Dalla scuola della Repubblica alle scuole regionali
Tonia Guerra*
“Del resto mia cara, di che si stupisce,
anche l’operaio vuole il figlio dottore
e pensi che ambiente ne può venir fuori,
non c’è più morale, contessa!”
Paolo Pietrangeli
Buon anno, scuola!
Anche quest’anno scolastico comincia nelle peggiori condizioni: il mantra “andrà tutto bene”, utile a rabbonire le inquietudini che ci hanno attraversato durante la pandemia da Covid, è sepolto sotto la macabra realtà. I diritti fondamentali, dalla salute al lavoro all’istruzione, non sono mai stati più disattesi e diseguali.
Il Rapporto ISTAT 2023 fotografa una situazione scolastica a dir poco allarmante: la spesa pubblica che l’Italia destina all’istruzione in rapporto al Pil è inferiore alla media UE e a quella delle maggiori economie europee (4,1% nel 2021 contro il 5,2 della Francia, il 4,6 della Spagna e il 4,5 della Germania) e stride tremendamente con il contemporaneo aumento delle spese militari.
Le conseguenze sono allarmanti: i docenti italiani sono fra i peggio pagati in Europa; il 60% degli edifici scolastici non ha il certificato di sicurezza; nel 2022 l’11,5% degli studenti ha abbandonato il corso di studi senza conseguire un diploma; al Sud, il 14% degli istituti risulta difficilmente raggiungibile con mezzi pubblici (7,8% al Centro e 5,7 al Nord); solo il 59% dei Comuni Italiani garantisce servizi all’infanzia, spesso attraverso strutture private convenzionate, ma al Sud e nelle isole non si arriva al 40%.
Secondo il rapporto sulla povertà minorile in Europa “Garantire il futuro dei bambini” di Save the Children, l’Italia è tra i paesi con la percentuale più elevata di minori a rischio povertà ed esclusione sociale, collocandosi dal 2019 dopo Romania, Bulgaria, Spagna, Grecia e ben al di sopra della media europea.
Secondo il rapporto SVIMEZ 2023 “Un Paese, due scuole”, un/a bambino/a meridionale frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo/a del centro-nord e, alla fine, viene privato di un anno di scuola, di diritto allo studio.
Da un’indagine svolta nel 2019 da una Commissione ministeriale “Per lo studio del livello di benessere e malessere nelle scuole italiane”, risulta che gli studenti dichiarano di non star bene a scuola: a loro viene chiesto di imparare troppo, in poco tempo, senza passione, con l’ansia di doverne rendere conto, la frustrazione di non riuscire, la sensazione di perdere tempo per cose più utili e piacevoli.
D’altra parte, i docenti non se la passano meglio: nel modello di scuola che si è affermato, la professione docente è socialmente svalutata, resa passiva e burocratizzata, la libertà d’insegnamento è inaridita, come se le materie di studio valessero poco o niente rispetto alle esigenze del mercato e la centralità del rapporto fra docente e studente fosse un retaggio da superare con l’introduzione (la sostituzione?) di altri canali dell’apprendimento, fra i quali la didattica a distanza, iniziata come risposta emergenziale alla crisi sanitaria, è stata il “cavallo di Troia” per l’irruzione di strumenti, metodologie e contenuti standard “depurati” della relazione umana propria del processo della conoscenza e dello sviluppo della personalità.
In questo quadro desolante, le risposte in atto e in fieri non sono di riduzione del danno, ma “oltre il danno”: più soldi alle private, più costi per le famiglie, istituti accorpati o soppressi con l’aumento del numero minimo a 961 allievi … dunque meno scuole, più affollate e… più “innovative”.
L’innovazione si chiama “Scuola del futuro 4.0”: è il progetto per cui si impegneranno i soldi che riceviamo in prestito dall’Europa per procedere alla riconversione digitale della scuola e al “riaddestramento” digitale degli insegnanti e della didattica.
Si tratta di una gigantesca operazione ideologica, funzionale a formare “capitale umano” al servizio del sistema economico, il quale determinerà progetti e contenuti, metodi e strumenti didattici, in una commistione scuola e impresa privata, definita eufemisticamente “nuove alleanze educative” per “costruire percorsi di carriera adeguati alle nuove sfide della digitalizzazione”. Dunque, non l’innovazione al servizio della creatività e dell’efficacia dell’insegnamento/apprendimento, ma questi subordinati allo scopo di formare soggetti omologati e manipolabili, secondo gli interessi e il pensiero dominanti.
