Raccontare il lavoro e immaginare il cambiamento 

Simona Baldanzi*

Sono cresciuta nei condomini di Via del Lavoro in un paese della provincia fiorentina. Alla fine della strada c’era e c’è Via Gramsci con la fabbrica dei famosi jeans Rifle dove lavoravano i miei. Via del Lavoro ha delle strade traverse: per esempio, via del Piano e via G. Di Vittorio, da dove passi per andare in piazza. La meravigliosa toponomastica ha segnato una mappa cognitiva ed emozionale, proprio come cantano gli Offlaga Disco Pax nel brano Robespierre. Spesso quando mi chiedono perché racconto il lavoro, parto da qui. 

Devo confessare dunque che non ho scelto di raccontare il lavoro. Era tutto intorno a me e ben tracciato. Era in casa, con le vestaglie blu appese, con le chiacchiere e i racconti dei miei genitori, con il loro modo di parlare, un lessico operaio che acquisivo senza saperlo fin quando non lo usavo fuori e si scontrava con altre parole e linguaggi, con la tv che parlava di povertà e io che chiedevo sempre: “ma noi siamo poveri o siamo ricchi?”, e i miei non è che mi dessero risposte nette. Non eravamo certo ricchi, ma neppure così poveracci. Se c’era un’emergenza coi denti però mia mamma un po’ si agitava. E allora che condizione è la nostra?

Distruggere e costruire immaginari 

Crescevo e facevo domande e i miei erano sempre un po’ vaghi, o perlomeno io non mi sentivo mai sazia e allora chiedevo a scuola. Già alle scuole elementari, quando ero incaricata di raccogliere i buoni mensa, chiedevo perché alcuni bambini, pur benestanti, avessero il buono scontato come quelli in difficoltà. Non avevo certo idea di cosa fosse l’evasione fiscale. Ricordo ancora l’espressione di mia mamma: “ne hai ancora da vedere!”. Ecco io le “intravedevo”, ma non riuscivo a vederle, a spiegarle e neanche gli adulti erano poi così bravi da farmi capire. Era tutto un costruire e distruggere immaginari, spesso in solitudine. 

Ricordo ancora la frustrazione che provai quando in un questionario che dovevo compilare a scuola, mi chiesero il numero dei libri che avevo in casa. Io li contavo e soffrivo, e in casa non capivano il mio disagio, perché in fondo eravamo felici e ce la cavavamo anche senza libri. Nel mio immaginario invece li temevo: più ne potevo leggere e avere, e più mi sarei allontanata dai miei? Come stare tra i libri e tra quelli come i miei? Come resistere tra queste tensioni? Perché c’è tensione? Perché chi legge poi disprezza quelli che non leggono come i miei, quando invece io a loro voglio bene, e non li cambierei con nessuno al mondo? Mi piace leggere e mi piace la mia famiglia? Come ne esco difendendo i libri e difendendo i miei e quelli che fanno la vita come i miei? Non me le sono fatte tutte insieme queste domande. Sono arrivate sforzandomi di metterle a fuoco, di non nasconderle neppure a me stessa. L’immaginario ha a che fare anche con il rischio che si corre personalmente quando si contrappongono immaginari. 

Alle scuole superiori chiesi conto di una borsa di studio comunicata in classe con la data di presentazione già scaduta. Il preside di fronte alla mia esigenza di chiarimenti mi chiese se secondo me, in un istituto superiore come quello che frequentavo, cioè un tecnico commerciale, c’era qualcuno in grado di fare la Bocconi. Non lo capivo: se c’era una possibilità, perché precluderla? Il mio immaginario di scuola che ti riscatta e ti eleva vacillava. Cominciai a capire che c’erano differenze fra le scuole e anche fra le università. Quando con un racconto spedito per posta arrivai finalista al Campiello Giovani, e fui giustificata a scuola per uscire prima e per partecipare alla conferenza stampa, e il preside mi chiamò e mi chiese come avevo fatto a partecipare, e gli risposi che a volte le circolari arrivano in tempo, neanche capii subito che era un capovolgimento di immaginario. Partecipai al Campiello e però mia mamma mi suggeriva lo stesso giorno di fare il concorso alle poste. La concretezza operaia ti riporta coi piedi per terra spesso. Se ti si apre un immaginario, fai presto a richiuderlo.

