“Ci rivediamo a settembre”: scuola e precariato
Giulia Pezzella*
“Ci rivediamo a settembre”. Questa è la frase che tutti gli insegnanti dicono alle alunne e agli alunni quando finisce l’anno scolastico. Nell’impossibilità di poterla dire c’è la sintesi della condizione dei docenti precari. Sì, perché quelle poche parole sono il ponte tra quello che è stato e quello che sarà, c’è l’orizzonte di un po’ di riposo con la certezza di ritrovarsi, c’è la tanto invocata “continuità didattica” che consente a chi insegna di decidere come e cosa insegnare in quel momento a quella classe consapevole del tempo a disposizione che non è un anno, ma almeno un biennio se non un triennio. E la prospettiva è proprio diversa.
E così, quando gli altri salutano con la frase di rito, l’insegnante precario saluta (a volte anche con la lacrimuccia) alunne, alunni e colleghi, dopo mesi passati a costruire rapporti di fiducia, saperi, dopo aver contribuito alla crescita individuale e collettiva degli studenti cercando -attraverso lo studio- di alimentare la curiosità nei confronti del mondo, la consapevolezza dei diritti e dei doveri. Inizia l’estate, che si apre con la richiesta di indennità di disoccupazione nella maggior parte dei casi e si caratterizza per le notti insonni causate dal caldo torrido e dall’incertezza, perché i provvedimenti del Governo e/o del Ministero destinati ai precari cambiano continuamente le regole del gioco, i tempi non vengono mai rispettati e nel frattempo gli aspiranti docenti corrono come il criceto sulla ruota alla caccia dei “pare” e “si dice”. Insomma, un incubo.
Nonostante le nuove assunzioni nella scuola, è stato calcolato che anche quest’anno gli insegnanti con contratto a tempo determinato saranno circa 200mila e molti di loro avranno l’incarico su sostegno. In altre parole, ancora una volta 1 docente su 4 sarà precario.
Una riflessione sulla lingua
La bellezza della nostra lingua è proprio nella ricchezza delle sfumature, spesso sottili, che rendono due parole sinonimi ma mai uguali. Cercare il loro significato etimologico consente di apprezzarne al meglio il significato, ma soprattutto ci spinge a ragionare sul suo mutamento nel tempo.
Nel vocabolario online della Treccani si legge che la parola “precario”, sia l’aggettivo che il sostantivo, deriva “dal lat. precarius, prop. ottenuto con preghiere, concesso per grazia, der. di prex precis preghiera” e continua dandone il significato principale “incerto, non sicuro, che è soggetto a subire” aggiungendo infine “che o chi ha un rapporto di lavoro senza garanzie di stabilità o continuità. Legato a un contratto a termine”. Forse per questo molto spesso i precari si rivolgono a Sant’Assunta? Certo è che le loro conquiste, quando vengono ottenute, sono veramente “concesse per grazia”. Come la stabilizzazione di chi ha tre anni di servizio (è bene ricordare che il lavoratore con più contratti a tempo determinato ha diritto alla stabilizzazione in tutto il mondo del lavoro, tranne che nello Stato/scuola). Non solo gli ultimi due concorsi straordinari, raccontati come “una semplice formalità”, sono stati selettivi e sempre più vessatori, ma l’ultimo (quello del 2022) ha introdotto una delle più importanti novità della riforma Bianchi: i concorsi non sono più abilitanti.
Ultima riflessione linguistica. Quando si parla di assunzioni nel mondo della scuola si utilizzano termini propri del linguaggio militare, soprattutto quando il tema è l’assunzione: reclutamento e contingente. Anche se i governi vorrebbero soldati pronti, ricordiamo loro che siamo insegnanti e sempre, indipendentemente dalle discipline che affrontiamo in aula, educhiamo alla pace, al rispetto e alla cittadinanza attiva e consapevole. Non alla guerra.
Sistema che scegli, docente che hai
È necessaria una premessa: per diventare docente di ruolo bisogna aver superato una selezione (un concorso, ma anche un corso-concorso) e avere l’abilitazione relativa alla disciplina che si insegna. Se per un lungo periodo non sono stati più banditi i concorsi, quelli degli ultimi 3 anni (3 straordinari e 1 ordinario, includendo quello annunciato) si sono svolti e si svolgeranno tutti con modalità diverse. Tre ministri, tre presidenti del Consiglio, 4 tipologie di concorso.
