Il paese delle armi
Giorgio BERETTA, Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata, Altreconomia, Milano, 2022
Elena Pastre
Quanti italiani hanno una licenza per armi? E quante sono le armi regolarmente detenute nelle case? La percezione di insicurezza costantemente indotta da taluni mezzi di informazione sta inducendo i cittadini ad armarsi? O gli italiani possedevano più armi qualche anno fa? Sono interrogativi semplici, ma per lo più insoluti perché non esiste in Italia un rapporto ufficiale che documenti il numero di legali detentori di armi, delle armi possedute con regolare licenza e, soprattutto dell’impatto di queste armi negli omicidi e nei femminicidi.
E’ uno dei tanti vuoti di informazione, una vera “zona grigia”, che svela il volume di Giorgio Beretta Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata, pubblicato lo scorso ottobre da Altreconomia, insieme all’Osservatorio permanente sulle armi leggere (OPAL) di cui l’autore è uno dei più noti ricercatori.
Un il libro-inchiesta sul settore delle “armi comuni” (revolver, pistole semiautomatiche, carabine, fucili a pompa e da caccia) che vengono detenute dai cittadini per la difesa personale e abitativa, per il tiro sportivo e le attività venatorie. Ma un’indagine anche sulle armi a uso militare, le cui esportazioni dall’Italia sono diventate negli anni sempre meno trasparenti soprattutto quando sono destinate a regimi autoritari e repressivi.
Armi comuni di cui, stando all’Associazione nazionale produttori di armi e munizioni (Anpam), l’Italia sarebbe il primo produttore europeo tanto che il settore viene spesso pomposamente descritto come una “eccellenza del made in Italy”. Armi esportate soprattutto negli Stati Uniti dove alimentano quella corsa ad armarsi – una vera paranoia collettiva – da parte di ampi gruppi della popolazione soprattutto a fronte di annunci di restrizioni a seguito di efferate stragi.
Armi il cui valore economico e occupazionale è spesso sopravvalutato: comprese le munizioni, la produzione di armi comuni in Italia non supera i 600 milioni di euro (pari allo 0,03% del Pil), cioè tanto quanto la produzione di giochi e giocattoli, mentre gli occupati nelle 232 aziende del settore sono 3.330, cioè lo 0,1 percento di tutti gli addetti dell’industria manifatturiera. Niente di straordinario dunque: la produzione e l’occupazione del settore delle armi comuni sono quanto mai marginali nel contesto produttivo italiano.
Armi il cui impatto umano è invece devastante anche in Italia. A fronte di una decina di omicidi per furti e rapine, ogni anno si registrano mediamente 40 omicidi con armi legali. Armi che sono utilizzate anche nei femminicidi: solo l’8 percento della popolazione adulta italiana ha armi in casa, ma – come ha documentato il “Rapporto del Senato sul femminicidio” – ben il 16,1% dei femminicidi sono commessi da persone in possesso di regolare porto d’armi.
Sono dati e informazioni che dovrebbero sollevare l’attenzione del mondo politico che invece, per la gran parte, è silente quando non è connivente con le lobby delle armi, la cui influenza si sta facendo sempre più pervasiva anche in Italia. Anche per questo le proposte per una regolamentazione più rigorosa del settore e di maggiori controlli sui legali detentori di armi che associazioni come OPAL da anni avanzano – proposte che il volume riassume – restano per lo più ignorate. Continuando ad alimentare i falsi miti e le zone grigie che avvolgono e proteggono il settore delle armi in Italia.