L’arma più potente
Loredana Fraleone
“L’istruzione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo”, diceva Nelson Mandela in un contesto come quello del Sud Africa, dove la lotta contro l’apartheid necessitava non solo di provvedimenti di legge, ma anche di mutazioni profonde nei rapporti sociali, politici e culturali tra la maggioranza degli abitanti neri e i dominatori della minoranza bianca. Mandela sosteneva anche che “L’istruzione è il grande motore dello sviluppo personale…..è attraverso l’istruzione che il figlio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione”. (1)
La conoscenza come strumento di emancipazione personale, ma anche come progresso civile di un intero popolo è ben presente nella Costituzione Repubblicana del 1948.
La modernizzazione Napoleonica dell’istruzione
Un’istruzione libera da qualsiasi subordinazione, che fosse di carattere religioso, di conservazione del potere delle aristocrazie o tutta economica, come in epoca moderna, in realtà non è mai esistita. Il ruolo delle chiese, dei sovrani, quello della borghesia, che pure ha favorito la diffusione di molti saperi, è stato di negare o condizionare la conoscenza. Costituendo una sorta di spartiacque con l’epoca precedente, Napoleone Bonaparte se ne occupò con impegno, laicizzò l’istruzione superiore, ma la subordinò all’industria in grande espansione.
Nominava direttamente i rettori che si occupavano di ogni ordine scolastico, tutta la scuola era quindi in mano allo Stato; i docenti universitari erano formati “dall’École normale supérieure di Parigi”, con una forte selezione politica e l’emarginazione di discipline umanistiche pericolose, come la filosofia, mentre grandi risorse e attenzione venivano riservate alle facoltà tecniche. Un impianto modernissimo per gli inizi dell’Ottocento e tornato guarda caso attuale, in forme ovviamente diverse. Mentre introdusse una serie di norme che modernizzavano la società, persino in Italia, come l’eliminazione delle disparità tra figli maschi e femmine attraverso l’uguaglianza giuridica, il matrimonio civile, il divorzio, oltre a tutelare la proprietà privata, Napoleone creò la Banca di Francia, per agevolare il credito alle imprese e al commercio, e con “l’ordinato” assetto statale puntò a fornire strumenti all’industria, che durante le guerre rivoluzionarie aveva vissuto un grande impulso, proprio grazie alla produzione bellica. Serviva perciò fornire alle imprese ingegneri e tecnici con una buona e severa preparazione. Nel 1805 Napoleone diede uno statuto militare all’ École Polytechnique, fondata nel 1794 per “La Patria, la Scienza e la Gloria”. Per vincere le guerre in cui era impegnata la Francia, servivano ingegneri legati strutturalmente all’esercito, per cui Napoleone la militarizzò e anche questo ci riporta all’attualità.
La Conoscenza è come Giano Bifronte.
Anche attraverso i sistemi di istruzione più invasivi e repressivi, nel momento in cui fa entrare in contatto con gli strumenti che danno apprendimento, la Conoscenza lascia tuttavia spazi per una visione più complessa della realtà; infatti è stata usata, e lo è ancora, come più sicura, la limitazione o l’esclusione dall’accesso all’istruzione, si pensi a quella delle donne nel tempo e nello spazio, a garanzia di quella forma di tutela del potere rappresentata dal patriarcato. Oggi nei paesi dove l’accesso alla Conoscenza è stato conquistato, insieme ad altri diritti fondamentali e si è diffuso l’uso di internet, pur con gravi limiti, idee potenzialmente ostili al potere riescono comunque a circolare.
Persino durante il fascismo, la Scuola riusciva suo malgrado a fornire strumenti per la critica al regime. Lo studio nei licei della filosofia, delle discipline umanistiche in generale, consentiva, nonostante le censure di molti autori, di entrare in contatto con riflessioni complesse e con rappresentazioni della realtà non controllabili.
La riforma scolastica di Giovanni Gentile del 1923 aveva messo la scuola sotto la diretta gestione dello Stato, con una ferrea gerarchia all’interno degli istituti costituita da direttori, presidi e rettori, che rispondevano direttamente al ministro dell’istruzione.
