Scienza e umanesimo: dall’antitesi ad una nuova sintesi

Massimo Zucchetti*

La scienza non pensa?

La categoria etica nella quale si collocano la scienza e chi la esercita, cioè lo scienziato, è stata fino alla metà del secolo scorso di tutto riposo. Immersi in un comodo limbo di neutralità, con lo scienziato tecnologo “homo faber” che risolveproblemi: era pacifico che si lasciassero ad altri – o ad altre incarnazioni di se stessi – il pensiero, la filosofia, l’etica.

La frase di Heidegger “la scienza non pensa”1 risale all’inizio degli anni ‘50 dello scorso secolo.

Questa frase si è prestata, da quando la scrisse il filosofo, a molte interpretazioni, alcune delle quali in senso riduttivo, quasi ad affermare che ilpensiero umano, nella sua accezione più alta, fosse terreno estraneo alla scienza materiale. In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene – non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta,come vedremo, di una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi. Heidegger, anzi, riflette sulla giustezza di questi comodi confini e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare.

Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di ‘neutralità della scienza’, la quale secondo alcuni – come per esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg2 – dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico. L’indubbio successo di quest’ultimo, e dello “spingere avanti la frontiera della conoscenza”, fraintesa come quella esclusivamente materiale, ha portato al nascere di un territorio quasi franco: la ricerca e la scienza si occupano di acquisire nuove conoscenze, che – progressivamente assommate – contribuiranno in qualche modo al “Progresso”, quello con la P maiuscola.

La scienza e la ricerca dovrebbero quindi essere libere da legacci ideologici ed impacci morali? Spingendo all’estremo questo ragionamento scientista – così comune in molti ‘scienziati applicati’ – ogni scoperta, ogni nuova frontiera della ‘conoscenza’ valgono di per sé. La scienza sarebbe allora – in una visione neopositivista quasi da Ballo Excelsior – sempre buona, ogni progresso della conoscenza sarebbe comunque un progresso, e quindi non esisterebbe lo scienziato immorale: se mai, egli è amorale, in quanto si pone – verso le questioni che riguardano le conseguenze delle propriescoperte – con un atteggiamento di neutralità. Non si parla quindi – dicendo che ‘la scienza non pensa’ – di un recinto entro il quale la scienza è costretta, ma di una comoda riserva nella quale la scienza vorrebbe autocollocarsi, una riserva che consente di andare a caccia di nuove scoperte senza le limitazioni imposte dal sociale e dalla morale, concetti percepiti dallo scienziato come intrinsecamente distanti dal proprio ambito di lavoro. Lo scienziato, puro o applicato, rimane sempre in realtà uno scienziato “puro”: anche l’invenzione della dinamite da parte di Alfred Nobel – per citare un esempio paradigmatico – costituisce comunque un progresso della conoscenza umana. La “libertà di ricerca” è sacra, una sorta di religione moderna dello scienziato, “neutrale” in quanto si muove in un terreno dove conta, unico principio, il progresso della conoscenza. Sta poi allo scienziato sociale, al filosofo, al politico, al giurista, stabilire – in un secondo momento, casomai – quali siano gli utilizzi moralmente appropriati della scienza: non allo scienziato ‘puro’. Perché la scienza, appunto, non pensa: ha ben altro di cui occuparsi.

Da panacea ad origine di tutti i mali

La prima metà del Novecento è caratterizzata, nell’ambito dello sviluppo delle scienze fisiche, dalla cosiddetta “Era Atomica”, iniziata con la scoperta della radioattività e culminata, nell’agosto del 1945, con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Fu proprio in questa occasione che l’ideologia della neutralità della scienza, con l’esplicito rifiuto da parte degli scienziati di considerarsi corresponsabili dell’uso delle proprie scoperte, mostrò per la prima volta in modo clamoroso la sua terribile inadeguatezza. La verifica delle potenzialità distruttive delle nuove armi atomiche causò, oltre ad una profonda impressione sull’opinione pubblica di tutto il mondo, una necessaria riflessione e la ‘crisi di coscienza’ di chi a questi progetti lavorava.

Un esempio, nel primo senso, è quello di Bertolt Brecht, che sentì la necessità di modificare una delle scene finali del suo dramma Vita di Galileo3. In un primo tempo, l’autore aveva presentato la scienza come un formidabile strumento di progresso, capace di distruggere le superstizioni, per mezzo delle quali i potenti tengono incatenati gli schiavi. Dopo Hiroshima e Nagasaki, Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, bensì l’uso sociale che viene fatto di essa. Gli scienziati, dunque, devono farsi carico di una precisa responsabilità etica circa l’uso delle proprie scoperte, pena il loro drammatico allontanamento dalla società umana. Ritornando all’affermazione di Heidegger, egli vuole in realtà mettere in evidenza il pericolo che si prospetta per l’umanità se “la scienza non pensa”. Il filosofo vuole “chiamare in causa” la scienza, indicando le pericolose conseguenze della chiusura nel recinto tecnico-scientifico nel quale essa – e lo scienziato – pretendono di muoversi comodamente. Si tratta quindi di una provocazione, un invito a riflettere più profondamente su ciò che la scienza e la tecnica rappresentano per l’uomo contemporaneo, “uomo tecnologico” come mai è avvenuto prima nella storia: “proprio perché la scienza non pensa, il pensiero deve nella situazione attuale prestare insistentemente attenzione alle scienze – ciò che esse non sanno fare per loro conto”.

