Dall’articolo 18 al Jobs act. La parabola del sindacato contro la precarietà
Eliana Como*
23 marzo. Io c’ero!
Mi iscrissi alla Cgil nel 2002, poco dopo il G8 di Genova e poco prima che iniziasse la lotta per la difesa dell’art.18, con la manifestazione al Circo Massimo a marzo dell’anno dopo, che segnò in modo indelebile la storia di militanza sindacale di tanti e tante di noi.
Io c’ero, sì, non avevo ancora 30 anni e ero precaria. Lavoravo a collaborazione occasionale, con contratti di carta velina, senza una busta paga né una scadenza certa di pagamento, senza un ufficio e in teoria senza un orario di lavoro. In teoria, perché in pratica lavoravo sempre, perché non avevo un solo datore di lavoro, ma anche 4 o 5 insieme, perché nessuno bastava da solo a garantire di pagare l’affitto e poco altro. Bisognava accettare ogni proposta, con le relative scadenze che si accavallavano le une sopra le altre, senza tregua, sabato e domenica compresi.
La mia generazione era la prima che, pur avendo studiato, si ritrovava senza diritti in un mondo del lavoro che stava velocemente cambiando. All’epoca, politici e intellettuali ci spiegavano che dovevamo esserne entusiasti, finalmente liberi dal posto fisso. Una farsa collettiva, di cui si innamorò anche parte della sinistra radicale, ubriacata dalla fretta di liquidare il fordismo e dare per morta la classe operaia, senza aver fatto i conti con la mancanza di diritti, salario, dignità e stato sociale che il nuovo corso ci proponeva. Da parte mia, non ci sono mai cascata, non ho mai pensato di essere “flessibile” ma solo “precaria”, anche se avevo avuto l’impagabile privilegio di studiare e fare un lavoro che amavo.
Cosa fosse l’art.18 lo avevo imparato sui libri, nel mio lavoro non esisteva. Eppure quella lotta in difesa di un diritto che a me non cambiava niente la sentivo mia. TU SI TU NO diventò la chiave di volta di quella stagione sindacale: i diritti non sono a somma zero, indebolire l’art.18 a chi lo aveva non avrebbe migliorato la mia condizione di precaria, ma anzi la avrebbe resa peggiore. Esistevano lavoratori di serie A e di serie B, era innegabile. Ma non erano in competizione tra loro. Non esistevano privilegi da abbattere, ma diritti da difendere e altri da conquistare. E solo la forza trascinante di una intera classe lavoratrice ci poteva riuscire, perché noi precari, da soli, non ce l’avremmo fatta.
Nella difesa dell’art.18 mi trovai, così, a vivere la mia prima grande lotta sindacale, forse l’unica che ottenne almeno un risultato: fermare la riforma voluta dal governo Berlusconi.
Gli anni 90 e la concertazione
Le contraddizioni dentro il sindacato di allora non mancavano e ne ero consapevole. Era stata quella stessa Cgil del 23 marzo ad accettare, nel decennio precedente, la trappola della concertazione e a firmare insieme a Cisl Uil e i governi tecnici, accordo dopo accordo, la cancellazione della scala mobile, la controriforma delle pensioni e le prime forme di quella precarietà che spacciavano per flessibilità e che metteva le basi del successivo arretramento. Chiusa la parentesi dei governi tecnici, la concertazione era stata messa in discussione da destra e fu questo a provocare la reazione e portare la Cgil a mobilitare il paese per difendere l’art.18.
Quando, pochi mesi dopo, si trattò di schierarsi per il referendum promosso da Rifondazione e estendere l’art.18 alle imprese con meno di 15 dipendenti, la Cgil si tirò indietro, scegliendo la strada della raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare di cui, dopo un po’, non si parlò più. Nel frattempo, con o senza di noi, il Libro Bianco di Sacconi in materia di precarietà, delega dopo delega, era entrato a regime.
Dopo il 2003
Negli anni successivi, il ricatto entrò nei posti di lavoro aggirando l’art.18, attraverso il dilagare di lavoro precario, part time involontario, appalti e subappalti. Rimasero solo gli accademici più prezzolati a raccontare la favola della flessibilità. Il posto fisso diventò un miraggio e si scoprì che la classe operaia in fondo non era morta. Esisteva eccome, non soltanto nei settori industriali e manifatturieri ma anche nei servizi. Soltanto era molto più debole, meno riconoscibile e, soprattutto, non più rappresentata dalla politica, che continuava ad alternare governi di centro-destra e centro-sinistra, senza fare la differenza sulle politiche che riguardavano il lavoro, la precarietà, le pensioni e lo stato sociale.
