Stellantis, la catena invisibile

Iolanda Picciariello*

Io e la fabbrica

La mia storia inizia negli anni ’90, studiavo per diplomarmi a Melfi, città nota soprattutto agli appassionati di storia per le Costituzioni promulgate da Federico II di Svevia nel 1231. A distanza di secoli il Vulture melfese è tornato alla ribalta, ribattezzato “Prato Verde” proprio per sottolineare la verginità di queste terre rispetto alle culture industriali e, inevitabilmente, paradiso per imprenditori alla ricerca di lavoratori liberi da quella memoria conflittuale che ormai caratterizzava gli storici siti industriali fordisti.

Come studentessa partecipai agli scioperi contro la costruzione di Fenice, un impianto di termodistruzione dei rifiuti all’epoca afferente al gruppo FIAT e mai avrei immaginato che da lì a poco la mia vita avrebbe incrociato quella realtà.

Sono entrata in fabbrica nel 1999, a 23 anni, con l’idea di restarci per qualche giorno e poi andare via, come gran parte dei miei amici, via da questo Sud che mi offriva tanta bellezza, ma nessuna prospettiva. Una volta dentro, ho capito che avrei perso la mia umanità per diventare un numero di matricola, parte di un impianto, un ingranaggio, che avrei svolto le stesse operazioni decine, centinaia, e poi migliaia di volte inseguendo una catena di montaggio che non doveva fermarsi mai. Stavo iniziando a vivere quella vecchia storia raccontata dal famoso Tempi moderni di Charlot. I primi giorni tornavo a casa arrabbiata con me stessa più che stanca, ma poi iniziai a conoscere le persone, gente che aveva visto nascere quella realtà nella quale aveva riposto molte speranze, che aveva preso parte alle prime fasi dell’avviamento con entusiasmo. Mi piaceva ascoltare i racconti dei miei compagni di lavoro, la loro vita lavorativa era cambiata, dalla terra, dall’edilizia, da stipendi bassi e spesso in nero alla possibilità di contrarre mutui, costruire una casa e una famiglia grazie alla busta paga, anche se…

I giorni passavano, diventarono settimane, mesi, anni e le condizioni lavorative sempre più pesanti da sopportare. Nei racconti l’entusiasmo stava cedendo il posto alla frustrazione, all’insoddisfazione, soprattutto alla consapevolezza di essere entrati in una gabbia da cui si poteva uscire in qualsiasi momento, ma come si fa quando hai una famiglia, un mutuo, progetti da realizzare e figli sui quali si è investito? Forse si può, è difficile, ci vuole coraggio, forse non si può. 

Lavorare sulla catena

Nonostante qualche ribellione – la Primavera 2004, con lo sciopero dei 21 giorni su tutte – le condizioni lavorative peggiorarono anno dopo anno. A mio parere, gli operai con la terza media di Melfi sono stati studiati come topolini nei laboratori da gente pagata per calcolare il nostro tempo, cronometrando ogni singola operazione e per creare le

nuove postazioni. L’attacco del padrone ha raggiunto il livello più alto con il licenziamento dei tre lavoratori a Melfi di cui due erano sindacalisti. Approfittando del clima di tensione e soprattutto di paura, è riuscito ad imporre una ristrutturazione a partire dalla sostituzione del CCNL con il CCSL, il contratto collettivo specifico di lavoro voluto

dall’amministratore delegato dell’epoca. I tre licenziati furono reintegrati, ma tanto bastò a cambiare completamente le cose in fabbrica.

In quel periodo ho scoperto che la parola “saturazione” poteva assumere un significato diverso da quelli che conoscevo. In particolare pensavo: “una soluzione satura contiene la concentrazione massima di soluto disciolto, non si può aggiungere altro soluto senza che esso precipiti”, e non mi ci volle molto tempo per capire che avrei condiviso con le soluzioni solo il verbo “precipitare”. Per noi saturazione significa dedicare ogni secondo sulla linea al lavoro, per questo ogni movimento, anche i passi fatti per prendere il materiale da assemblare, è stato cronometrato.

