Filosofia greca classica, progettualità, comunismo

Luca Grecchi*

Quale Occidente?

Risulta nota l’affermazione di A.N. Whitehead, secondo cui la filosofia occidentale sarebbe riducibile ad una serie di note a margine alla filosofia di Platone. La stessa tesi, a mio avviso, si potrebbe, a maggior ragione, sostenere per la filosofia di Aristotele.

E’ legittimo, tuttavia, interrogarsi sulla concezione di “filosofia occidentale” che sta alla base di queste asserzioni. Generalmente, infatti, si considera la tradizione occidentale coincidente con la linea di sviluppo che, a partire dalla filosofia greca, avrebbe condotto all’enorme espansione della scienza e della tecnica, fino all’attuale capitalismo. Chiediamoci però: la filosofia classica, ossia quella di Platone e Aristotele, avrebbe potuto favorire solo questa direzione di marcia, o anche una direzione alternativa, qualora avessero prevalso, nella storia, differenti modalità economico-sociali? La filosofia greca, più in generale la filosofia antica, possiede in effetti al proprio interno un patrimonio culturale che, avendo ben radicate le basi di una progettualità umanistica, avrebbe potuto essere utilizzato per favorire modelli sociali maggiormente comunitari rispetto a quella capitalistico. Cercherò, in queste righe, di fornire alcune indicazioni in merito.

Le basi classico-umanistiche della progettualità comunitaria

La filosofia greca classica possiede, pur nel suo contenutistico rivolgersi alla verità dell’intero (mediante la conoscenza delle sue parti interconnesse, ossia la natura, l’umano e il divino), un primario riferimento fondativo, di senso e di valore, nell’essere umano. Il fine della ricerca filosofica, per Platone e Aristotele, è infatti la realizzazione del bene, ossia di una vita buona, per tutti gli esseri umani. Emblematica, in merito, l’affermazione che apre il libro VII della Politica di Aristotele, ossia che, per realizzare la costituzione migliore – marxianamente, potremmo anche tradurre “il modo di produzione sociale migliore”, o “il modo di vita migliore” – per gli esseri umani, occorre conoscere la natura degli esseri umani. Si tratta di una considerazione banale: per fare il bene di un gatto, infatti, occorre conoscere la natura del gatto; per fare il bene di un geranio occorre conoscere la natura del geranio, e così via. Una considerazione banale, che costituisce però la base di ogni buona progettualità, e che, purtroppo, viene spesso trascurata.

La natura umana, per la filosofia greca classica, possiede una caratteristica essenziale, quella di essere al contempo razionale e morale. Cosa significa questo? Che, pur rimanendo un animale, l’essere umano, per stare bene, ovvero per realizzare la propria essenza, deve – a differenza di tutti gli altri animali – sia poter conoscere con verità, quanto meno i contenuti più importanti della realtà, sia poter applicare questa conoscenza alla vita per agire bene, ovvero con rispetto e cura nei confronti degli altri esseri umani e del cosmo naturale.

Una parte non piccola della tradizione comunista ha considerato la cultura classica come qualcosa che “fa fine e non impegna”. Come cercherò di mostrare, le cose non stanno in questo modo. La cultura classica, infatti, probabilmente “fa fine”, ma, sicuramente, “impegna”, tanto che, come detto, costituisce la base, implicita o esplicita, di ogni buona progettualità politica. Il fatto che il fine dell’attività filosofica greca sia costituito dal favorire la buona vita di tutti gli esseri umani nel rispetto del cosmo naturale implica in effetti che tale filosofia si pone, in maniera fondata, dunque stabile – non contingente –, in costitutiva opposizione a tutte le strutture economico-sociali crematistiche (il cui fine è, cioè, la massima acquisizione di chremata, termine che, in greco antico, indicava i beni materiali, e per estensione le merci, il denaro).