“Libro e moschetto fanno il fascista perfetto” la dice lunga sull’importanza che Mussolini dava al controllo ideologico dei giovani, e non a caso definì la riforma di Gentile come la più fascista delle riforme. In questa, solo il liceo classico consentiva l’accesso a tutte le facoltà universitarie, mentre lo scientifico non lo permetteva ad alcune, e gli istituti tecnici davano solo la possibilità di passare al liceo scientifico per poter accedere all’università. Una scuola con una forte selezione di classe quindi, che produsse il calo degli iscritti alle scuole secondarie e alle facoltà scientifiche; anche su questo siamo all’attualità. Successivamente il processo di fascistizzazione fu intensificato da De Vecchi prima e Bottai poi, che nel 1938 introdusse misure antisemite e indicò ai direttori di diffondere nelle scuole primarie la rivista “Difesa della Razza”.
Nonostante questo, le università, e persino le scuole superiori, fornirono menti e braccia all’opposizione al regime e soprattutto alla Resistenza, così che molti intellettuali si integrarono con operai e contadini nella lotta armata e ancora prima nella propaganda antifascista.
L’esclusione assume nuove forme
Attualmente si parla di “dispersione” scolastica, usando un termine che vorrebbe edulcorare un fenomeno che vede L’Italia ben lontana dalla raccomandazione europea per una soglia al di sotto del 10%. Siamo tra gli ultimi paesi UE per diplomati e laureati, con un tasso di abbandono scolastico (così bisogna chiamarlo) intorno al 13%, che nel Sud e nelle isole supera il 20%, fino al 21% in Sardegna.
Si tenta di attribuire il fenomeno a una sorta di arretratezza del sistema scolastico italiano, alle conseguenze del Covid, alla scarsa professionalità degli e delle insegnanti, alla estraneità della Scuola rispetto al mondo del lavoro, per sottrarsi alle questioni di fondo, che stanno alla base di quello che dovrebbe essere il principale strumento “della rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona”.
Se questo non si fa da decenni con governi di centrosinistra e centrodestra, ma si va anzi a un progressivo impoverimento del sistema economico e culturale, lo si può capire analizzando quali sono i bisogni che esprime il capitalismo italiano, non esente da contraddizioni, ma che punta sia nelle situazioni più avanzate che in quelle più arretrate a disciplinare il mondo del lavoro e la società, a subordinare il sistema di istruzione all’impresa e al mercato, facendogli assumere, fin dalla scuola di base, il modello aziendale.
Lo spartiacque, rispetto agli interventi in linea con lo spirito costituzionale, è costituito dalle “riforme” di Luigi Berlinguer, che riuscì, con gran parte del consenso anche del mondo più acculturato della Scuola, a far passare l’autonomia come una riforma che dava più flessibilità e potere alle istituzioni scolastiche, introducendo tre regolamenti che in realtà ne snaturavano il principio unitario, e aprivano le porte all’intervento del privato nell’indirizzo culturale, con riflessi pesanti nella scuola superiore e in particolare negli istituti tecnici e professionali.
Da lì, di riforma in riforma, sono stati sottratti via via pezzi di “cultura disinteressata”, con la riduzione di ore di materie come la Storia, la Filosofia, l’Educazione musicale e artistica, mentre lo studio della Scienza, che come tale rientra nelle discipline non immediatamente funzionali al mercato, è rimasto sostanzialmente al palo.
L’ultimo capolavoro lo ha fatto emblematicamente il governo Meloni, con l’abolizione del Liceo Economico Sociale, perché Diritto, Pedagogia ed Antropologia costituiscono evidentemente soltanto un apparato culturale inutile e pericoloso, sostituendolo con il “Made in Italy”, il cui nome è già tutto un programma.
