Il paradosso dell’Europa: forza economica e nanismo politico. Verso un declino economico dell’Europa?

Andrea Fumagalli*

1. Il peso economico-finanziario dell’Europa

Il disavanzo commerciale tra l’Europa dell’euro e la Cina nel 2022 ha toccato il record storico di circa 400 miliardi di euro. Nel 2023 secondo i dati Eurostat, il deficit commerciale con Pechino è diminuito del 27% toccando i 291 miliardi. Tale riduzione è in parte dovuto sia alla stagnazione economia europea, che ha ridotto il ricorso alla subfornitura cinese, ma soprattutto al calo dello stesso export cinese, che nel 2023 ha fatto segnare un -4,7%, primo dato negativo dopo il 2016[1]. Nonostante ciò, la Cina è stata il principale partner dell’Ue per le importazioni di beni: i Paesi membri hanno acquistato dal gigante asiatico un quinto delle importazioni extra-Ue del blocco. Più che dagli Stati Uniti (13,7 per cento), Regno Unito (7,2 per cento), Svizzera (5,5 per cento) e Norvegia (4,7 per cento).

D’altra parte, l’Ue esporta in Cina l’8,8 per cento del totale delle sue esportazioni. La terza maggiore destinazione, preceduta dagli Stati Uniti (19,7 per cento) e dal Regno Unito (13,1 per cento).

Ne consegue che l’Europa nel suo insieme ha un peso economico nello scacchiere mondiale assai rilevante nell’economia reale, confermato anche dal peso del PIL europeo sullo scacchiere globale, seppur declinante. Nell’ambito della composizione globale del Pil, facendo un raffronto tra i paesi del G7 e i paesi BRICS+[2], il gap tende a ridursi costantemente e il peso dell’Europa seppur importante (intorno al 16% del totale, inferiore a quello della Cina) incide in modo sempre più declinante.

Alla forza europea nell’economia reale e nel mercato globale dell’export, import e del consumo non segue un altrettanto pesi nei mercati finanziari e monetari.

Con riferimento alla composizione delle riserve valutarie detenute dalle banche centrali, Luigi Gobbi scrive[3]:

“gli asset denominati in dollari sono ancora oggi la grande maggioranza, seguiti da quelli denominati in euro. Va tuttavia sottolineato che, tra il gennaio del 1999 e il giugno del 2023, il dollaro è passato da una percentuale del 71,2% a 58,9%, mentre l’euro ha toccato una percentuale del 28% prima della crisi dei debiti sovrani, per poi stabilizzarsi intorno al 20%. A seguire, con percentuali decisamente inferiori, troviamo lo yen giapponese, la sterlina inglese, il dollaro canadese e lo yuan cinese, rispettivamente con un peso del 5,4%, 4,87%, 2,49% e del 2,45%.

Quello che emerge dal grafico è che:

1. il ruolo degli asset denominati in dollari detenuti a riserva è costantemente in calo;

2. l’euro non si è imposto come sostituto del dollaro;

3. il declino relativo del dollaro è principalmente avvenuto a vantaggio di valute minori”.

Tale situazioni è anche confermata dai dati relativi al peso dell’euro nelle transazioni internazionali, seppur declinate negli ultimi anni.

Tra il settembre 2020 e l’ottobre del 2023, il dollaro ha notevolmente rafforzato la propria posizione, passando dal 38,5% al 47,2% (un aumento di 8,7 punti percentuali), a fronte di un contestuale forte calo della percentuale di pagamenti in euro, che passano dal 36,3% al 23,4%, con una variazione di 12,9 punti percentuali a vantaggio delle principali valute concorrenti.  L’aumento del peso del dollaro è quindi principalmente dovuto al calo del peso dell’euro.

Quest’ultimo dato tuttavia conferma che l’euro non è in grado di competere sul dollaro come valuta internazionale, anche alla luce delle dinamiche delle valute dei paesi BRICS+, che pur avendo un peso molto ridotto, vedono i più alti tasi di crescita. L’utilizzo dello Yuan come moneta per i pagamenti internazionali è più che raddoppiato negli ultimi anni.