Se il fine di una totalità sociale è costituito dalla massimizzazione del profitto privato, tutto, e sottolineo tutto, quindi ogni essere umano ed ogni ente naturale, diventa mezzo, dunque strumento, quindi, in un sistema mercificato, merce da sfruttare al massimo grado, con gli effetti che sono ormai sotto gli occhi di tutti, sebbene l’attuale modo di produzione cerchi di non farne comprendere le cause. In una totalità sociale comunitaria, invece, in cui il fine è la buona vita di tutti gli esseri umani nel rispetto del cosmo naturale, gli esseri umani, e la natura, non sono più mezzi, ma componenti costitutive di un progetto comunitario – deciso, cioè, insieme – relativo all’intero, in cui la physis viene rispettata, e gli anthropoi tendono a comprendere la necessità di avere cura gli uni degli altri, dando ciascuno secondo le proprie possibilità, e ricevendo ciascuno secondo i propri bisogni. Questa, in linea generale, la base filosofica dell’umanesimo greco classico, nonché, a mio avviso, di ogni progettualità comunista realmente tale.

La filosofia greca classica e il marxismo

So, occupandomi da tempo dei rapporti fra Marx e il pensiero antico, che alcuni esponenti della cultura marxista – cito, ad esempio, Rodolfo Mondolfo, o l’amico Mario Vegetti: di ambedue sono state pubblicate diverse opere nella collana che dirigo presso l’editore Petite Plaisance – sono stati grandi studiosi della filosofia greca classica. Ciò nonostante, questa unione di conoscenze costituisce tuttora una eccezione, non la regola all’interno della tradizione comunista. Lo stesso concetto di “natura umana”, come quelli di “verità”, “bene”, “fondamento” ed altri ancora, sono anzi guardati con sospetto dalla medesima. Questo, a mio avviso, rappresenta uno dei principali problemi teorici del marxismo. Esso, a cominciare proprio da Marx, è stato infatti formidabile nella critica al modo di produzione capitalistico, ed anche nel riorientamento critico di varie scienze sociali. Malgrado ciò, così come è stato ottimo nella pars destruens, è stato assai debole nella pars construens, ovvero nella indicazione di una via progettuale che possa condurre, tracciando almeno la direzione ideale da intraprendere, verso una totalità sociale comunitaria. Sintomo di questo disagio è, forse, anche la vaghezza delle indicazioni di Marx quando, nei pochi passi della sua opera a ciò dedicati, ha provato a delineare come dovrebbe essere una società comunista per essere davvero tale.

Nelle mie intenzioni, l’affermazione poc’anzi riportata non vuole costituire una critica ingenerosa nei confronti di Marx e del marxismo. Il compito di progettare un modo di produzione sociale alternativo rappresenta, infatti, il compito filosofico-politico più difficile che possa esistere. Finché si tratta di criticare una realtà sociale effettuale, sia essa capitalista o comunista, la cosa può essere fatta più o meno bene da molti, come dimostrano vari studi accademici. Quando, invece, si tratta di delineare una realtà sociale ideale, che effettualmente non esiste, ma che dovrebbe esistere per migliorare la vita degli esseri umani, il problema risulta molto più complesso.

Per progettare, infatti, serve un fondamento, una base su cui costruire, la quale non può che essere costituita dalla natura umana, come mostra appunto la filosofia greca classica. Il bene, in effetti – ossia il fine che anche il comunismo desidera realizzare, per tutti gli esseri umani, a cominciare dai più fragili –, come scrivono sia Platone che Aristotele, è dato da ciò verso cui ogni ente, per natura, tende. Il bene, per l’essere umano, consiste nella realizzazione delle proprie costitutive componenti razionali e morali. Se si ignorano, o si trattano con ideologica sfiducia, i contenuti principali della filosofia greca classica, si rimane, pertanto, privi di alcuni dei più importanti strumenti della progettualità comunitaria. Ciò, al di là degli sfavorevoli rapporti di forza, mi pare quanto accaduto, da molto tempo, alla maggior parte della tradizione comunista. 

Criticare e/o costruire?