La scienza non pensa, nel senso che essa indaga intorno a un fenomeno senza metterlo in questione come tale. Heidegger pone pertanto l’accento sull’esigenza di compiere invece un ulteriore percorso: il compito del pensiero è proprio quello di elevarsi oltre il singolo settore scientifico particolare della scienza e della tecnica, arrivando a contestualizzare la conoscenza materiale in un ambito più ampio. Lo scienziato Pierre-Gilles de Gennes, premio Nobel per la fisica 1991, ebbe a dire nel suo discorso di accettazione del premio che, dopo il 6 agosto 1945, l’onore degli scienziati si trova sotto tiro. Ogni fisico è da considerarsi corresponsabile dei morti di Hiroshima. Anche se inattive, per il momento, le armi nucleari sono all’origine di un’enorme diffidenza nei confronti della ricerca. E a questo bisogna far fronte. Dov’è, di fatto, l’onore degli scienziati? Dal singolo aspetto, al molteplice: i ricercatori sono considerati responsabili in un senso molto ampio: responsabili delle armi, dell’inquinamento o dei dilemmi biologici del futuro. Tuttavia, nei fatti, gli scienziati hanno scarso peso al momento delle grandi decisioni attinenti, per esempio, alla difesa, all’energia o agli investimenti industriali. E neppure hanno completa libertà d’espressione. Ma “Science is the rape of nature”: la scienza è una violazione della natura. Ecco quello che viene proclamato dall’anti-scientismo, specie negli Stati Uniti.

Essere scienziato

L’onore di uno scienziato non è solamente quello di far conoscere delle leggi naturali. Deve anche mostrare a cosa queste servono: la conoscenza è – di per se stessa – lotta alla segretezza: la scienza non può definirsi tale se è patrimonio di pochi, ammantata di segreto, funzionale al potere e alle sue stanze, distante e incomprensibile.

Il secondo dopoguerra è stato tale da accentuare questo distacco. La paura della bomba atomica ha un risvolto psicologico interessante, fatto di un misto di timore/attrazione verso l’ignoto, che si manifesta in un culto millenaristico e para-religioso del non conosciuto, di adorazione/rigetto del segreto in quanto mistero eleusino per iniziati. La tecnologia moderna – nucleare e non – complicata per definizione e resa incomprensibile e distante per l’uomo dalle regole di mercato, deve venire allora percepita e classificata, per reazione e necessità, come un surrogato tecnicistico dell’essere superiore, malvagio o benigno, da adorare o odiare a seconda dei punti di vista. Ciò può manifestarsi in atteggiamenti apparentemente diversi, ma che hanno la connotazione comune appena evidenziata. Da un lato, chi ripone nella scienza tutta la sua fiducia entusiasta, convinto di essere beneficiario del progresso; dall’altro chi ne ha un perplesso rispetto, e in cuor suo ne teme gli effetti, pur contando su inattesi vantaggi; e infine chi aborre istintivamente tutto quanto “puzza di scienza” e coltiva verso di essa unadiffidenza totale. In tutti e tre i casi, l’approccio in ultima analisi irrazionale costituisce una comune matrice. Questo approccio ha come ulteriore conseguenza la trasformazione dello scienziato in sacerdote o aruspice, dotato di una morale indipendente, ovvero di nessuna morale, in quanto studioso in diretto colloquio con la divinità, in contatto con “i misteri e i segreti della scienza”. Quest’ultima formula, inoltre, contiene una evidente contraddizione in termini: vanifica lo scopo stesso della scienza, che è quello di spiegare i segreti della natura svelandone gli apparenti misteri. Così come lo scienziato, trasformato in santone, costituisce nient’altro che la negazione di se stesso.

Partecipazione e trasparenza

Se quindi è vero che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, ma è necessario un approccio laico e non iniziatico alla conoscenza, possiamo individuare fra gli scopi primi dello scienziato la lotta contro il segreto. Un meccanismo della natura, una volta scoperto con la ricerca scientifica, deve diventare pubblico, deve essere compreso e reso fruibile, in quanto accettato, dall’umanità nel suo insieme e non da una ristretta minoranza. La segretezza, sia essa militare o industriale, genera necessariamente ignoranza ed è quindi negazione della scienza stessa.