La resistenza solitaria
Sarebbe necessario che la sinistra, che non ha introiettato l’idea del Capitalismo come unico mondo possibile, si interrogasse se ha assunto il tema dell’istruzione come una questione che non solo riguarda un diritto fondamentale, ma che allude anche alla possibilità di fornire strumenti per un sistema di relazioni umane fondate sulla libertà e l’uguaglianza. Persino Rifondazione Comunista, che finché è stata presente in parlamento, non ha sbagliato una posizione ed ha coraggiosamente respinto tutte le pessime riforme che avanzavano anche dalla “sinistra” moderata, ha delegato agli “addetti ai lavori” il compito di occuparsene. Qualche sussulto collettivo vi è stato in occasioni in cui venivano toccate questioni di ordine generale, come la parità scolastica o l’alternanza scuola – lavoro, quando si sono verificati incidenti gravi a ragazzi esposti ai “rischi”, che corrono sempre più tutti i lavoratori e le lavoratrici, ma il doveroso dibattito su ciò che bisognerebbe mettere in campo sul terreno culturale e politico a sostegno di una formazione finalizzata a un cambiamento radicale non ha mai investito il gruppo dirigente e il corpo del Partito.
Eppure il mondo della Scuola ha costituito per molti anni una resistenza tenace e diffusa su questioni come la pace, la valorizzazione delle diversità, il tempo pieno per riconnettere il fare con il sapere, il valore della cooperazione, che persino oggi dopo tante sconfitte e regressioni sopravvive grazie ad alcune/i docenti e qualche dirigente.
Eppure indicazioni preziose sono scaturite dai momenti alti delle conquiste operaie, come la straordinaria stagione delle 150 ore, in cui veniva ridotto l’orario di lavoro per andare a scuola, dove lavoratori e lavoratrici, tanto hanno appreso e tanto hanno insegnato, riportando in un ambito di apprendimento organizzato esperienze e conoscenze anche a beneficio di tante e tanti insegnanti.
Che fare oggi per il domani?
La realtà attuale si potrebbe rappresentare come quella di una rete strappata in più parti, in cui la “normalizzazione” si va compiendo con nuove forme di gerarchizzazione del personale, assoggettato al potere dei/delle dirigenti, a loro volta subordinati a leggi, circolari ministeriali e soggetti esterni forieri di interessi privati, che sembrerebbero non lasciare scampo a un sistema di istruzione, dai nidi all’Università, in cui con nuove forme si torna a una dura esclusione di classe. Una situazione che rischia di deprimere chi ancora cerca di resistere. È indispensabile continuare a lottare, e non si tratta tanto di trovare nuove forme di lotta più volte invocate e difficilmente trovate, quanto di ricucire con pazienza quella povera rete strappata, a partire dalla messa in pratica del lavoro cooperativo tra docenti, e tra docenti e studenti. Il mondo della Scuola è esperto nella costruzione di relazioni, è il suo terreno naturale e su quello è necessario puntare.
La digitalizzazione, che rischia di passivizzare le intelligenze, non può essere respinta, ma contenuta e usata anche per dimostrare il valore del rapporto diretto, interpersonale, come si è fatto durante il Covid nei confronti della didattica a distanza, che ha suscitato l’ultimo movimento significativo vissuto dalle scuole. Il lavoro in classe non può rappresentare una fuga, un rinchiudersi in un piccolo mondo sano estraneo alla realtà esterna, come teorizzano molte/i disillusi dalle troppe sconfitte. Per una seria resistenza e per la preparazione a nuovi conflitti, c’è bisogno di una cooperazione nella singola scuola, tra scuole, e di una proiezione esterna per approcci culturali divergenti dalla cultura dominante, così si può tornare anche a un lavoro efficace con allievi e allieve, per un impatto più ampio e a lungo termine, perché – come dice qualcuno – ogni classe è un luogo straordinario.
“….. il tema della scuola per i lavoratori significa trovarsi subito a fare i conti con una abbondante porzione dei problemi irrisolti che il movimento operaio ha ora di fronte.” (2)
(1) – Nelson Mandela – Lungo cammino verso la libertà – Milano – Adelphi 2013
(2) – Bruno Morandi – La merce che discute – Milano – Feltrinelli 1978