La pietra definitiva a suggello di questo deragliamento costituzionale, politico e sociale è costituita dall’autonomia differenziata, vessillo della Lega e del Governo Meloni, ma (ahimè!) progetto avviato e consolidato dal centro-sinistra. L’istruzione, infatti, è un bocconcino prelibato per chi ha in testa un paese a più velocità, nel quale ogni regione si fa la scuola a immagine e somiglianza del proprio ceto politico e degli interessi economici locali, con buona pace del sentimento unitario e solidale che sarebbe proprio uno dei compiti della Scuola della Repubblica.
Come siamo arrivati a questo, così vicini al punto non ritorno?
Molti/e attribuiscono questa situazione a incompetenza, sciatteria politica, assenza di una “visione”, in ciò sminuendo la gravità delle responsabilità e del pericolo. In realtà vi è una rigorosa coerenza in quanto è avvenuto in Italia (e non solo, ma in Italia di più) da circa un trentennio.
D’altra parte la finalità ed i relativi passaggi sono ampiamente previsti nei documenti e nei trattati europei e internazionali: la ristrutturazione capitalistica non sarebbe stata possibile senza intervenire sui luoghi nei quali si formano il sapere e il comune sentire.
Ripercorrere in sequenza i provvedimenti più rilevanti, tentati e purtroppo quasi sempre realizzati, ci restituisce un percorso abbastanza lineare, purtroppo debolmente ostacolato da chi aveva il dovere politico, sociale e anche morale di opporvisi (a parte le eccezioni delle quali Rifondazione Comunista può rivendicare di far parte).
Gli anni ‘90 costituiscono lo spartiacque, il cambio di paradigma fra un “prima” e un “dopo”, laddove il “prima” è un trentennio nel quale le riforme scolastiche hanno avuto, certo con incertezze e contraddizioni, l’impronta dell’eguaglianza e dell’espansione dei diritti, frutto delle lotte operaie, studentesche e dell’impegno delle forze politiche e sindacali di sinistra; il “dopo” quello del pensiero unico e del primato del mercato, della concertazione sindacale e dell’approdo neoliberista delle forze storicamente afferenti al campo della sinistra.
Il “prima”
Semplificando, possiamo collocare nel “prima”:
l’abolizione nel 1962 della scuola di avviamento al lavoro e l’istituzione della scuola media unificata;
la nascita della scuola materna statale con i suoi ordinamenti (1968/69);
il tempo pieno nella scuola elementare (L. 820/71), che diventò una straordinaria esperienza di innovazione didattica;
le “150 ore”, con cui i metalmeccanici nel 1973 conquistarono il diritto per i lavoratori a permessi retribuiti per la propria formazione personale;
i decreti delegati del ‘74, che introdussero nella vita della scuola la rappresentanza di genitori, personale ATA, studenti;
la Legge 517/77, che introdusse il principio dell’integrazione, con il superamento definitivo delle classi differenziali per gli alunni/e svantaggiati/e, l’introduzione dell’insegnante di sostegno, nuove modalità di valutazione e l’abolizione degli esami di riparazione per la scuola media;
i programmi del 1985 per la scuola elementare, con cui si superò definitivamente la scuola degli anni ’50 del “leggere, scrivere e far di conto” con la religione a “fondamento e coronamento”, per costruire la scuola della cittadinanza per la “rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana“, secondo il dettato costituzionale;
la legge 148/90, con cui si superò la figura del “maestro unico” (ma non il linguaggio al maschile) in favore della pluralità docente;
il progetto Brocca fra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, una sperimentazione verso l’unificazione del biennio delle superiori, poi abolita definitivamente dalla ministra Gelmini.