Negli USA, l’abbraccio fra la ricerca e i militari si è fatto sempre più soffocante: una percentuale intorno al 57% della ricerca è finanziata dal ministero della difesa, in quantità persino maggiori che durante gli anni più caldi della guerra fredda. Ma qual è il prezzo che paga la ricerca fondamentale? E come cambierà il ruolo che gioca la scienza nella società? Lo scienziato embedded, finanziato per la sua big science dal capitalismo, prodigo di fondi solo in caso di tornaconto immediato, come potrà pretendere di essere obiettivo?

Di recente, la figura dello scienziato nucleare quale emblema dell’asservimento dei tecnici è assai sbiadita. La fine della guerra fredda e l’opportunità del ricorso in guerra ad armi convenzionali, per le quali non vige la ‘maledizione di Hiroshima’, ha messo in evidenza una nuova figura: lo scienziato dual use. Si intende con dual use una tecnologia che si suppone abbia utilizzi sia civili che militari. Molti esempi si trovano nel campo dell’elettronica e dell’informatica: dall’elettronica “di controllo” per aeromobili e missili, al remote sensing, il controllo dall’alto – via satellite – sviluppatocome aiuto all’agricoltura e alla meteorologia, ma che ha molte ed evidenti applicazioni militari e di intelligence (una volta chiamate più prosaicamente di spionaggio).

Abbiamo così una nuova razza di scienziati- guerrieri: novelli Giano Bifronte, hanno una faccia rispettabile e “civile”, e poco importa che buona parte dei finanziamenti provenga dall’industria bellica. Quest’ultima, poi, sfrutta volentieri l’immagine che le deriva dal finanziare la ricerca civile.

Ma vi è ancora una categoria di scienziati assai più ampia della precedente. Si tratta di coloro che ritengono la scienza e la tecnologia “neutre”: purtroppo, l’analfabetismo etico porta, come abbiamo visto, a vanificare la scienza nella sua vera accezione. Di simili “Tecnici a Responsabilità Limitata” abbonda il mondo scientifico.

L’era atomica ha segnato una sorta di crinale etico. Gli scienziati nucleari di quella generazione hanno stabilito, per così dire, un precedente; alcuni di essi hanno poi indicato – magari faticosamente – una linea etica: tocca ad ognuno, nel proprio campo, trovare e seguire la propria. Non è possibile concludere senza citare George Orwell e il suo 1984. Le guerre – e tutte le tecnologie che stanno loro dietro – non sono che il mezzo che le società oppressive (ovvero, che mirano al controllo delle risorse da parte di pochi) hanno inventato per “consumare” periodicamente le risorse che l’umanità produce con il proprio lavoro, distraendone l’attenzione e l’ingegno dai problemi reali. Si evita in questo modo un progresso reale troppo velocedell’intera umanità, che sarebbe difficilmente controllabile dai padroni attuali del mondo e che – sconvolgendo gli equilibri vigenti – li sbalzerebbe fatalmente di sella. Le guerre, distruggendo risorse e consumando risorse, generano povertà, e proprio sulla povertà di una parte del mondo basa la propria esistenza quell’altra parte, quella parte alla quale anche noi, che qui scriviamo e leggiamo, apparteniamo.

Se questo è vero, è indispensabile che scienziati e tecnici ‘pensanti’ rifiutino di appartenere a questa schiera. La scienza ha bisogno di esseri umani che utilizzino completamente – e non solo a compartimenti stagni – il proprio intelletto, per poter mantenere la scienza nell’alveo di un nuovo umanesimo.


Invito alla lettura:

M. Zucchetti (a cura di), Contro le nuove guerre, Odradek, 2000.

M. Zucchetti, Guerra Infinita, Guerra Ecologica, Jacabook, Milano, 2003.

M. Zucchetti, L’atomo militare e le sue vittime, UTET, Torino, Aprile 2008; pp.256.

G. Salio, M. Zucchetti, Scienziati nucleari per la pace. Gli studi sulla proliferazione e sul nucleare, Atti del Convegno Gli occhiali di Nanni, C.S. Sereno Regis, Torino, 2017; in Letture Profetiche inedite, (Giovanni Salio, ed.), Agorà & Co., Lugano, Svizzera, 2017, pp. 93-108.


1 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988.

2 A. Ludovico, Effetto Heisenberg. La rivoluzione scientifica che ha cambiato la storia, Armando Editore, Roma, 2001.

3 B. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, Milano, 2015


* Massimo Zucchetti (Torino, 1961) è un ingegnere e accademico italiano, docente al Politecnico di Torino e Research affiliate presso il Massachusetts Institute of Technology di Cambridge (USA). È iscritto a Rifondazione Comunista, ed è membro del comitato scientifico dell’Associazione Culturale “La Poderosa” di Torino. Altre informazioni su https://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Zucchetti

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