Velocità, saturazione e tempi ciclo hanno iniziato a caratterizzare sempre più fortemente il lavoro svolto da uomini e donne che continuavano ad essere parte di un enorme ingranaggio alla continua risalita della catena, controcorrente, per assemblare sempre gli stessi pezzi, e in meno di un minuto ritornare al punto di partenza per lavorare sul prodotto successivo ed assemblare di nuovo all’infinito gli stessi pezzi. A quel punto, partendo dalle ore di lavoro a disposizione

e dalla produzione giornaliera, per me è stato stabilito che avevo circa 67 secondi per lavorare su un paraurti e passare al successivo.

Dopo la Grande Punto

Fino a qualche anno fa producevamo la Punto e poi la Grande Punto, auto con basso valore aggiunto, che mi piace definire popolare. All’epoca il lavoro era intenso, non si era mai vista tanta cassa integrazione quanta ne vediamo oggi, eppure ci avevano lasciato credere che salendo di segmento avremmo lavorato senza problemi! 

Prima produzione a Melfi facevamo grandi numeri, ogni lavoratore aveva a disposizione circa 107 secondi per eseguire le operazioni su ogni vettura nel suo layout, cioè lo spazio fisico dove inizia e finisce la postazione. Con il nuovo lavoro e con il CCSL, i secondi a disposizione al montaggio sono diminuiti, per chi lavora con accumulo come me, i secondi sono anche meno, perché lavorare con accumulo significa avere una produzione più alta rispetto al montaggio per avere a disposizione dei pezzi finiti in più. Questa folle corsa ha determinato l’aumento della produzione giornaliera, ma anche del ricorso alla cassa integrazione.

Le vetture che oggi produciamo hanno un valore aggiunto molto alto, arriva al 30%, questo significa produciamo vetture che hanno un valore superiore trasformando più efficacemente i materiali di partenza, ma l’efficienza è stata raggiunta anche ottimizzando il nostro lavoro, saturando quasi completamente le postazioni: quasi tutti i secondi che compongono le nostre ore lavorative sono stati impegnati ai fini dell’ottenimento della produzione e qualsiasi imprevisto ci farebbe “imbarcare”, cioè oltrepassare il confine della postazione (il layout) ed invadere quella successiva. Per sfruttare al massimo il lavoro sulla linea quasi tutto il materiale per ogni particolare da lavorare arriva trasportato da carrellini automatizzati e così siamo legati da una catena invisibile alla postazione per tutta la giornata lavorativa.

Le pause

Tutto ciò che viene definito miglioramento nei fatti riguarda l’utilizzo efficiente di materiali e risorse umane, ovviamente dal solo punto di vista del padrone, e si traduce inevitabilmente in peggioramento delle condizioni lavorative: si produce di più con meno lavoratori, in meno tempo e meno pause. Il numero di lavoratori RCL, a ridotte capacità lavorative, è tristemente aumentato perché ripetere per circa 400 volte le stesse operazioni ha determinato senz’altro un aumento delle produzioni, ma anche delle conseguenze devastanti sui nostri corpi riconosciute dai medici.

Ci spettano 3 pause da 10 minuti, una ogni 2 ore, sono minuti durante i quali dobbiamo approfittare per prendere un caffè dopo aver fatto la fila al distributore, sgranocchiare qualcosa e cercare di usufruire del bagno più vicino, se non c’è troppa fila. Il bagno dista da me circa 2 minuti e mezzo, per cui solo nel raggiungerlo e tornare devo conteggiare cinque minuti e ne rimangono 5 per fare tutto il resto prima che riparta la linea, così ho affinato l’ingegno: mangio qualcosa andando verso il bagno e corro sperando di trovare l’unico water libero perché con le turche non riesco proprio (ci sono 2 turche e 1 water). Se trovo fila mi tocca tornare indietro, ma io che sono furba, per evitare spiacevoli inconvenienti, durante il lavoro evito di bere, quindi posso resistere fino alla pausa successiva, e rido mentre scrivo questa assurda verità. Einstein diceva che “il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che facciamo mentre sta passando”, il significato di questa affermazione a volte assume un colore spettrale, vero? La riduzione delle pause ha avuto effetti sulle relazioni interpersonali, si corre anche durante quei 10 minuti, non c’è più tempo per scambiarsi opinioni, ci si ritrova in una specie di isolamento. Mi viene naturale fare un parallelismo con la scelta di

