Occidente, diritti umani e democrazia
Fabio Marcelli*
La pretesa dell’Occidente di farsi alfiere di diritti umani e democrazia nel mondo costituisce più che altro una pretesa propagandistica di bassa lega, ispirata dall’intento di imbellettare in qualche modo vari secoli di spietato e brutale dominio coloniale sul resto del mondo. Le radici di questo progetto mistificatorio sono evidentemente legate alle due rivoluzioni di fine Settecento, l’americana e la francese che costituiscono tuttora il mito fondatore delle due principali Potenze imperialiste: Francia e Stati Uniti. Da un punto di vista sostanziale tali rivoluzioni hanno rappresentato rispettivamente l’emancipazione dalla Potenza coloniale britannica e la liquidazione dell’Ancien régime assolutistico. Per ottenere lo slancio necessario a compiere tali operazioni di portata indubbiamente storica, ottenendo fra l’altro la necessaria adesione dei ceti subalterni, e spianare così la strada alla borghesia, i gruppi dirigenti delle rivoluzioni in questione hanno per così dire messo un po’ di benzina universalistica nel motore della storia, dando origine alle Dichiarazioni dei diritti il cui capostipite può essere ritenuto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
Un’analisi spassionata di tale documento, di importanza storica fondamentale, ne rivela tuttavia i limiti innegabili. Libertà, uguaglianza e sicurezza degli individui vengono proclamate in modo del tutto astratto. L’unico diritto concreto è quello alla proprietà, che rappresenta la base dei processi di sfruttamento ed espropriazione su scala interna e internazionale che verranno intrapresi, con ampiezza crescente e ritmo sempre più travolgente nel periodo successivo fino ai nostri giorni.
La repressione sanguinosa dei moti rivoluzionari ad Haiti compiuta dalle autorità francesi, nelle quali trova radice il perdurante abisso in cui si trova quel popolo a quasi due secoli e mezzo di distanza, rappresenta del resto in modo netto la sconfessione di ogni universalismo. Le nuovi classi dominanti emerse dalle rivoluzioni di fine Settecento si impongono sulle moltitudini colonizzate all’interno e all’esterno dei confini della Madrepatria. Lo stigma del razzismo genocida contro gli indigeni e di quello segregazionista contro i neri costituisce a sua volta un tratto identitario fondamentale per gli Stati Uniti, il cui “dilemma esistenziale” appare ancora oggi ben lungi dall’essersi risolto, nonostante due secoli e mezzo di lotte e di massacri e una sanguinosissima guerra civile, forse destinata a qualche inattesa replica in tempi non tropp lontani.
Se è vero che in qualche modo le rivoluzioni di fine Settecento hanno gettato il germe di democrazia e diritti umani, sia pure in modo del tutto parziale e contraddittorio, è pure vero che il successivo sviluppo storico si è incaricato di innaffiare tali piante togliendole progressivamente dalle mani improvvide delle Potenze occidentali, la cui natura imperialista ha rappresentato fin dall’inizio un ostacolo insuperabile per un effettivo sviluppo di tali istituti.
La massima estensione concettuale degli stessi coincide del resto colla fondazione delle Nazioni Unite, avvenuta nel momento dell’unità antifascista delle Potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. A tale fase creativa all’insegna di un’effimera unità d’intenti e di sentimenti risale anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Poco meno di vent’anni dopo la firma dei Patti sui diritti umani ripropone la frantumazione del mondo tra un Occidente apparentemente più attento ai diritti civili e politici e un Oriente apparentemente più sollecito nella promozione di quelli economici, sociali e culturali. Ma si è trattato di una strumentalizzazione politica di brevissimo respiro, funzionale solo alla divisione del mondo in blocchi contrapposti che proprio allora celebrava il suo climax ideologico, mentre le tragedie in qualche modo complementari, anche se a ben vedere tra loro non comparabili, del Vietnam e della Cecoslovacchia affermavano la logica spietata della Guerra Fredda imperante ben oltre il rischio atomico dei missili a Cuba dei primi anni Sessanta.
Il mondo unipolare
La fine dei blocchi contrapposti resa possibile dalla vittoria di quello occidentale sul piano economico e culturale, apriva in seguito un’altrettanto effimera e del tutto ingannevole fase di rilancio dei diritti umani intesi nella loro indissolubile unità. La Conferenza di Vienna del 1993 riaffermava tale unità imprescindibile, ma le forze del mercato che avevano reso possibile la fine dell’Unione sovietica e del Blocco dell’Est, diffondendo su tutto il pianeta la perniciosa ideologia neoliberista, sorretta dalle politiche monetariste di Reagan e della Thatcher, demolivano ogni concreta possibilità di realizzazione dei diritti, rafforzando l’architettura neocoloniale basata più che mai sulla supremazia dell’Occidente.
