Socialismo e/o sinistra di fronte alla “guerra capitalista”
Paolo Favilli*
La guerra mondiale “a pezzi” convergenti in corso è la questione fondamentale di questo nostro presente. È questione strettamente connessa ai grandi nodi economici, sociali e politici sui quali è indispensabile provare la capacità di pensare e agire in un orizzonte che ha molte analogie con la catastrofe che ha aperto il secolo XX. Ci sono forti probabilità che una catastrofe, in scala incomparabilmente più alta, possa segnare l’inizio del XXI.
L’analogia, uno dei fondamenti dell’ermeneutica storica, va, naturalmente, utilizzata con molta prudenza e all’interno di un ampio sistema di distinzioni. Il clima dell’agosto 1914, però, convoglia sul momento attuale qualcosa di più di una semplice aura di una temporalità conclusa.
Allora l’intreccio fra le tensioni economiche (capitale finanziario e logiche mercantiliste), tensioni interne alla molteplicità dei nazionalismi (“nazioni storiche”, nazioni in fieri cui tendevano “popoli senza storia”) si traduceva in un sistema generale di conflittualità sempre meno controllabile.
Oggi la sistematica della conflittualità si presenta sostanzialmente negli stessi termini sebbene le forme di capitale finanziario e le forme dei nazionalismi, la forma imperialismo, insomma, abbia caratteri assai diversi. Del tutto divergente, invece, il modo in cui socialismo e/o sinistra si pongono di fronte alla questione della guerra in generale e alle guerre reali in atto. Una modalità che non può essere oggetto di alcuna comparazione analogica. In questo caso il criterio della distinzione assume aspetto dirimente.
Parole come “socialismo”, “sinistra” sono termini-concetto, cioè strumenti analitici. Come tali devono dare conto di significati specifici storicamente determinati, in modo da configurare con precisione il contesto in cui si trovano ad operare. Il loro uso del tutto indeterminato, prevalente nella pubblicistica corrente, dal punto di vista analitico è un puro esercizio di fiato, dal punto di vista del messaggio politico un inganno. Frutto, in parti difficilmente quantificabili, sia dell’inconsapevole ignoranza che accomuna ceto politico e operatori dei media, sia della consapevole propaganda di chi si trova particolarmente a suo agio nella caligine di una notte nella quale tutte le vacche sono nere.
Il socialismo nell’orizzonte dell’agosto 1914.
I 25 anni che separano la fondazione della II Internazionale dallo scoppio della Grande guerra sono il periodo nel quale il termine socialismo assume un significato difficilmente equivocabile. I socialisti sono coloro che hanno scelto il partito politico moderno, anzi che lo hanno “inventato”, come strumento necessario alla lotta per l’emancipazione dei subalterni. Coloro per cui il partito informa la propria prassi e la propria cultura politica al “marxismo” come fondamento dell’identità socialista. Coloro che ritengono l’internazionalismo componente ineliminabile del marxismo.
Il marxismo che caratterizza quei 25 anni può definirsi come “marxismo strutturato”, “marxismo organizzato”, in sostanza quello che ha contrassegnato, in maniera assai più vincolante, la nostra esperienza novecentesca. Era, però, la prima volta che il fenomeno si manifestava, e, all’interno di una cornice che, comunque, doveva segnare con chiarezza il confine tra socialismo marxista ed aree di “sinistra” genericamente progressista, permanevano aspetti del “marxismo diffuso”, del “marxismo fuori del marxismo”, tipici della fase precedente della sua storia.
Gli effetti di questa persistenza non furono negativi. L’inesistenza di una «ortodossia» in qualsiasi modo imposta ne fu una delle conseguenze maggiormente significative. Certo anche quel primo “marxismo strutturato” faceva riferimento alla Spd come una sorta di “partito guida”. L’ultima parola dei tedeschi aveva un grande peso. In un certo senso la posizione che risultava maggioritaria nella Spd rappresentava una sorta di “ortodossia”, e questa parola era comunemente utilizzata nella discussione teorica e politica. Il ricchissimo dibattito, libero, spregiudicato, privo di vincoli, assai spesso di livello altissimo, che si svolgeva nell’ambito del marxismo della Seconda internazionale, però, non era per niente vincolato dall’esistenza del suddetto tipo di “ortodossia”. Proprio la continua elaborazione del rapporto tra socialismo e problema della guerra ne è una delle prove più evidenti.