Ho cercato di studiare e mi sono iscritta a Scienze Politiche, e ho scelto tante materie per cercarle lì le risposte. E non mi bastava neppure lì, e allora libri, romanzi, film, mostre d’arte, confronti con coetanei. Ho avuto un immaginario, ne cercavo altro, lo ritrovavo o ne trovavo un altro ancora e ne volevo di nuovo: tante conferme, tante rotture, tanti dubbi e cercare ancora e ricominciare. Sono sempre stata impregnata di lavoro, di classe, di ingiustizia, di sacrifici, di tante piccole conquistate felicità, di riscatto. Ma tutto questo lo posso scrivere e mettere in fila adesso, dopo un percorso e un’apertura oltre la mia vita e la mia singola esperienza, dopo aver più volte analizzato e rimesso in discussione, dopo cadute e rialzate, dopo ricerche, dopo condivisioni. 

Immaginario collettivo e militanza 

Perché l’immaginario non si possiede o si racconta solamente per vicinanza, per empatia, perché lo si prova in prima persona. L’immaginario lo si costruisce, lo si smussa, lo si plasma non solo negli anni, ma nel collettivo. Se non c’è riconoscimento di immaginario anche da parte degli altri, quell’immaginario svanisce, evapora. Oppure diventa un macigno, un peso che non puoi portare. 

Provo a fare degli esempi per farmi capire. Da piccola sentivo parlare di mondo operaio e di tute blu, ma mai di vestaglie blu. Perché il mondo operaio femminile era meno raccontato? Meno analizzato? Meno storicizzato? Se non lo si racconta, non esiste o vale meno. Poi: perché mia mamma e le colleghe le chiamavano “Fratine”, dal nome del proprietario della fabbrica di jeans, e non vestaglie blu?  Ci ho scritto un libro (Figlia di una vestaglia blu), praticamente per togliere questo che sentivo un racconto distorto: non erano figlie sue, non era il padrone anche della loro identità, avevano dei nomi, delle famiglie, delle storie. Se proprio bisognava individuarle come operaie, allora erano vestaglie blu, come si diceva tute blu per i maschi. E però quel titolo e quella rivendicazione non avrebbe funzionato se per tante e tanti figlie e figli di vestaglie blu (marroni, verdi, grigie: ne ho incontrati tantissimi), non ci fosse stata aderenza con il loro immaginario. Non era solo un vissuto: c’era qualcosa che mancava nella narrazione. C’era un immaginario operaio raccontato solo al passato, e invece tante e tanti come me lo abbiamo vissuto in un periodo in cui quel racconto collettivo si era interrotto. 

Se ti dicono che gli operai non esistono più e tu li hai in famiglia, devi costruirti un racconto tuo a difesa e cercarlo nel racconto di altri; altrimenti rischi di sentirti cancellato dal mondo, non riconosciuto, inesistente. Se provi un’ingiustizia e ti fanno credere che la provi solo tu, ti senti un pazzo a provarla e non fai niente per cambiare. Oppure se c’è una narrazione del vincente, del “se ti impegni ce la fai”, e invece tu accumuli fallimenti, licenziamenti, contratti precari, non vuoi cambiare o costruire un immaginario collettivo, vuoi lavorare solo al tuo perché le colpe sono sole tue.  

Abbiamo bisogno di raccontare il lavoro per mettere a fuoco la realtà. C’è bisogno di un dialogo continuo fra reale e immaginario per cambiare il reale, per ambire a un immaginario. Lo si fa come singoli e come collettivo e le due strade devono incontrarsi, alimentarsi, contaminarsi. Perché i dominanti hanno ben chiaro quanto convenga loro alimentare un altro racconto o cancellare il racconto dei subalterni? Temono il racconto come riconoscimento di realtà, come collante fra chi vive condizioni simili; insomma sono terrorizzati dei coscienti di classe. E questa coscienza non si diffonde e non si rafforza senza questi flussi di dialoghi fra reale e immaginario, senza i ponti issati dai racconti. Se non c’è un immaginario che si tenta di costruire collettivamente, non c’è militanza: c’è rassegnazione, isolamento, timore. Se si crede impossibile cambiare il racconto dominante, non ci sforzeremo di contribuire a costruirlo. 


* Simona Baldanzi è nata a Firenze e vive nel Mugello. Scrittrice, sindacalista, militante. Il libro che cita nell’articolo è il suo primo: Figlia di una vestaglia blu, recentemente ripubblicato da Alegre. Nel 2021 sono usciti Corpo Appennino (Ediciclo) e Pietra Pane e il mondo che c’è (Rrose Selavy). www.simonabaldanzi.it


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