E’ il momento del monopolarismo statunitense che si atteggia a Impero ricevendo anche il plauso di qualche ideologo non sempre sufficientemente lucido. In tale fase la Russia, sotto l’egida di Boris Eltsin, e apparentemente anche la Cina si inchinano al dominio incontrastato del capitale vincente. Lo schieramento dei non allineati che aveva tentato una terza via al di fuori dei blocchi viene sconquassato dalle tragedie che ne colpiscono i principali protagonisti. Basti pensare all’infausto destino della Jugoslavia, smembrata e bombardata da Stati Uniti, Unione europea e Vaticano, o a quello dell’Algeria, dove al fallimento delle politiche successive alla fine del colonialismo francese subentra la barbarie fondamentalista.
Anche la fase monopolare dura peraltro relativamente poco, infrangendosi sulle contraddizioni del capitalismo nella sua fase imperialista. Torri gemelle e invasione dell’Iraq ne mettono in luce alcune fragilità di fondo. La natura sempre più finanziaria del capitalismo occidentale lo espone alla concorrenza del sistema cinese, basato sulla concretezza della produzione industriale e capace di una travolgente crescita economica, scientifica e tecnologica che sottrae alla povertà centinaia di milioni di persone.
Di fronte a questa nuova competizione, che minaccia di batterlo in modo irrimediabile sul suo stesso terreno, l’Occidente riscopre la propria vocazione aggressiva, guerrafondaia e disumana, che da oltre cinque secoli rappresenta la vera base della crescita del suo dominio.
Il delirio militare
Lo strumento bellico, strettamente legato alle fortune del blocco militare-industriale sempre più dominante al suo interno, viene proposto in modo sempre più sfacciato e pregiudicato come la risorsa da impiegare per ribadire il primato che sta crollando. Vengono riesumati i progetti statunitensi volti a creare un fossato incolmabile tra Europa e Russia, che ricevono attuazione mediante l’insediamento dell’Occidente in Ucraina, dove non si bada a spese per destabilizzare a fondo la Russia, nella quale l’avvento di Putin ha segnato indubbiamente una tappa diversa e qualitativamente più elevata rispetto alla subalternità di Eltsin.
Il conflitto ucraino, che minaccia sempre più di degenerare in guerra mondiale tra Occidente e resto del mondo, mostra a tutti coloro che non sono completamente rimbecilliti dalla pessima propaganda della NATO, che la vera posta in gioco è rappresentata dalla ripresa di una politica mondiale all’altezza delle aspettative a suo tempo espresse, alla fine della Seconda guerra mondiale, dall’opinione pubblica mondiale.
Eppure tale sfida politica va affrontata tenendo ben presente che siamo oggi di fronte a una svolta storica, determinata dalla crisi irreversibile di oltre cinque secoli di colonialismo occidentale. Macron che si atteggia in modo alquanto ridicolo a salvatore dell’Ucraina mediante l’invio di qualche compagnia di cacciatori delle Alpi debitamente addestrati a combattere in climi particolarmente freddi, è lo stesso patetico personaggio che viene cacciato a calci nel sedere dai Paesi dell’Africa vittima da tempo del colonialismo e poi neocolonialismo francese.
L’intollerabile genocidio del popolo palestinese, compiuto dal criminale Netanyahu con l’appoggio militare, politico, economico e culturale di tutto l’Occidente, con in testa Stati Uniti e Unione europea, mostra a tutto il mondo la natura irrimediabilmente falsa e ipocrita dei diritti umani sbandierati senza vergogna dalla propaganda atlantista. Così come la spinta verso la guerra, che si vuole imporre non solo ai giovani ucraini uccisi come animali se tentano di sfuggire alla leva obbligatoria e al massacro, ma tendenzialmente a tutti i popoli europei, rappresenta l’evidente negazione di ogni democrazia reale, laddove la scelta fondamentale di natura esistenziale relativa alla vita e alla morte viene sottratta alla gente, in parte sempre più refrattaria all’insulso rito elettorale e in parte ingabbiata e trascinata al macello, come pecore e mucche tramortite prima di essere annientate, da capibastone che si fanno forti dell’ignoranza diffusa e della conseguente perdita di senso.
E’ questa la realtà che smaschera in modo definitivo la fallacia dei miti dei diritti umani e della democrazia, coi quali da oltre due secoli l’Occidente pretende di nascondere le proprie brutture e i danni imperdonabili e forse irrimediabili che ha apportato al pianeta e all’umanità intera. La fine di questo Occidente è però oggi ineluttabile. Vedremo nei prossimi mesi ed anni se ad essa si accompagnerà, in un ultimo empito distruttivo di natura catastrofica, quella dell’intera civiltà umana o se saremo in grado di dare vita a una fase nuova nella quale gli ideali della democrazia e dei diritti umani, sottratti alla mefitica e castrante ipoteca dell’Occidente morente, costituiranno un ideale di riferimento per un futuro finalmente condiviso dell’umanità.
*Fabio Marcelli, già direttore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR, copresidente del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED).