, la biodiversità dalle mani rapaci di imprese locali e straniere e più in generale da quel processo di appropriazione violenta dei beni comuni in corso praticamente in ogni regione del mondo. Spesso pagano con la vita. I loro nomi sono spesso sconosciuti e il numero degli omicidi è noto probabilmente solo per difetto. Ma, secondo l’ultimo rapporto della Ong Global Witness, il 2020 è stato per loro l’anno peggiore mai registrato: almeno 227 attiviste e attivisti impegnati nella cura della casa comune sono stati assassinati, 4 ogni settimana.
La regione più pericolosa al mondo resta l’America latina, con il 75% degli omicidi. E 7 dei primi 10 Paesi della lista si trovano qui.
Il paese in cui costa più cara la lotta per la tutela del territorio e delle sue risorse è, anche nel 2020, la Colombia, con 65 omicidi (uno in più dell’anno precedente), quasi il 30% del totale. Al secondo posto della lista sale il Messico, il quale passa dai 18 leader assassinati nel 2019 ai 30 del 2020, scalzando così le Filippine, con 29. Seguono il Brasile con 20 (erano 24 l’anno prima), l’Honduras con 17 (più 3) e poi la Repubblica Democratica del Congo (15), il Guatemala (13), il Nicaragua (12), il Perù (6).
La cause degli omicidi – tutti, tranne uno, avvenuti nel Sud del mondo – sono quelle di sempre: deforestazione, attività mineraria, agribusiness, centrali idroelettriche e altre infrastrutture. Il tutto in un quadro reso sempre più grave dall’effetto combinato della crisi climatica, degli incendi boschivi, della siccità che distrugge i terreni agricoli e delle inondazioni che provocano migliaia di morti.
Sul banco degli imputati si trova in particolare il modello estrattivista, nel significato più ampio che il termine ha assunto in America Latina ma anche in tutto il Sud globale e oltre: quello di un sistema plasmato da un’economia di conquista, furto e saccheggio, di mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza.
La nuova corsa all’oro
Un modello, questo, che non comprende solo l’industria propriamente estrattiva, quella, cioè, degli idrocarburi e dei metalli preziosi, ma anche le monocolture – di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto – che avanzano in maniera inarrestabile a scapito di foreste e di comunità indigene e contadine, come pure le grandi infrastrutture necessarie all’esportazione delle materie prime. È insomma una «nuova corsa all’oro», ma più devastante di quelle che l’hanno preceduta.
Come scrive Raúl Zibechi in un libro interamente dedicato a tale questione (La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina, edito in Italia nel 2016 da Hermatena), “negli spazi dell’estrattivismo, la democrazia si indebolisce e cessa di esistere e gli Stati vengono subordinati alle grandi imprese, al punto che la gente non può contare sulle istituzioni per proteggersi dalle multinazionali”. Cosicché, sottolinea Zibechi, quello che viene definito “estrattivismo”, lungi dal costituire appena un modello economico, è assai di più: è un modello di società “nel periodo di crisi del sistema-mondo e di evaporazione delle istituzioni legittime”, a cominciare dallo Stato-nazione.
Non a caso, spiega Zibechi, gli zapatisti hanno definito questa società estrattivista come “quarta guerra mondiale”: una guerra “contro i popoli, che si sono trasformati in ostacoli all’accumulazione/rapina dei beni comuni”, una guerra in cui soccombe circa la metà dell’umanità, quella che non ha un posto per vivere né un impiego degno di questo nome; quella i cui figli, per la prima volta, “ottengono risultati peggiori dei padri e dei nonni”; quella la cui ribellione è soffocata da una violenza “applicata in tutti gli angoli della società”, come risposta dei ricchi “per mantenere i loro privilegi di fronte a una massa sempre più aggressiva”; la violenza – esercitata indistintamente da poteri statali, parastatali e privati – che imperversa nella “zona del non-essere”, cioè nel luogo di “coloro a cui viene negata la condizione umana”.
A tale modello non sfugge, in America Latina, praticamente nessun paese, che sia governato da forze conservatrici o progressiste, e indipendentemente da quanto la sua Costituzione sia avanzata in termini ambientali, come lo è indiscutibilmente nel caso dell’Ecuador o della Bolivia. Dietro le parole d’ordine della crescita economica, dell’attrazione degli investimenti e della promozione delle esportazioni, tutti i governi, chi più e chi meno, sostengono infatti in maniera esplicita le imprese estrattiviste (statali, miste o private), offrendo facilitazioni o flessibilizzando le norme ambientali. Cosicché, al di là di vaghi riferimenti alla questione ecologica e persino di invocazioni alla Pacha Mama, la Madre Terra, i temi ambientali sono visti piuttosto come ostacoli alla crescita economica, e, nel caso dei governi progressisti, anche all’assistenza economica delle fasce più povere. Le conseguenze non hanno mancato di farsi sentire in termini di perdita di sovranità economica e politica sulle risorse naturali, di devastazione ambientale di grandi dimensioni, di espulsione di popolazioni locali dai territori ricchi di materie prime, esposti a invasioni di ogni tipo. Un altro portato di questo processo è la delegittimazione, repressione e criminaliz- zazione dei movimenti sociali, soprattutto indigeni, tutti indistintamente accusati di voler fare i “guardaboschi” dei Paesi sviluppati, di “fare il gioco della destra”, o di esserne addirittura l’espressione.