La modalità delle prove concorsuali determina anche il tipo di personale che si vuole selezionare. Per superare i quiz a risposta multipla (sbagliati in alcuni casi) è richiesto un sapere acritico ed enciclopedico, propensione ai giochi di velocità e, soprattutto, una buona dose di fortuna. Immaginate di dover fare lo scritto per insegnare italiano (tutta la grammatica, tutta la letteratura, brani antologici e critici inclusi), storia (dalla preistoria a oggi) e geografia (tutto il mondo). E poi immaginate di dover rispondere a un quiz su un argomento qualunque in 1 minuto, molto spesso uno tra quelli che a scuola non si affronta. Una follia tale che lo stesso Ministro Bianchi aveva poi fatto marcia indietro nella sua articolata riforma (tutta finanziata dal PNRR) proprio sulle crocette. L’attuale Ministro, invece, le ha ripristinate. Inoltre, si è chiesto: perché la prova scritta deve riguardare la disciplina che l’aspirante docente di ruolo ha già insegnato per anni come precario o che comunque dovrà insegnare? Meglio predisporla uguale per tutti: si velocizza la preparazione, forse la somministrazione, si risparmiano tempo e soldi. Pedagogia, psicopedagogia, didattica, metodologia, inglese e informatica: ormai ai docenti si chiede solo questo.
Senza nulla togliere a quanti hanno superato i concorsi a crocette del passato e supereranno quelli del futuro, qualche domanda dobbiamo porcela. Perché questi cambiamenti? Perché non è più necessario che i futuri insegnanti assunti a tempo indeterminato dimostrino di sapere padroneggiare la nostra lingua, la loro disciplina e di saper argomentare? Forse perché non si vuole che i nuovi docenti abbiano l’aspirazione a trasmettere agli studenti la conoscenza, la curiosità, la capacità di interrogarsi, gli strumenti utili per imparare, diventare persone colte e cittadini responsabili. Vogliono che dalla scuola scompaiano le “cose inutili”, quelle che allargano gli orizzonti e consentono poi di imparare qualsiasi cosa, e la vogliono asservire al mercato del lavoro che, però, ha altre esigenze e altre velocità.
La ruota della fortuna: l’algoritmo
Intanto dall’estate 2021 i precari, senza i quali le scuole statali e comunali non aprirebbero, sono stati premiati con un nuovo incubo: la domanda informatizzata per partecipare al sorteggio delle cattedre. Possono accedervi tutti quelli che si sono iscritti nelle Graduatorie Provinciali per le Supplenze di azzoliniana memoria, altro sistema informatizzato, e il punteggio viene verificato da una persona fisica solo dopo aver ricevuto una supplenza.
L’algoritmo ha sostituito la convocazione in presenza per l’assegnazione delle cattedre vacanti e disponibili ed è un meccanismo assolutamente oscuro che non permette di verificare la correttezza delle assegnazioni. A causa di una perversione sistemica, chi è più in alto in graduatoria rischia di prendere il posto “peggiore” o di non lavorare affatto: l’istanza viene compilata senza avere le disponibilità dei posti e nel caso in cui questi venissero liberati in un secondo momento, chi ha più punti ed è senza cattedra viene lasciato senza lavoro, in quanto l’algoritmo non torna indietro. Una soluzione a questa ingiustizia sarebbe facile ed indolore: tornare alle assegnazioni in presenza o quanto meno correggere il sistema sulla base delle segnalazioni fatte e delle sentenze emesse.
La Riforma Bianchi
Pur non volendo ripercorrere in maniera puntuale la riforma finalizzata alla selezione dei nuovi docenti e alla formazione continua del personale scolastico che l’ex Ministro dell’Istruzione ha promosso, si ritiene però importante sottolineare che è uno dei tasselli della scuola 4.0, cioè rientra nelle azioni da realizzare con i soldi del PNRR (legge 29 giugno 2022 n. 79, conosciuta anche come decreto PNRR2, articoli dal 44 al 47). L’urgenza nel definire la spesa ha portato il Governo Draghi ad approvare, a ridosso della scorsa estate, una riforma fatta solo di scatole vuote e cioè prevalentemente definizioni di massima di un sistema che ancora oggi non ha tutti i decreti attuativi (annunciati per luglio 2022), ma che intanto ha di nuovo paralizzato soprattutto i precari in una delle attività frustranti a cui si stanno abituando: l’attesa.