2.  Il declino politico dell’Europa

Nel capitalismo contemporaneo il ruolo dei mercati finanziari è particolarmente rilevante come strumento di dominio e comando geopolitico. Il mancato successo dell’euro come possibile moneta alternativa al dollaro è lo specchio del nanismo politico europeo. Un nanismo politico che ha la sua principale causa nella costruzione monca dell’Unione Europea.

Tale costruzione, a sua volta, è figlia dello strabismo ideologico che accompagna l’adozione delle politiche monetariste negli anni Ottanta e Novanta. Tali politiche pongono come primo obiettivo della politica, intesa esclusivamente come politica monetaria, il controllo del tasso d’inflazione, che secondo quanto stabilito dall’art. 105 del trattato di Maastricht, che istituisce la moneta unica europea, non può superare il limite del 2% annuo. In realtà si tratta di un obiettivo strumentale, dal momento che tali politiche hanno come vero obiettivo il riportare il mondo delle imprese a livelli accettabili di profittabilità grazie alla compressione dei costi del lavoro, alla contemporanea diffusione della condizione di precarietà e allo smantellamento dei sistemi nazionali di welfare.

Conosciamo gli effetti di tale politica, dal peggioramento grave e costante della distribuzione del reddito alla finanziarizzazione dei servizi sociali, via liberalizzazione e in alcuni casi privatizzazione. L’obiettivo di riportare (anche se non era venuto meno) l’ordine del capitalismo come ordine naturale è stato raggiunto. Ma a caro prezzo: il venir meno di una coesione politica e sociale dell’Europa.

Aver perseguito l’Unione Europea solo dal punto di vista monetario ha aumentato le fratture nazionalistiche all’interno del vecchio continente, facendo venir meno qualunque rigurgito di solidarietà, come ben evidenziato nella crisi dei debiti sovrani del biennio 2011 – 2012; ha acuito i differenziali territoriali tra un’Europa Centrale e un Europa periferica-mediterranea; ha fatto aumentare il dumping fiscale e salariale tra i paesi membri; ha di fatto accelerato il grado di instabilità, già strutturale, del capitalismo contemporaneo finanziarizzato.

E, ciò che è ancor più importante, ha minato le possibilità di giungere ad una reale Unione Europea.

Il processo di transizione verso un ordine multipolare è oramai in atto, con tutte le tensioni militari ed economiche che ne conseguono.

Se appare evidente il tentativo da parte degli Stati Uniti di opporsi a questo processo e il tentativo dei BRICS+, pur nella loro eterogeneità, di fondare nel medio-lungo termine un nuovo ordine mondiale fondato su più poli, non si capisce invece la posizione dell’Europa. O meglio, la si può capire se si considera l’Europa una cinghia di trasmissione dei comandi imposti dagli Stati Uniti.

L’Europa, di fatto, non è stata in grado di trasferire una autonomia economica (sempre più a rischio) in un’autonomia politica. E ciò deriva dal fatto che l’Europa non è istituzione politica indipendente e sovrana. All’unità dell’euro non è infatti seguita un’unità fiscale, sociale, produttiva. L’Europa non ha una politica estera, non ha una politica valutaria, non ha una costituzione.

In un simile contesto, l’Europa rischia di trasformarsi nel campo di battaglia tra gli Stati Uniti da un lato e i paesi BRICS che più minano l’egemonia Usa (Cina in testa), dall’altro.

3. Gli effetti perversi delle sanzioni economiche contro la Russia

Sul fronte ucraino si combatte la guerra tradizionale tra l’esercito russo e quello di Kiev, In Europa invece si sta combattendo una “guerra economica umanitaria”.

Tale tipo di intervento, a base di sanzioni, a differenza della “guerra militare” (che certamente crea distruzione e morte per chi la subisce, di solito civili inermi e poveri, e rimpingua i profitti dell’industria militare di chi la dichiara e la foraggia) pur non uccidendo direttamente, ha però, a sua volta, un effetto collaterale: può avere costi molto pesanti anche per chi la decide. Costi, che – come la storia ci insegna – anche in questo caso non saranno pagati dalle élites economiche al potere ma dalle classi sociali a più basso reddito.