Che i governi progressisti, soprattutto nella stagione “d’oro” di Chávez, Lula, Kirchner, Mujica, Morales e Correa, abbiano adottato importanti misure a favore delle fasce più povere è un dato incontestabile, ma, nel corso degli anni, si è fatta anche sempre più evidente la loro incapacità di tracciare cammini di transizione verso una società più ispirata ai principi dell’ecosocialismo. E così, ripiegando verso il consolidamento del modello estrattivista – anziché utilizzarne le risorse per promuovere progetti tali da consentire di superarlo – non solo hanno scatenato aspri conflitti nei territori, ma hanno reso le economie dei propri Paesi estremamente fragili e dipendenti dalle vicissitudini del mercato mondiale, accentuando la dipendenza dall’estero e finendo spesso anche per sostituire l’influenza nordamericana con quella del nuovo imperialismo cinese.
E per quanto, sotto tali governi, lo Stato abbia assunto un ruolo di rilievo nell’attività estrattiva al fine di beneficiare la società più in generale, anziché arricchire semplicemente le transnazionali come avviene con i governi neoliberisti, l’estrattivismo ha continuato comunque a provocare l’espulsione delle comunità rurali, ad avvelenare le fonti d’acqua, a distruggere il suolo e a indebolire l’autonomia territoriale indigena. Né è apparso mai convincente il proposito di incentivare tale modello fintantoché sia necessario rispondere alle necessità sociali di popolazioni impoverite da decenni di neoliberismo, per poi, appena raggiunte condizioni materiali minimamente dignitose, dare il via alla transizione verso un nuovo tipo di società, non essendo questo nient’altro che un modo di rinviare l’obiettivo a tempo indeterminato, mantenendolo a un innocuo livello di aspirazione.
Estrattivismo vs buen vivir
Tra tutti gli attivisti ambientali, sono proprio gli indigeni, secondo il rapporto di Global Witness, a pagare un prezzo più alto, con oltre un assassinio su tre, benché le comunità indigene costituiscano solo il 5% della popolazione mondiale. Sono proprio loro del resto – gli sconfitti della storia ufficiale scritta a lettere di sangue dai fautori, bianchi, occidentali e cristiani, di un modello predatorio – i veri custodi della natura che l’umanità sta distruggendo e sono loro – in lotta da sempre per affermare il loro diritto all’esistenza e per difendere le loro culture, i loro valori, la loro spiritualità cosmica, olistica, integrale – a offrire una speranza concreta di cambiamento, magari un’anticipazione del mondo che verrà (se verrà). Un mondo in cui l’essere umano possa vedere finalmente se stesso come parte della natura, anziché come qualcosa di separato e superiore, e la natura come soggetto di diritto, anziché come deposito di oggetti inanimati, stabilendo con essa un rapporto di armonia e contribuendo “dall’interno” al suo equilibrio.
Una presenza, quella indigena, a cui si lega, attraverso i più diversi cammini di lotta, un ricco e diversificato filone di pensiero critico, caratterizzato da nuove proposte sull’esercizio del potere e sul rapporto con la natura – sotto forma di cosmovisioni contrapposte a quella occidentale e ai suoi tratti assolutisti, fondamentalisti e unilineari – e riconducibili in vario modo al concetto, decisamente plurale, di Buen vivir. Con tutto il potenziale rivoluzionario di tale visione, nel suo significato di opzione di vita per tutti, di vita in abbondanza – in un’armoniosa convivenza in cui tutti si preoccupino di tutti e in cui tutti si prendano cura della Pachamama, la Madre Terra -, in opposizione al modello capitalista, profondamente escludente, etnocida ed ecocida, del “vivere meglio”, meglio dell’altro o a spese dell’altro, che si traduce puntualmente nel dilagante “mal vivere” delle nostre città escludenti.
Ed è proprio per questo che quella indigena è anche una presenza al centro di una triste catena di conflitti, legati all’invasione, nei territori dei popoli originari, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti, aziende del legname, mega piantagioni di monocolture, parchi eolici, progetti immobiliari e, conseguentemente, alla contaminazione delle loro terre, dei loro fiumi, dei loro laghi, della loro aria. Un’invasione a cui i popoli indigeni resistono come hanno sempre resistito, vivendo e costruendo alternative: saldi nella consapevolezza che, come recita un detto messicano, “Hanno provato a seppellirci, ma non sapevano che eravamo semi”.
* Claudia Fanti è giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale “Adista” e collabora con “il Manifesto” e con altre testate. Esperta di movimenti ecclesiali e sociali dell’America Latina e di ecoteologia, è co-fondatrice dell’Associazione Amig@s Movimento Senza Terra Italia. Tra le sue pubblicazioni: “El Salvador. Il vangelo secondo gli insorti” (2007) e “La lunga marcia dei senza terra. Dal Brasile al mondo (con M. Correggia e S. Romagnoli) (2014). Ha inoltre curato la serie di volumi “Oltre le religioni”, con José María Vigil.