I punti salienti della riforma riguardano le modalità di accesso alla professione docente per la scuola secondaria di primo e di secondo grado e l’istituzione dell’Alta scuola di formazione per tutti gli insegnanti. Prevede inoltre, come accade quando si introduce un nuovo sistema di selezione, delle norme transitorie valide fino al 31 dicembre 2024: il nuovo concorso straordinario, che l’attuale Ministro si attribuisce, era già previsto da Bianchi e approvato. La riforma stabilisce che gli aspiranti docenti dovranno fare un corso universitario post laurea abilitante e superare il concorso. Nulla di nuovo: c’era una volta la SISS e poi la Buona scuola (che però, da questo punto di vista non è mai diventata operativa). Nella fase transitoria sono previsti degli “sconti” sulla formazione: chi ha 3 anni di servizio dovrà farne la metà (cioè 30 Crediti formativi universitari), mentre chi ha la laurea e 24 CFU (altro balzello formativo obbligatorio, che però doveva essere acquisito entro ottobre 2022) ne farà un po’ di più (36). Ovviamente nessuna riduzione per chi ha sia i 3 anni di servizio che i 24 CFU.
Leggendo il testo legislativo appare evidente come l’Alta scuola sia un potente strumento per due motivi fondamentali: il primo è che definisce i contenuti della formazione, stabilisce le modalità e chi potrà erogarli; il secondo è che inserisce nel suo massimo organismo decisionale i presidenti dell’INDIRE e dell’INVALSI, dando nuova linfa vitale a due istituti molto contestati dal mondo della scuola.
Ma la ciliegina sulla torta della Riforma Bianchi è il mantra che viene ripetuto ovunque: “senza oneri per lo Stato”. Tradotto vuol dire tasse alte per i concorsi, spese di iscrizione sostenute per i corsi di formazione, a fronte di stipendi che continuano ad attestarsi tra i più bassi d’Europa. La torta è la formazione, nuovo proficuo settore economico per le università statali, ma soprattutto per i centri dedicati, in mano ai privati ovviamente.
Una soluzione possibile
Il percorso abilitante a pagamento previsto dalla riforma è una delle prove che ormai il lavoro si compra, o meglio, ci si prova, perché (in questo come in altri casi) il messaggio di fondo è che bisogna investire per cercare di averlo, ma nulla è garantito. È uno dei tasselli aberranti della società in cui siamo precipitati, senza opporre resistenza e soluzioni alternative: le regole vengono definite non certo da chi ha a cuore la scuola, ma dagli interessi delle università e di Confindustria, che con la Fondazione Agnelli svolge uno dei ruoli principali.
Ripercorrendo la storia del precariato scolastico, però, appare evidente come sia un problema che viene da lontano e il sistema che ha dimostrato di essere risolutivo è stato il cosiddetto “doppio canale”, cioè un meccanismo per stabilizzare a scorrimento gli insegnanti abilitati, al quale è necessario affiancare il riconoscimento dell’abilitazione a tutti gli insegnanti con tre anni di servizio, senza oneri per loro (se non simbolici, come in passato i PAS). Solo così lo Stato potrebbe sanare una sua mancanza e riconoscere il diritto e il merito che hanno le migliaia di docenti a tempo determinato che ogni anno consentono di riaprire le scuole. Certo, dovrebbero volerlo per primi proprio i precari: senza pregare o chiedere la grazia, ma protestando insieme a tutto il personale della scuola. Perché il precariato non è un problema solo dei docenti che lo vivono: è un problema per tutti.
* Giulia Pezzella, romana, insegna Lettere nella scuola secondaria di primo grado; attivista CUB SUR e socia di ALaS, si occupa di politiche scolastiche. Precaria fino al 1° settembre 2023 pur avendo già superato l’anno di prova, perché vincitrice del concorso straordinario bis.