Lo strumento principale delle prime sanzioni è stato il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), che regola i pagamenti transfrontalieri che passano per il sistema bancario. Gli ordini di pagamento sono trasmessi tramite un consorzio internazionale di banche con sede in Belgio che collega attraverso una rete informatica circa 11.000 istituzioni finanziarie in tutto il mondo. SWIFT fu costituito nel 1977 per evitare che l’infrastruttura dei pagamenti internazionali fosse monopolizzata dall’americana Citibank. Per una ironia della storia, ha finito per diventare la principale arma degli Stati Uniti nell’esercizio dell’egemonia monetaria globale.

La prima volta che il sistema dei pagamenti viene utilizzato per fini militari e strategici è stato nel 2012 quando, sotto la pressione americana, SWIFT ha disconnesso il sistema bancario dell’Iran nel quadro del pacchetto di sanzioni impiegato per fermarne il programma nucleare. Il sistema dei pagamenti si è rivelato immediatamente uno strumento bellico estremamente efficace per garantire l’attuazione delle sanzioni. Infatti, è sufficiente sospendere il codice SWIFT di un individuo, di un’impresa o anche di un intero Paese per impedire a chiunque (compresi gli intermediari) di effettuare pagamenti verso il beneficiario identificato da quel codice.

Come scrive giustamente Luca Fantacci: “Le sanzioni finanziarie, quando sono comminate dagli Stati Uniti, possono avere effetti ancor più devastanti di un attacco militare. Sono “un’arma nucleare”, come ha commentato recentemente un banchiere occidentale, forse sperando di scongiurarne l’uso”.[4]

Il paragone non è azzardato: infatti, al pari di un attacco atomico, seppure in maniera diversa, più lenta e più subdola, le sanzioni rischiano di provocare ripercussioni devastanti anche per chi le mette in atto, minando alla radice l’egemonia monetaria del dollaro.

L’effetto di queste misure non è stato molto efficace. L’obiettivo era di quello di creare un blocco monetario per compromettere la stabilità del rublo e creare quindi un processo di svalorizzazione dell’economia russa con effetti pesanti sulla stessa congiuntura economica, già fortemente colpita dal Covid nel 2020 ma nel 2021 in fase di ripresa. La reazione del governo russo è stata, tuttavia, immediata ed efficace: il combinato disposto di chiedere il pagamento dei prodotti energetici in rubli tramite la Gazprom Bank per favorire l’acquisto di oro sui mercati internazionali (ad un prezzo di 10$ superiore a quello di mercato, compreso quello estratto in Russia) ha impedito che il blocco delle riserve valutarie portasse per sostenere il corso del rublo alla svendita di parte delle 2.300 tonnellate del metallo prezioso detenute dalla Banca Centrale russa e a una sua maggior dipendenza dal dollaro. Il risultato è che oggi il rublo ha le stesse quotazioni registrate prima dell’invasione e tali sanzioni hanno rischiato di indebolire il dollaro come valuta di riserva internazionale[5].

4. Le sanzioni sull’export russo di gas

Il secondo gruppo di sanzioni ha riguardato l’export dei prodotti energetici russi con il fine di ridurre la dipendenza europea dal gas russo e infliggere un duro colpo all’economia russa, quel colpo che con il blocco delle riserve valutarie in dollari della Banca Centrale non era riuscito.

Gli effetti sono stati per l’Europa abbastanza disastrosi[6]. Le sanzioni sul gas hanno favorito una forte attività speculativa sul rischio di penuria (mai verificatosi) di gas per l’inverno 2022-23 con il conseguente aumento del prezzo che è arrivato quasi a decuplicarsi. L’effetto domino sui tassi d’inflazione in Europa e negli Usa ha fortemente penalizzato il potere d’acquisto dei salari e delle famiglie meno abbienti. Se in Usa e in alcuni paesi europei, tale peggioramento è stato compensato, seppur in pare, da aumenti salariali, in Italia ciò non è successo.