Le due attività, la pars destruens e la pars construens, devono naturalmente essere collegate in ogni buona teoria. Per tale motivo, se questo breve articolo, richiestomi da Paolo Ferrero, può avere qualche utilità, non è certo quella di criticare la teoria marxista per la troppa pars destruens, ma, semmai, per la poca pars construens. I rapporti di forza sono oggi più che mai sfavorevoli per la progettualità. Se, tuttavia, non si è in grado neppure di indicare, almeno nelle sue strutture fondamentali, come dovrebbe essere un modo di produzione sociale per essere comunista, non si può certo sperare che le giovani generazioni si appassionino nel cercare di realizzare il comunismo (al di là delle legittime manifestazioni di protesta verso le ingiustizie esistenti, naturalmente sempre da condividere). Quand’anche, per qualche motivo – ed il motivo principale rimane il fatto che il modo di produzione capitalistico è “contro natura”, nella pluralità di significati con cui si può intendere questa espressione –, il vento tornasse ad essere favorevole per la realizzazione di modalità sociali comunitarie, senza indicazioni progettuali non si saprebbe nemmeno cosa fare. Nessun vento è infatti propizio, scriveva Seneca, se il marinaio non sa dove andare.

Perciò, opere come la Repubblica di Platone, o la Politica di Aristotele, e altre ancora, se analizzate in modo non meramente accademico, possono tuttora rappresentare la parte della tradizione occidentale più utile per la realizzazione di una progettualità comunitaria. Esse, in effetti, non solo consentono di ragionare in termini di intero – Marx, in ultima analisi, è debitore sia verso Platone che verso Aristotele, sebbene apprezzasse solo il secondo –, ma, soprattutto, aiutano a riflettere in maniera, appunto, fondata, sulle migliori modalità di vita, sia sul piano della struttura proprietaria (pubblica, non privata) dei mezzi della produzione sociale, sia sul piano della distribuzione (comunitaria, non mercificata) dei relativi prodotti. Chi fosse proprio refrattario alla cultura classica può, se vuole, astenersi dalla lettura di questi testi, ma dovrebbe quanto meno proporre una progettualità basata su un fondamento alternativo (alla natura umana), necessariamente da esplicitare. Oppure può fermarsi alla critica del presente, senza curarsi di delineare un altro mondo possibile, che pure sarebbe così necessario a miliardi di esseri umani, noi compresi.

Pianificare la progettualità

Nei confronti della progettualità comunitaria, la maggior parte degli studiosi comunisti mantiene tuttora, purtroppo, un atteggiamento molto diffidente, paragonabile a quello tenuto dagli antichi geografi nei confronti delle aree inesplorate della Terra. Così come sulle mappe di alcuni fra questi cartografi troviamo, infatti, la scritta hic sunt leones, ossia “qui ci sono i leoni”, per cui il territorio in questione non si può conoscere, mi pare che, nei confronti della progettualità, si possa dire la stessa cosa per una discreta parte degli studiosi marxisti. Questi leones di cui avere paura sono tuttavia costituiti, spesso, non tanto dalle difficoltà del compito – il che sarebbe comprensibile –, quanto da un falso pregiudizio, ossia quello per cui ogni tentativo di delineare ricette per le trattorie comuniste dell’avvenire sarebbe utopia astratta, non compatibile con la durezza concreta delle lotte materiali del marxismo.

In realtà, nessuno dei due compiti esclude l’altro. Essi, anzi, risultano necessari insieme. Perciò, chi si vorrà avventurare nel delineare forme progettuali – e vi è l’esigenza, per vari motivi, che questo sia un lavoro comune, anche in quanto la totalità sociale si compone di parti, e nessuno è esperto di ogni parte: scuola, sanità, ambiente, ecc. –, non deve curarsi di questo tipo di critiche. Chi compie l’attività più difficile, può sbagliare in misura maggiore rispetto a chi compie l’attività più facile. E costruire è più difficile che criticare. La filosofia classica, in merito, insegna che si impara facendo, per cui, se non si fa, ossia se non si inizia a ragionare in termini progettuali, risulta impossibile imparare. Essa insegna inoltre che non esistono territori inconoscibili in cui non avventurarsi, se si possiede una formazione adeguata.