inserire la pausa mensa a fine turno anziché rischiare di creare un momento di aggregazione a metà giornata lavorativa, difatti a Melfi si lavora 7 ore e 30 minuti per cui gran parte dei lavoratori non usufruisce del servizio mensa perché preferisce rientrare.

In molte persone le aberrazioni di una società che fa del profitto l’unica finalità sono diventate quasi normalità, è diventato normale anche lo sfruttamento del corpo, ma io non lo digerisco, sento di dover ribadire che l’essere umano non è una macchina, non può essere parte di un ingranaggio che ogni tanto va semplicemente oliato. Con il passare degli anni la condizione fisica cambia sia per la donna, già abituata a convivere con esigenze mensili, sia per l’uomo.

Vivere in fabbrica significa anche mettere da parte tabù, vergogna, pudore e far emergere la fragilità di un corpo che cede. Non è naturale dover aspettare per andare in bagno, soprattutto con l’età media che supera ormai da tempo i 50 anni, non è normale avere solo 10 minuti di pausa.

C’è un esubero a Melfi?

Dopo un lungo lavoro di studio che l’azienda ha saputo fare benissimo, avvalendosi tra l’altro di appoggio politico, ma lo devo dire, anche di un sindacato compiacente che ha sottoscritto, attraverso il CCSL, delle norme ad hoc che rendessero più appetibile la FIAT per la vendita, ci siamo ritrovati ad oggi nel nuovo gruppo Stellantis, con snellimento

occupazionale, spazi di democrazia sempre più ridotti, perdita dei diritti, condizioni di lavoro sempre più insostenibili.

La zona industriale ha iniziato a vivere un momento di enorme tensione dopo le voci, inizialmente smentite, riguardante l’esubero del personale in Stellantis, sta di fatto che per gli operai dello stabilimento è stato firmato un primo accordo il 25 giugno 2021, seguito da altri accordi, per incentivare la fuoriuscita volontaria pubblicizzandolo, sostenendo l’idea dello svecchiamento. Il risultato, peraltro prevedibile, è stato che in una realtà come la nostra per la maggior parte dei vecchi assunti non ci sono i requisiti né di età, né contributivi per poter approfittare del contributo, ma soprattutto non ci sarebbero alternative lavorative in questa società che ha reso sempre più facile l’uscita dal mondo del lavoro, ma non l’ingresso in esso. Ovviamente molti giovani hanno approfittato di questa opportunità e non sono stati sostituiti con altri lavoratori, così questa operazione ha portato solo ad una grossa perdita occupazionale, altro che svecchiamento!

La mia storia però non finisce con questa valanga di soldi che per qualcuno poteva essere anche un bel finale.

Stellantis ha deciso che i lavoratori di Melfi devono andare in trasferta, così a fine ferie molti hanno dovuto, loro malgrado, andare a lavorare nello stabilimento di Pomigliano. 

A quanto pare la selezione è stata abbastanza accurata: molti trasfertisti sono RCL o fruitori della legge 104/92, che assistono cioè persone gravemente ammalate, e sono stati spediti in uno stabilimento dove vige il regime di cassa integrazione. A questo punto è lecito chiedersi se lo scopo non sia innescare una guerra tra poveri oppure fornire un ulteriore incentivo a cambiare mestiere, sta di fatto che molti lavoratori come risposta a questa chiamata alle armi hanno pensato di dimettersi.

Tutto quello che accade in Stellantis si riflette sull’intera economia della nostra regione, ed ancora più direttamente sull’indotto che subisce le nostre perdite di produzione e il taglio dei nostri occupati con un mancato rinnovo delle commesse, di conseguenza se Stellantis riesce a diminuire il numero degli occupati senza licenziare nessuno non si può certamente dire la stessa cosa per l’indotto che potrebbe perdere lavoratori nel silenzio generale, perché poche centinaia di posti di lavoro non fanno notizia.