La risposta delle Banche Centrali, a traino Federal Reserve, è stato un massiccio aumento dei tassi d’interessi che ha ulteriormente gettato benzina sul fuoco della povertà e della precarietà e ha accentuato ulteriormente le diseguaglianze sociali I settori creditizi e finanziari sono quelli che ne hanno maggiormente beneficiato.

I primi hanno fatto registrare utili da record, anche grazie alla complicità del potere politico. Paradigmatico è il caso italiano. Il governo Meloni dichiara che a fronte dell’incremento dei profitti, ottenuti tramite un aumento del margine di interesse[7], è necessario imporre un’imposta straordinaria sui margini di interesse – i cosiddetti extraprofitti – delle banche operanti in Italia, con l’applicazione di un’aliquota del 40 per cento. La proposta suscita reazioni negative da parte dei poteri forti e così rispetto alla sua versione iniziale, uscita dal consiglio dei ministri dell’8 agosto 2023, la tassa è stata rivista e approvata in fase di conversione del Decreto Asset con diverse novità. In primis, la novità contenuta nel nuovo comma 5-bis dell’articolo 26, che prevede che “le banche, in alternativa al versamento della tassa, possano destinare, in sede di approvazione del bilancio relativo all’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2024, a una riserva non distribuibile, pari a un importo non inferiore a due volte e mezzo l’imposta”[8]. Detto in termini più semplici: l’imposta non viene pagata, se viene utilizzata per aumentare il capitale sociale della banca. Si ottengono così due risultati: distribuzione record di dividendi agli azionisti e un aumento del valore delle azioni. Lo Stato non incassa un euro, ma gli azionisti fanno festa.

Occorre ricordare inoltre, che nel solo I trimestre del 2024 gli utili dei sette maggiori istituti italiani bancari salgono a 6,3 miliardi con un aumento del 26% rispetto al 2023[9].

Anche i mercati finanziari non stanno male. Nonostante la preoccupazione che un aumento dei tassì d’interessi potesse comprimere gli indici azionari, è successo l’opposto. Le aspettative sono rimaste favorevoli grazie ai forti utili delle grandi imprese Usa e Europee in molti settori, dalle banche, alle multinazionali dei farmaci, alle imprese dell’apparato militare industriale. Un fattore decisivo è stato anche la tenuta del dollaro sul mercato internazionale dei cambi. La riunione delle tre Banche Centrali dell’Occidente (Federal Reserve, Bank of England e Banca Centrale Europea) in contemporanea con l’incontro dei BRICS+ a Johannesburg dello scorso agosto ha voluto confermare il primato del dollaro sui mercati creditizi e finanziari, l’ultimo ambito (avendo perso quello logistico e militare) che rimane agli Usa per ribadire la sua supremazia economica. In quest’ottica, la decisione di mantenere alti, se non aumentare ulteriormente, i tassi d’interesse sembra essere più finalizzata a mantenere elevato il valore del dollaro (condizione, anche, necessaria per far fronte all’indebitamento interno ed esterno dell’economia Usa) più che a raffreddare un’inflazione già declinante.

Non stupisce quindi che gli indici finanziari Usa abbiano toccato i loro massimi storici con capitalizzazioni di borsa da capogiro[10].

5. Brevi conclusioni

Tempi duri per l’Europa. Da gigante economico potenzialmente in grado di competere sulla scena geopolitica globale, L’Europa si è rivelata un nano politico e finanziario, terreno di battaglia economica tra il potere declinante Usa e quello emergente dei BRIS+.  Tra due vasi di ferro, l’Europa è il classico vaso di coccio. Un vaso di coccio che è comunque al servizio delle forze atlantiche della Nato, sotto l’egida statunitense.

Per gli Stati Uniti, il mantenimento dell’egemonia economica degli apparati militari-industriale è strategica, perché è l’unico strumento per impedire il default dell’economia. Al crescente debito interno, causato dalle politiche fiscali espansive prima di Trump e ora di Biden (in seguito all’emergenza Covid), si aggiunge ad una bilancia commerciale strutturalmente in deficit che necessita un continuo rifinanziamento grazie agli avanzi dei movimenti di capitali. Di fatto sono le economie dei paesi esteri a pagare i debiti Usa e ciò è possibile solo se il dollaro mantiene la sua autorevolezza come valuta di riserva internazionale e le borse statunitensi mantengono la loro egemonia sui mercati finanziari globali.