Non solo la filosofia, o la letteratura antica – non, peraltro, soltanto quella greca: dalle tradizioni orientali si possono trarre molte utili indicazioni per il nostro fine –, ma anche la storia antica può fornire un valido supporto in questa direzione. Ne La filosofia prima della filosofia, un libro del 2022, mi sono ad esempio soffermato sulla realtà politico-sociale della Creta minoica intorno al XX-XVIII secolo a.C. Si tratta di una esperienza storica assai misconosciuta, solitamente associata a palazzi reali e ad una presunta monarchia imperialistica di Minosse. Niente di più sbagliato. Nel libro ho cercato di mostrare, prendendo spunto da fonti archeologiche, artistiche e culturali in senso ampio, di come si sia forse trattato della prima grande civiltà comunitaria del mondo ellenico, che dovette la propria grandezza ad una coordinata pianificazione delle risorse, ossia del lavoro da fare, del prodotto da ottenere e della distribuzione da effettuare. Non ne parlo, ovviamente, per proporre una civiltà di 4000 anni fa come un modello. Riprendere, tuttavia, anche una esperienza storica concreta, in cui modalità sociali armoniche si sono, con buona probabilità, effettivamente realizzate, rendendo felice la vita di migliaia di persone, può non essere inutile in tempi di nichilismo progettuale come quelli attuali.

Mi rendo conto, certamente, che la sola parola “pianificazione” evoca, forse anche in chi condivide la teoria comunista, scenari del passato non desiderabili. Ciò nonostante, se ben ci si pensa, ogni ente naturale pianifica le cose da fare, anche solo per la propria sussistenza. Così è pure nella comunità più naturale che esista, ossia la famiglia, in cui i genitori pianificano la produzione e l’utilizzo delle risorse affinché i figli, crescendo, possano realizzare i propri progetti. Per quale motivo, allora, una società comunista non dovrebbe pianificare le cose da fare, in modo da liberare tempo per la massima realizzazione della libera individualità sociale di ciascuno? Si tratta di un compito enorme, che potrà essere gestito solo in modo comunitario, ossia in maniera democratica, con modalità che sono certamente, a loro volta, tutte da progettare, ma che saranno tali solo partendo da una cultura comune condivisa. Non si può infatti, a mio avviso, ritenere che, in un pianeta composto da dieci miliardi di persone, con risorse naturali limitate, e con parti fra loro interconnesse, sia possibile favorire la buona vita di tutti nel rispetto del cosmo naturale, senza una pianificazione comunitaria dei fini e delle attività da svolgere. La cultura comunista deve cominciare a elaborare proprio questo progetto teorico, se vuole realmente provare a realizzare ciò che da secoli si propone.

Per concludere

Per concludere, alcune domande: la proposta che qui si delinea risulta di agevole attuazione? Sicuramente no. Troverà degli ostacoli nella sua condivisione? Non vi è dubbio, anche da parte di studiosi comunisti. Lo scrivente è adeguato a teorizzare una simile progettualità? Fortemente inadeguato. Ciò nonostante, questa proposta teorica mi sembra da tempo (il mio primo libro su questo tema risale alla fine del secolo scorso) la sola possibile per il comunismo, il cui fine deve sempre essere la realizzazione del modo di produzione sociale più comunitario. Ribadisco di essere solo uno studioso di filosofia antica. Non ho competenze così generali per essere granché utile. Quello che, tuttavia, ho compreso, in molti anni di studio, è che, soprattutto quando si deve realizzare un fine importante, occorre unirsi, non dividersi. Gli studiosi comunisti si sono spesso divisi su questioni non sempre fondamentali, ma non è più il momento per farlo. Per favorire una progettualità comunitaria occorre collaborare il più possibile, tenendo in considerazione una molteplicità di tradizioni culturali. Ciascuna di esse, infatti, può fornire il proprio contributo alla elaborazione di una progettualità umanistica anticrematistica. Un approccio universalistico, non particolaristico, risulta imprescindibile per il comunismo. Nessun orizzonte, in effetti, può dirsi realmente comunista, se non quello che riesca ad unire, in maniera comunitaria, il maggior numero possibile di esseri umani, a cominciare da quelli più in difficoltà.


*Luca Grecchi insegna per la Cattedra di Storia della filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È direttore della rivista “Koinè”, e di due collane di studi filosofici presso le case editrici Petite Plaisance e Unicopli.

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