L’espressione “guerra capitalista”, oggi diventata anche titolo di un recentissimo e importante libro, è categoria analitica utilizzata e sottoposta a continua ridefinizione nel corso dei dibattiti di cui si è detto. Si tratta del punto d’arrivo di un lungo percorso nel quale i socialisti adeguano continuamente la loro analisi in relazione ai mutamenti del contesto in cui si svolgono gli avvenimenti bellici e il rapido mutamento della tecnologia che moltiplica a dismisura il loro carattere di macchine di morte.
Il problema della guerra è una costante della riflessione nell’universo socialista fin da 1848, quando guerra e rivoluzione democratica sembravano far parte dello stesso insieme, quando il marxismo non esisteva, quando il vocabolo “socialista” aveva un grado molto alto di indeterminatezza, quando Marx si definiva “comunista”. Qualche decennio dopo i socialisti della Seconda internazionale avrebbero dedicato alla questione un posto decisamente rilevante della loro analisi relativa all’accumulazione del capitale nell’età dell’Imperialismo.
Negli anni Sessanta di alcune guerre si valutava anche l’effetto positivo per la formazione delle grandi “nazioni storiche”, giudicate terreno necessario allo sviluppo del movimento operaio. Poi però i conflitti armati si trasformarono rapidamente in quelle “guerre dinastiche” che rafforzavano il “dispotismo militare” tanto dei Bismark che dei Bonaparte. Ed infine nel congresso di Losanna dell’Associazione Internazionale degli Operai (1867) per la prima volta si pose l’accento sulle cause sociali ed economiche della guerra. Le basi per una caratterizzazione della “guerra capitalista” erano state poste.
Al tornante del secolo le fiammate della guerra s’intensificano in varie parti del mondo e vedono protagoniste le potenze europee (con l’appendice americana degli interventi statunitensi a Cuba, Portorico, nelle Filippine) confliggenti nella spartizione coloniale e nella continua ridefinizione delle zone di influenza. In tale contesto il termine “imperialismo” viene ad assumere significati che vanno al di là della semplice rappresentazione di una politica di espansione territoriale.
Il nuovo imperialismo, specifico di una fase storica, si pone ormai come oggetto di studi e analisi approfondite e la cultura socialista (anche se non fu la sola) produsse a proposito contributi che sarebbero diventati dei classici della letteratura sull’argomento. I testi di Kautsky, Luxemburg, Hilferding entrarono da subito nel nucleo centrale dei dibattiti socialisti, tanto nella pubblicistica che nei congressi dell’Internazionale. “Ormai vi sono solo guerre capitaliste”, poteva dire Jean Jaurès nel 1913, raccogliendo il consenso di tutte le correnti dell’Internazionale nella quale questo concetto era diventato elemento comune, sebbene lo si declinasse in sensi diversi.
Ancora al congresso di Stoccarda (1907) ci si poteva interrogare, con grande imbarazzo dell’Assemblea, peraltro, sull’ipotesi della possibilità di una guerra capitalistica difensiva. Agli inizi del nuovo decennio, però, di fronte al materializzarsi di uno scontro tra cannoniere tedesche e francesi nel porto di Agadir nel contesto della seconda crisi marocchina e poi la guerra di Libia ed al seguito le guerre balcaniche, di fronte ad una “guerra mondiale a pezzi” le cui componenti si configuravano in rapida saldatura, per i socialisti non ci potevano essere più equivoci.
Così al Congresso straordinario di Basilea (1912) viene affermata solennemente la capacità dell’Internazionale di combattere la guerra. E nei documenti preparatori per il Congresso che avrebbe dovuto svolgersi a Vienna proprio nell’agosto 1914, circola largamente la proposta di uno “sciopero generale simultaneo organizzato internazionalmente”, secondo la formulazione del “riformista” Jaurès (a proposito del temine «riformismo» valgono le stesse annotazioni fatte per “socialismo” e “sinistra”).