La crisi del sindacato e la crescente incapacità di mobilitarsi andò di pari passo, intrappolata da una mancanza strutturale di autonomia dalla politica e dalla continua illusione di riproporre una stagione di concertazione senza che ci fossero più le condizioni e, in ogni caso, senza rendersi conto che negli anni 90, aveva prodotto solo danni, imponendo sacrifici al mondo del lavoro in attesa di quel secondo tempo che non arrivò mai.
Il governo Monti e la rivincita sull’art.18
A 10 anni di distanza, sulle macerie della crisi economica del 2008 e sull’empasse politico del governo Berlusconi, arrivò un nuovo governo tecnico, quello di Monti. Era il governo dell’austerità, imposto dall’Europa e dalla lettera di Draghi, allora presidente della BCE. Dopo aver verificato con la riforma Fornero sulle pensioni che letteralmente non esisteva opposizione sindacale, fu il momento della rivincita sull’art.18.
Monti e Fornero non proponevano solo una modifica, ma una vera manomissione e, in confronto, il primo tentativo di Berlusconi impallidiva. L’affondo fu totale: cancellare il diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo e sostituirlo con un indennizzo economico.
Lo spread non c’entrava niente. Sulle pensioni avevano fatto cassa, ma sui diritti la partita era un’altra: spezzare l’architrave dello Statuto dei Lavoratori e generalizzare la condizione di ricatto nei posti di lavoro. Si ponevano le basi per superare da destra la divisione tra lavoratori di serie A e B, rendendo anche il tempo indeterminato più debole. Dieci anni dopo, avevano ottenuto quello che volevano: TU NO TU NO.
La foto di Monti che beve un bicchiere di vino insieme a Camusso a latere del Forum di Cernobbio suggellò la resa, con buona pace dei metalmeccanici che avevano scioperato il 9 marzo in piazza San Giovanni a Roma. Me la ricordo bene quella piazza, piena fino a scoppiare, con Landini, allora segretario della categoria, che minacciava dal palco “nessuno tocchi l’art.18”.
Pochi mesi dopo, a giugno 2012, l’art.18, come lo avevamo conosciuto, non c’era più.
Il governo Renzi e il Jobs act
Due anni dopo, il governo Renzi completò l’opera con il Jobs act, che liquidò quel poco che era rimasto dell’art.18, introducendo un indennizzo economico calcolato sull’anzianità di lavoro. Era l’ennesimo spartiacque: dal 23 dicembre 2014, i nuovi assunti perdevano definitivamente la reintegra (già depotenziata dalla Fornero) e ottenevano in cambio un sistema a tutele crescenti (2 mensilità per ogni anno di servizio). Rimaneva solo la tutela nel caso più odioso del licenziamento discriminatorio, già escluso dalla precedente riforma Fornero, ma facilmente aggirabile con il licenziamento economico.
Da lì in poi, per l’impresa licenziare era più facile, più certo (meno condizionato dalla discrezionalità del giudice) e soprattutto meno costoso. Anche il posto fisso non era più tale.
Il sindacato aveva provato a ribellarsi. Nonostante il governo fosse targato PD, la Cgil aveva proclamato una grande manifestazione a Roma sabato 25 ottobre (i giornali titolarono 1 milione di persone).
La piazza fu, però, seguita dallo sciopero nazionale della sola Fiom il 14 novembre, con manifestazioni interregionali che si intrecciavano alle mobilitazioni già lanciate dai movimenti sociali. Ricordo piazza Duomo a Milano, in quella occasione, piena come non l’ho più vista. Ma anche questa volta, nonostante la dimostrazione di forza del sindacato e la disponibilità a mobilitarsi dei lavoratori e delle lavoratrici, i proclami a non fermarsi e a resistere un minuto in più del governo rimasero senza seguito. Il Jobs act fu approvato il 10 dicembre del 2014 con voto di fiducia. Eravamo rimasti in pochi in piazza quel giorno. C’era ancora il movimento, c’era la sinistra sindacale, ma non c’era la Cgil e nemmeno la Fiom, che si erano date appuntamento il 12 dicembre insieme alla Uil, per uno sciopero che non poteva che essere di testimonianza, visto che il Jobs act era già stato approvato.
