Negazionismo, una malattia della democrazia
Monica Lanfranco
“Mediamente i maschi sono più grandi e forti delle femmine (in termini di aggressività, sviluppo muscolare, ecc.). La concezione di un genere femminile da proteggere nasce da qui. Che poi sopra a questa realtà sia stato ricamato un castello di falsità ed esagerazioni è un fatto, ma non si può negare che biologicamente uomo e donna non potranno mai essere ‘pari’. I ruoli a cui sono destinati in termini evolutivi (a livello di specie, non di individuo) sono differenti. Se volevate la superiorità biologica vi toccava nascere iene o ragni”.
“Sessismo? E basta con questo femminismo!”.
“Lanfranco, perché lei e le sue colleghe odiate gli uomini? Provate piacere a denigrare e insultare i maschi?”
“Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere? Cioè lei è una persona che forma altre persone su come creare conflitti di genere?”
“Non dimentichi i fischi per strada alle ragazze che passano! Delitto imperdonabile!”
Quelli riportati sopra sono solo una minima parte dei commenti di lettori (quasi sempre con identità mascherata da nickname, quindi anonimi), che da anni affollano gli articoli che scrivo sul blog de “Il Fatto Quotidiano”. Parliamo ormai di migliaia di commenti di questo tipo. Quelli che scrivo sono articoli di varia natura, consultabili on line e quindi pubblici, in cui, a partire dalla cronaca o da parole chiave sulle quali l’invito è a riflettere, si dipanano considerazioni e offerte di discussione sulle relazioni tra donne e uomini. In nessuno di questi pezzi ho mai attaccato, insultato, dileggiato gli uomini: non solo non è nel mio stile, ma sarebbe controproducente, visto che l’intento è quello del confronto.
E nonostante ciò il tenore dei commenti è mediamente aggressivo e invasivo, come se nulla potesse distogliere alcuni degli uomini che leggono dal pregiudizio: se una giornalista si definisce femminista, se parla di femminicidio, di autodeterminazione sulle scelte riproduttive, se scrive di molestie e di violenza, è senza dubbio una donna che odia gli uomini. Contro tutte le evidenze che mi riguardano, che sono di dominio pubblico, nella vita privata così come nel politico.
Ci sono più aspetti inquietanti in questo atteggiamento aggressivo e pregiudiziale: il non soffermarsi a leggere (spesso i commenti evidenziano che chi commenta non ha proprio letto l’articolo), dando spessore quindi al già conclamato malanno che affligge la capacità di attenzione, indotto dalla velocità tecnologica; il sedimentarsi e il fossilizzarsi del pregiudizio, a dispetto della (virtuale) possibilità offerta dalla rete di aprirsi a versioni diverse da quelle dalle quali si parte; la pressoché illimitata libertà di insulto, bullismo, mobbing, e talvolta persecuzione, il tutto nella protezione del pieno anonimato verso chi invece è rintracciabile e visibile, e tra l’altro fa di questa visibilità una scelta politica e pubblica. Corollario di tutte queste modalità ammalate, frutti avvelenati della virtualità che invece ha i suoi straordinari punti positivi (l’immediatezza, la trasversalità, la moltiplicazione), c’è la perdita di senso e lo svuotamento della forza delle parole, con la nascita di un fenomeno che affligge quasi sempre le questioni poste dai movimenti per il cambiamento: il negazionismo. Uno dei mali più pericolosi della democrazia.
LE PAROLE PER DIRLO
Già Rosa Luxemburg, (ben prima degli anni Settanta nei quali Carlo Levi affermava che le parole sono pietre), scriveva che “il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Non è un caso che per indicare alcuni comportamenti sessisti in Italia non ci siano le parole per dirli. Nel generico “molestie sessuali”, ci sono diverse fattispecie di offese e atteggiamenti violenti contro le donne che, per esempio, in inglese si differenziano tra ‘street harassment’ oppure ‘stalking’, o ancora ‘sexual mobbing in the workplace’, tutti comportamenti precisi, che tra l’altro in diversi paesi hanno specifiche leggi a definire specifici reati.
Perché altrove le parole ci sono e si usano, mentre in Italia si fatica a far passare il concetto di femminicidio? Azzardo una risposta: perché il negazionismo, sempre in agguato quando si tratta di questioni che coinvolgono le relazioni tra i sessi, è la strada più facile per evitare di ragionare. E perché la democrazia in Italia non è pensata, tramandata e vissuta come una costruzione sociale che deve tenere conto della differenza sessuale.