Il socialismo nella catastrofe
Dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia seguito all’attentato di Sarajevo, nel “Worwäts” del 25 luglio, quotidiano nazionale della Spd, si poteva leggere: “Poiché il sangue di Francesco Ferdinando e di sua moglie è stato versato deve scorrere il sangue di migliaia di operai e contadini? (…) Fu un delitto della stampa sciovinistica della Germania di spronare all’estremo il caro alleato nelle sue smanie di guerra. (…) A Berlino si gioca in questo momento un gioco altrettanto pericoloso che a Vienna”.
18 agosto “Volksblatt” di Halle: “Non è solo il dovere della difesa della patria che ci spinge alle armi in mano, come tutti gli altri tedeschi, ma anche la coscienza che col nemico che stiamo combattendo in Oriente combattiamo al pari il nemico di ogni progresso e civiltà. La sconfitta della Russia è al tempo stesso la vittoria della libertà in Europa”.
Parole che suonano assai familiari nel momento attuale.
Le citazioni tra loro contraddittorie sono riportate da giornali del “partito guida”dell’Internazionale socialista pubblicate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, ma divise dalle dichiarazioni di guerra, e sono tratte dal lungo saggio scritto da Rosa Luxemburg nel 1915 nel carcere femminile di Berlino, dove scontava una condanna ad un anno di reclusione per attività antimilitarista.
Si tratta del testo più lucido, argomentato, documentato, appassionato, dedicato allo studio della catastrofe del socialismo nella più generale catastrofe della guerra, svolto in contemporanea con gli avvenimenti. Si tratta di un testo di straordinaria attualità.
Allora come oggi “alla bestialità delle cose deve corrispondere la bestialità del pensiero” largamente diffusa da “giornali aizzatori” che continuamente ripetevano (e ripetono): “noi (Occidente?) combattiamo per il bene supremo”, “questa è una guerra per la civiltà”. D’altra parte, commentava la Luxemburg, “la leggenda appartiene alla condotta di una guerra tale e quale come la polvere da sparo e il piombo”.
Al di là della fitta cortina delle pallottole di carta che accompagnano con effetti altrettanto letali le pallottole di piombo, la Luxemburg si concentra su due principali nodi teorico-politici. Il primo riguarda una definizione teoricamente ed empiricamente accurata della “guerra capitalista”. Il secondo le ragioni per cui i socialisti di tale guerra finirono per accettarne la logica.
Per l’autrice de L’accumulazione del capitale (1913) il quadro teorico nell’ambito del quale la guerra mondiale era esito, se non necessario, altamente probabile, poteva godere di una delle sistematiche dell’imperialismo più rigorose e analiticamente fondate. Ciò non era tuttavia sufficiente. Nel libro scritto in carcere ella si dedicò ad una disamina storica puntigliosa delle diverse forme di imperialismi in conflitto, la tedesca, l’inglese, la russa. Sui modi in cui convergevano verso la catastrofe: «Il fenomeno storico che oggi viviamo era pronto da un decennio». Sui “frammenti di conflitto” (guerra mondiale a pezzi?) che nel “decennio” l’avevano preparata.
Ovviamente le forme imperialismo di questi nostri tempi non sono quelle studiate da Hilferding e dalla stessa Luxemburg. In particolare, la transnazionalizzazione del capitale finanziario nell’attuale fase della globalizzazione ha caratteristiche qualitative e quantitative non comparabili con quelle precedenti il 1914. Tutto ciò non attenua la dinamica conflittuale tra gli imperialismi; anzi la posta in gioco è così alta che al momento non appaiono segnali di controtendenza per fermare la corsa verso l’esito catastrofico difficilmente evitabile in una realtà di guerra dove quasi ogni giorno si oltrepassa una “linea rossa” ritenuta fino a poco prima invalicabile.
Un quadro, dunque, su cui l’esercizio di un’ermeneutica analogica concernente i “pezzi” del conflitto oggi in atto è del tutto legittimo e portatore di conoscenza reale.
Diverso il caso del secondo nodo teorico-politico affrontato dalla Luxemburg: il socialismo di fronte al 1914, con il quale un confronto di tipo analogico è pressoché impossibile.
Davanti all’attuale “guerra capitalista”: socialismo e sinistra introvabili
Il socialismo che nel 1914 si arrese alle ragioni della guerra era certamente maggioritario, ma non comprendeva la totalità della dimensione politica e sindacale espressione del movimento operaio. Coloro che non si arresero non erano minoranze trascurabili. In alcuni casi non si riconobbero nelle posizioni del «partito guida» intere organizzazioni nazionali con rappresentanze parlamentari di un qualche rilievo, come il Partito socialista italiano.