Ma il mantenimento di tale equilibrio è sempre più difficile. Le politiche espansioniste della Nato a Est negli ultimi anni e oggi l’aumento della tensione con la Cina riguardo Taiwan, economia appetibile anche per il ruolo tecnologico che assume, rientrano in questa necessità.

Ma la storia sembra andare in una direzione opposta. Per questo stiamo entrando in un regime permanente di guerra e in un welfare di guerra (warfare), come giustamente scrivono Michael Hardt e Sandro Mezzadra[11]. L’Europa potrebbe fare la differenza, a patto che si affranchi dalla dipendenza Usa e esca dalla Nato, proponendosi come strumento di mediazione per favorite una transizione ordinata verso la definizione di un nuovo equilibrio multipolare e sovraimperiale.

Andrea Fumagalli insegna Storia dell’Economia Politica e Teoria dell’Impresa all’Università di Pavia e Eco-social Economy alla Libera Università di Bolzano. E VIcepfresidente del BIn-Italia (Basic INcome Network) e partecipa al blog di Effimera.org, critica e sovversione del presente.


[1] https://www.ilsole24ore.com/art/cina-2023-export-47percento-e-primo-tonfo-2016-AFHX7FKC

[2] Il blocco originario dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) nasce nel 2009 a cui si aggiunge il Sud Africa nel 2010. Nell’incontro di Johannesburg del 22 al 24 agosto 2023 si è deciso di estendere gli accordi in essere anche ad altri cinque paesi (Iran, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia), ridefinendosi così nel gruppo allargato BRICS+

[3] Gobbi L. (2023), “De-dollarizzazione: la sfida dei paesi BRICS”, Moneta e Credito, 76 (304), pp. 357-372.

[4] L. Fantacci, “Il rischio del dollaro in armi”, ISPI, 2022: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-rischio-del-dollaro-armi-33930

[5] È notizia di questi giorni, l’intenzione della Commissione Europa di requisire anche i proventi derivanti dal blocco di parte delle riserve russe per destinarli all’Ucraina e all’acquisto di armi.

[6] A. Fumagalli, “Il circolo perverso delle sanzioni alla Russia”, in Effimera, aprile 2022: https://effimera.org/il-circolo-perverso-delle-sanzioni-alla-russia-di-andrea-fumagalli/

[7] Il margine di interesse è la differenza tra il tasso d’interesse applicato ai mutui e ai crediti e il tasso d’interesse applicato ai depositi bancari. In presenza di una politica monetaria recessiva (che aumenta il tasso d’interesse di riferimento), solitamente i tassi d’interessi sui mutui e i crediti si adeguono velocemente mentre non è così per il tasso sui depositi, con l’effetto di incrementare gli utili bancari.

[8] https://www.fiscoetasse.com/rassegna-stampa/34560-tassa-extraprofitti-banche-come-funziona.html

[9] https://www.soldionline.it/notizie/azioni-italia/banche-utile-trimestre-2024-cresce

[10] Giusto per fare un esempio, Apple ha raggiunto una quotazione di 2.796 miliardi di dollari, Microsoft, 3042 miliardi, Nvidia, 2263. Nel 2023 il Pil ai prezzi di mercato dell’Italia è stato pari a 2.085 miliardi.

[11] M. Hardt, S. Mezzadra, “A Global War Regime”, 9 maggio 2024: https://newleftreview.org/sidecar/posts/a-global-war-regime


*Andrea Fumagalli insegna Storia dell’Economia Politica e Teoria dell’Impresa all’Università di Pavia e Eco-social Economy alla Libera Università di Bolzano. È vicepresidente del BIn-Italia (Basic IN-come Network) e partecipa al blog di Effimera.org, critica e sovversione del presente.

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