Se si liquida la faccenda con un’alzata di spalle, storcendo il naso alla parola ‘femminicidio’, definendola la solita macchinazione di quatto femministe, si evita di affrontare il cuore del problema: non tutti gli uomini sono assassini, ma alcuni uomini uccidono le donne che hanno amato, o con le quali sono in relazione a vario titolo, perché esiste un consenso, in varie forme, per giustificare questa violenza, o comunque i vari gradi di escalation che la precedono. Non si nasce femminicida, ma lo si può diventare anche perché esiste una sottovalutazione sociale frequente dei passaggi che precedono la violenza finale: si tollerano forme di sessismo definite ‘scherzo’, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità contro le donne che costituiscono il terreno di coltura che è già sinonimo di violenza. La rete ne è piena, i social network e YouTube pullulano di siti ‘divertenti’ che in realtà sono, spesso, istigazione a delinquere. La spettacolarizzazione del processo Depp-Heard ce l’ha ribadito.
Fino a che non tanto la parola “femminicidio”, ma il senso della parola stessa, non sarà reso evidente nella sua chiarezza, ogni donna uccisa sarà ammazzata due volte: da chi l’ha privata della vita e da chi non vede quello che accade.
Così succede anche per la parola “sessismo”, che sembra essere una bestemmia in questa democrazia malata. Se ne parli, e la identifichi come la base di tutte le ingiustizie e discriminazioni successive, sei una odiatrice di uomini. Tocca anche dire che c’è una evidente, tremenda e tragica ignoranza, in Italia. Se pronunciate la parola “sessismo” in molti ambienti, specialmente tra le giovani generazioni a scuola, dove faccio formazione da oltre vent’anni, la reazione è di rigetto solo perché l’ismo finale è assonante con la parola “femminismo”: in automatico chi la pronuncia è additata/o come persona fanatica, estremista, esagerata, eccessiva.
LA FORZA DEL PATRIARCATO E LA SUA BANALITA’ MALIGNE
La riprova? Ho postato prima della pandemia un articolo con l’indicazione dettagliata dell’iniziativa lanciata da Eve Ensler, autrice dei Monologhi della vagina, che da anni per il 14 febbraio ha chiesto alle donne di danzare in un flash mob globale. Danzare in piazza, nelle scuole, nei posti di lavoro, sul tetto della fattoria, sulla spiaggia, tra la neve, in cantina, in aperta campagna: da sole ma meglio se accompagnate da altre donne e anche dagli uomini che vorranno ballare. Vi sembra che in questa proposta ci sia qualche segno, anche occulto e perniciosamente subliminale, di odio verso gli uomini? Ebbene ecco alcuni commenti, sempre provenienti dal blog del Fatto:
“Mi riesce difficile comprendere come una danza possa ‘rompere le catene’, quando ci sono troppe donne che trovano più utile ballare il Bunga Bunga. Ma, sicuramente, sarà un problema del tutto personale”.
“Ma sì! In fondo ballare costa poco e non impegna. E la buona azione è fatta. Poi una doccia e via a cena (pagata) con il fidanzatino/compagno/marito”.
“Serve un’analisi sociale seria delle ragioni della violenza sulle donne, non queste pagliacciate.
1)Invece di ballare, cominciate a non mandare più i vostri figli al catechismo, dove apprenderanno che la donna è subordinata all’uomo perché creata dopo Adamo (lettere di San Paolo); 2) Invece di ballare, andate a denunciare l’uomo che vi sta accanto alla PRIMA avvisaglia di violenza; 3) invece di ballare, imparate a scegliere bene i vostri partner, liberandovi dal mito del macho, da cui siete affascinate; 4) invece di ballare, liberatevi dalle vostre catene mentali, che vi fanno giudicare sgualdrine e pessime mogli le donne che hanno il coraggio di liberarsi di certi uomini, senza crearsi l’alibi dei figli. Oppure continuate a morire ballando”.
“L’unica cosa che ha attirato la mia attenzione è il fatto che l’articolo nomini la vagina. È vero che le donne non sono separate dalla vagina, l’una non può esistere senza l’altra ok, stupido definire una donna semplicemente come f… Ma è altrettanto vero che le donne ci tengono molto a sfruttare la vagina per gli scopi più disparati”.
“Ecco, brave… scendete in piazza a dire NO alla violenza sulle donne. Oppure ballate. Così, all’improvviso, spariranno stupratori, assassini e uomini violenti. E ci sveglieremo tutti in un mondo migliore… quello di walt disney”.
So bene che non tutti i lettori, e tantomeno non tutti gli uomini, la pensano così, ma è importante tener conto che, per le modalità nelle quali i commenti sono postati, questa sacca di ottica maschile che definire rancorosa e tenebrosa è poco, non è piccola; è estesa, caratterizzata da un disincanto arido e contagioso, diffuso a destra come a sinistra. E non illudiamoci che ignorando il problema esso si estingua. Sarebbe un errore fatale, così come lo è stato abbassare la guardia sul sessismo, pensando che l’educazione e il rispetto tra generi e generazioni si trasmettessero per osmosi, e che la forza del patriarcato, nella sua banalità maligna, si spegnesse solo perché sempre più donne lottano per la sua fine.