Inoltre, neppure la Spd intendeva rinunciare ad essere partito di socialismo marxista, di rappresentare quindi l’antitesi al modo di produzione capitalista. La socialdemocrazia tedesca dichiarò “la lotta di classe inesistente dal 4 agosto 1914 fino alla futura conclusione della pace” (Luxemburg). Non rientra nel contesto di questo articolo discutere gli effetti di tale “sospensione” sul panorama delle contraddizioni teoriche e politiche presenti nel campo dell’antitesi dopo la fine della guerra. Intendo solo sottolineare che, come spesso succede nell’ambito di movimenti con forte carica ideale pensata per un radicale mutamento economico-sociale, anche le lotte più dure fanno riferimento ad una comune radice diversamente interpretata. Il “marxismo” era la comune radice. E così nel dopoguerra gli eredi della “sospensione della lotta di classe” e quelli della trasformazione della guerra in rivoluzione finirono per condividere la stessa sorte:
Spuntano dappertutto le SA.
Quelli seguitano a discutere
le teorie di Bebel e di Lenin.
Finché coi tomi di Marx e di Kautsky
stretti nei pugni storpiati
la cella dei nazisti li unirà. (Brecht)
Il 1999 vide la posa del primo pezzo dell’edificio “guerra mondiale” in Europa. Tra il 24 marzo e l’11 giugno circa mille aerei si alternarono nel bombardamento della Repubblica Federale Jugoslava. La motivazione addotta fu quella della “guerra umanitaria” e per la democrazia. La stessa utilizzata in tutte le seguenti e molteplici guerre promosse dalla Nato.
Nei Presidential Documents conservati nel Federal Register si può leggere un ordine esecutivo del presidente Clinton che dichiara l’”emergenza nazionale” per far fronte alle politiche della Federazione Jugoslava che “costituiscono una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti”. La declinazione di questi interessi nel nuovo ordine internazionale dopo il crollo dell’Urss è la chiave per la comprensione della logica con cui vengono montati i «pezzi» successivi al primo.
Di fronte ad una realtà di guerra in atto che conteneva tutte le condizioni per la sua traduzione in guerre future, quale è stata l’azione dei socialisti e/o della sinistra? I socialisti/sinistra dell’epoca si sentivano costruttori di una sorta di nuova Internazionale con il nome ammiccante di Ulivo mondiale. I leaders di questa evanescente organizzazione, il presidente Clinton, che la vacuità veltroniana aveva soffuso di un’aura kennediana, chissà perché salvifica, il primo ministro britannico Tony Blair, quello italiano Massimo D’Alema, il segretario generale della Nato Javier Solana, erano tutti esponenti di primo piano dell’insieme socialismo/sinistra. Ebbene costoro erano in prima fila nello schieramento impegnato direttamente nelle operazioni di guerra. Erano il frutto di un mutamento di fase della storia del capitalismo nel quale la società borghese dell’età contemporanea si manifesta in assenza di antitesi. La fase del capitale totale di cui quel tipo di insieme socialismo/sinistra è intrinseca componente.
Un contesto nel quale parole come “socialismo” e “sinistra” hanno perduto qualsiasi capacità denotativa, e che sono utilizzate dai socialisti senza socialismo e dalla sinistra per simmetria in un senso che rovescia completamente i significati acquisiti in più di un secolo di lotte per l’emancipazione dei subalterni. Solo tutte le forme di opposizione alle guerre in corso, opposizione che pure si svolge in condizioni difficilissime, quasi proibitive, possono provare la centralità della “critica dell’economia politica” nella demistificazione della “guerra capitalista”.
*Paolo Favilli è stato titolare degli insegnamenti di Storia Contemporanea e Teoria della ricerca storica nell’Università di Genova. Tra i suoi libri, “Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra”, Milano, FrancoAngeli, 1996 (“The History of Italian Marxism. From its Origins to the Great War”, Brill, Leiden-Boston, 2016). [Di questo libro è in corso la traduzione cinese per conto del Press Central Compilation and Translation Bureau (CCTB) di Pechino.]