La Carta dei diritti
Quella stagione si concluse poche settimane dopo, quando, passate le feste di Natale, il direttivo nazionale della Cgil decise, con la nostra opposizione, ma con il consenso della Fiom, che la vertenza per riconquistare l’art.18 sarebbe proseguita nei contratti nazionali e “fabbrica per fabbrica”. Senza ammetterlo, si scriveva la parola fine. Se non eravamo riusciti a bloccare la cancellazione dell’art.18 a livello nazionale, come potevamo pensare di farcela nelle singole categorie o nei posti di lavoro? La proposta di reinserire l’art.18 nei contratti nazionali non arrivò nemmeno nelle piattaforme e, salvo importanti eccezioni, come la IMP Pasotti a Brescia e la GKN a Campi Bisenzio, nemmeno nelle grandi fabbriche ci si provò davvero.
Mesi dopo, mentre la Fiom tentava la strada della coalizione sociale, partì la stagione della mobilitazione di “carta” della Cgil. Banchetti per la raccolta di firme ovunque, prima per la Carta dei Diritti, il Nuovo Statuto dei lavoratori, poi per i referendum su art.18, voucher e appalti. Senza una vera lotta nel paese, la mobilitazione non decollò. La Cassazione non ammise il quesito referendario sull’art.18 e milioni di firme per la Carta dei Diritti finirono dimenticate in chissà qualche scantinato di Montecitorio.
Oggi, 20 anni dopo
Sono passati altri 10 anni. I poster con le foto del Circo Massimo quel 23 marzo 2003 sono tuttora sulle pareti di ogni camera del lavoro, a ricordarci come eravamo. Ma l’immobilismo degli anni successivi, l’andamento altalenante a seconda del governo in carica, la mancanza di continuità delle lotte intraprese e poi abbandonate pesano come macigni. Tanto che nemmeno i più odiosi governi, prima Draghi poi Meloni, hanno avuto l’effetto di rianimare l’opposizione sindacale, oltre le manifestazioni di routine, a cui partecipano sempre più i gruppi dirigenti e al massimo i delegati, ma non i lavoratori.
Dubito che anche la grande e bella manifestazione a Roma del 7 ottobre segni un punto di svolta. È un fatto che la parola sciopero generale sia risuonata dalla piazza, ma mai pronunciata dal palco. Anche nella successiva conferenza stampa, il segretario generale ha usato formule di rito: “non escludiamo di usare ogni strumento che è disponibile in questo paese”.
Quasi come se ci fosse un qualche timore a pronunciare la parola sciopero. I padroni inquinano, devastano, sfruttano, pagano 5 euro l’ora, licenziano via mail, delocalizzano senza un perché. E noi usiamo perifrasi perché la parola sciopero pare troppo.
Ad oggi, mentre scrivo, lo sciopero generale che servirebbe da mesi contro le scelte del Governo non è ancora stato dichiarato. A novembre, probabilmente si alterneranno scioperi regionali e forse di categoria, non è chiaro come e quando e soprattutto con quale e quanta convinzione di andare avanti con radicalità.
Nel frattempo, la legge di bilancio è praticamente scritta: risposte parziali sull’inflazione ripagate con altre privatizzazione e tagli alla spesa sociale, riduzione della spesa per la sanità pubblica con un ulteriore regalo alle strutture pubbliche private in convenzione, niente salario minimo, niente modifiche alla legge Fornero, nonostante le tante promesse in campagna elettorale sui 41 anni.
Con il rischio che, anche questo autunno, il sindacato perda l’occasione di tornare a essere protagonista autorevole di una nuova stagione di diritti. Le ragioni non ci mancherebbero davvero. E anche se sono un po’ più realista di 20 anni fa, in fondo, continuo a sperarci che, prima o poi, si determini uno scatto di dignità. Perché una lotta radicale del mondo del lavoro per il salario, lo stato sociale, le pensioni, la sicurezza sul lavoro e contro la precarietà non è mai stata necessaria come ora e non sarà mai troppo tardi per tornare a riconquistare forza e credibilità e mobilitare il paese per portare avanti quella vertenza iniziata nel 2003.
* Eliana Como fa parte della assemblea generale nazionale Cgil e Fiom, è portavoce di Le radici del sindacato, area alternativa in Cgil. Antifascista e transfemminista, è attiva in Non Una Di Meno e nel mondo Lgbt+.