Il “dopo”
Il cambio di paradigma viene sancito dalla legge delega 59/97, promossa dal ministro Bassanini, nel cui contesto si colloca il regolamento sull’autonomia scolastica (dpr 257/99), con il quale inizia il ciclo dell’aziendalizzazione delle scuole, con l’eliminazione dell’aggettivo “pubblica” dalla denominazione del ministero, la razionalizzazione della rete scolastica, il superamento della figura del preside e del direttore didattico, che avevano una forte valenza pedagogica, in favore del “dirigente scolastico”, di chiara impostazione manageriale. A cascata si adeguano al nuovo impianto politico e culturale tutti i provvedimenti successivi e lo stesso lessico normativo (contratto formativo, debiti/crediti, capitale umano, competenze…):
la riforma Berlinguer dei cicli scolastici (Legge 30/2000), che sancì l’obbligo scolastico a 15 anni, il taglio di un anno di scuola, l’istituzione dell’INVALSI, l’introduzione della gerarchizzazione salariale dei docenti (il famigerato “concorsone” rigettato dalle mobilitazioni sociali che portarono alle dimissioni del ministro);
la legge di parità (62/2000), con cui il governo Dalema aprì al finanziamento delle private, contraddicendo il vincolo costituzionale “senza oneri per lo Stato” (art.33);
il passaggio del preside a dirigente scolastico (Dlgsl 165/01);
l’affidamento della formazione professionale alla competenza esclusiva della regione, la costituzionalizzazione dell’autonomia scolastica, la disponibilità delle “norme generali dell’istruzione” alla potestà legislativa esclusiva delle regioni, tutte conseguenze della Riforma del Titolo V;
la riforma Moratti del 2003, che abolì la precedente, ridusse il monte ore delle discipline e l’orario settimanale, sancendo il ritorno al “maestro unico”, la progressiva eliminazione del tempo pieno e le nuove indicazioni curricolari, con scelta precoce di indirizzi di studio e passaggio della formazione professionale a competenza esclusiva delle regioni;
la riforma Gelmini (dopo la parentesi del “cacciavite” di Fioroni) che perpetrò il salasso di 10 miliardi a scuola e università;
la nascita del Sistema Nazionale di Valutazione (Dlgsl 286/04 e Dpr 80/13);
la “Buona scuola” del governo Renzi (107/2015), con l’armamentario dell’alternanza scuola/lavoro, il preside-manager, le premialità al personale docente e altre facilitazioni alle private.
A tutto questo si è opposto negli anni un movimento di docenti e studenti, spesso spontaneo e autogestito, che ha conosciuto momenti di grande impatto, come la Pantera degli anni ’90, l’Onda degli anni 2000, le mobilitazioni contro la “Buona scuola” sfociate nella raccolta firme per un referendum abrogativo, le recenti manifestazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro.
Un’esperienza di percorso democratico dal basso, figlia di quelle mobilitazioni, è stata nel 2017 la proposta di legge d’iniziativa popolare “Per la Scuola della Costituzione”, il cui testo fu realizzato collettivamente in decine di incontri con genitori, studenti e docenti di tutt’Italia.
Tutti i governi e i provvedimenti successivi si iscrivono nel solco culturale e politico neoliberista.
L’attuale ministro “dell’Istruzione e del Merito”, Giuseppe Valditara, candidato non eletto della Lega alle politiche 2022, si ispira a solidi e raccapriccianti principi educativi come “l’umiliazione”, da lui considerata “un fattore importante nella crescita e nella costruzione della personalità”.
Gli dobbiamo gli accorpamenti e l’ulteriore elefantiasi delle scuole, l’aumento dei finanziamenti alla scuola privata, il sostegno al regionalismo differenziato, fiore all’occhiello del suo partito e del suo collega Calderoli.
Il ciclo liberista, aperto con l’autonomia scolastica, minaccia di trovare il suo perfezionamento nell’autonomia differenziata, con la quale il Sistema Nazionale d’Istruzione rischia l’implosione e la negazione della sua nobile funzione di “organo dello Stato”.
Prima che il cerchio si chiuda, fermiamoli.
La strada è, ancora una volta, quella delle lotte e il programma è scritto in quel giovane testo del 1948.
* Ex docente di scuola primaria, impegnata nei movimenti in difesa della scuola pubblica, è attivista del Comitato per la Pace di Bari e componente del Tavolo Nazionale No Autonomia Differenziata. Attualmente fa parte della Segreteria Nazionale di Rifondazione Comuniste, per cui coordina la campagna No A.D.