Il polo industriale a Melfi occupava circa 15.000 lavoratori, solo Stellantis ai tempi d’oro con le assunzioni dei giovani Jobs act contava circa 7.500 dipendenti, dopo tutti questi accadimenti non sappiamo bene quanti essi siano, si parla di 6.200 lavoratori circa in Stellantis. Di certo chi vive in questo contesto respira incertezza e paura per il futuro, sentimenti che sono emersi chiaramente in un servizio della Rai che ha messo in luce la totale sfiducia dei lavoratori nei confronti della politica e di tutti i sindacati. Il vecchio Prato verde, con il tempo, ha perso il suo bel colore, oggi gli operai di Melfi vedono andare in fumo centinaia di posti di lavoro ed è questo l’oggetto principale di molte discussioni.

Un finale tutto da scrivere

Questa sera il sangue ribolle aspettando domani, dopo anni ci sarà uno sciopero unitario di 8 ore, finalmente Melfi rialza la testa! Sul piatto ci sono le condizioni di lavoro e l’incertezza per il futuro. La settimana scorsa sono iniziati i primi cortei interni, scioperi spontanei a causa della durezza delle postazioni, riprendendo una parola cara al padrone, siamo arrivati a saturazione!

Chissà se questa terra brigantessa si rialzerà.

The day after

Non potevo lasciare questa storia in sospeso. Lo sciopero c’è stato e ognuno ha fornito numeri e valutazioni. Secondo i sindacati l’adesione è stata pari al 90%, secondo l’azienda al 25%. Intanto il piazzale antistante Stellantis è stato presidiato e lì tutti gli autobus sono arrivati con 4-5 passeggeri su circa 50 posti disponibili, solo il 10% circa dei lavoratori è arrivata con il trasporto pubblico. Ho contattato alcune persone all’interno dello stabilimento e le risposte erano sempre le stesse: c’è poca gente e le linee del montaggio sono ferme!

I sindacati forniscono una visione contrastante anche sui motivi che hanno portato alle proteste. Per qualcuno l’azienda è colpevole di non aver rispettato il CCSL, per altri si doveva continuare a lavorare sui motori endotermici che garantivano occupazione, per altri ancora i problemi derivano proprio dalle conseguenze del CCSL con i ritmi imposti e dalla scarsità di investimenti sulla ricerca, nonché dall’ingiusto e incomprensibile ricorso alle trasferte.

Comunque noi siamo tornati a lavorare con la promessa che le parti si incontreranno e nel frattempo si sono fermati i cortei di protesta interni. Intanto le produzioni sono state aumentate di 10 vetture, per cui la linea deve andare più veloce, non sono state aggiunte persone sulla mia linea, per cui in meno tempo dobbiamo fare quello che già facevamo! 

A questo punto ci sorge un dubbio: che questo sciopero non sia stato funzionale proprio a sedare gli animi?

Ma questa è una storia ancora da scrivere.


* Iolanda Picciariello, nata a Montréal (CND) l’11 gennaio 1976, vive in Italia dal 1987. Ha iniziato a lavorare dopo che una sua amica inoltrò domanda di assunzione anche per lei, in realtà era pronta a partire come hanno fatto quasi tutti i suoi amici che all’epoca avevano trovato lavoro da Roma in su. Da subito ha simpatizzato in fabbrica con alcuni lavoratori legati ai Cobas, ma durante la Primavera di Melfi entrò a far parte della FIOM ed è entrata a far parte del direttivo. A un certo punto ha deciso che la passione per la lettura e la sua curiosità potevano essere canalizzate in qualche modo, per cui decise in tarda età di iscriversi all’università ed ha conseguito la laurea triennale in tecnologie alimentari e poi a luglio 2021 la laurea magistrale in scienze e tecnologie alimentari a pieni voti all’Università degli Studi della Basilicata.

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