La verità è sempre rivoluzionaria
Maurizio Acerbo*
Il nostro partito vive da anni una crisi profonda. Diceva un vecchio bolscevico che “essere rivoluzionari non implica mettersi delle fette di prosciutto davanti agli occhi”. È un dato di fatto che dal 2008 il nostro partito ha perso progressivamente la rappresentanza parlamentare, nelle regioni e nella stragrande maggioranza dei comuni, la visibilità mediatica, tanta parte del radicamento sociale e della presenza territoriale, gran parte delle iscritte e degli iscritti, la capacita di mobilitare militanti e simpatizzanti con numeri che oggi appaiono impensabili. Il risultato è che siamo pressoché scomparsi dalla percezione della maggior parte della popolazione. Da anni quando distribuiamo volantini per le strade o raccogliamo firme ai nostri banchetti immancabile arriva la domanda: “ma esistete ancora?”. I più giovani la domanda neanche ce la fanno perché non ricordano gli anni in cui il nostro partito era un protagonista della vita politica del paese, capace di promuovere grandi manifestazioni e campagne, motore e riferimento di movimenti che coinvolgevano centinaia di migliaia di persone, largamente presente nella CGIL e nei sindacati di base. Il paradosso della nostra difficoltà è che le ragioni della rifondazione comunista oggi sono più attuali che mai di fronte alle catastrofi prodotte dal capitalismo neoliberista e pur potendo rivendicare di aver avuto ragione su tutte le principali questioni su cui ci siamo scontrati col centrosinistra fin dagli anni ’90.
NON BASTA RIPETERE I SOLITI BUONI PROPOSITI DI RILANCIO, cura dell’organizzazione, partito sociale, riprogettazione, ecc. Dietro ai problemi organizzativi ci sono sempre problemi politici, insegnava Lenin. Solo se riusciremo a dare un nuovo slancio politico al partito potremo costruire le condizioni per un rafforzamento organizzativo. Solo se riusciremo a dimostrarci di nuovo in grado di incidere torneremo ad essere un riferimento per le classi popolari. Solo se restituiremo al nostro comunismo democratico, quello della rifondazione, un profilo forte sul piano ideale e dell’immaginario torneremo a essere attrattivi per le nuove giovani generazioni. Ma più di ogni altra cosa per rilanciare il nostro progetto dobbiamo avanzare una proposta politica e programmatica capace di parlare al paese che corrisponda alla fase che stiamo attraversando.
NON CI SONO FORMULE MAGICHE che ci aiutino ad affrontare la nostra crisi, ma certo non possiamo cavarcela riproponendo sempre gli stessi schemi come se fossero “verità irrefutabili” né cannibalizzandoci a vicenda. Sarebbe il caso di riflettere collettivamente sull’oggettiva sconfitta della linea con cui nel 2008 abbiamo risposto alla deludente esperienza del governo Prodi e alla débâcle della Sinistra Arcobaleno. Sono passati 16 anni e un bilancio va fatto con onestà intellettuale. Qualsiasi ragionamento sul “che fare” dovrebbe partire dalla realtà oggettiva: la tattica che abbiamo perseguito – il tentativo di costruire “in basso, a sinistra” una coalizione politica ed elettorale o un soggetto unitario aggregando le forze politiche e sociali antiliberiste in alternativa ai due poli – non ha funzionato. Non si tratta di cercare capri espiatori, ma di aprire una riflessione su come articolare la linea perché abbiamo il dovere di trovare una via d’uscita dalla condizione di marginalizzazione in cui ci troviamo.
AVREI PREFERITO UN CONGRESSO UNITARIO, preceduto da una fase di discussioni aperte per confrontarci senza posizioni cristallizzate precostituite come accade sistematicamente negli organismi dirigenti. Purtroppo la propensione al correntismo impedisce di farlo da almeno tre anni. Abbiamo avuto persino due differenti maggioranze tra direzione e comitato politico nazionale con effetti assai negativi sull’organizzazione e l’iniziativa del partito. Si è risposto con la richiesta pressante di fare il congresso senza dilazionare i tempi previsti dallo statuto perché c’è chi pensa di avere sempre la linea pronta per orientare le/i compagne/i. Ed è evidente che un percorso preliminare più articolato e più partecipato dalle istanze territoriali sarebbe stato possibile solo se deciso di comune accordo. In commissione politica non è stato presentato alcun emendamento su nessun punto. La decisione di andare alla conta su documenti alternativi era già stata presa da tempo.
LA NOSTRA SCONFITTA L’ipotesi su cui abbiamo costruito la nostra tattica è stata quella che la nostra alternatività ai poli esistenti avrebbe consentito di riconquistare una credibilità e ricostruire un radicamento di massa tra i settori della società e delle classi lavoratrici colpiti dalle politiche neoliberiste. Questo non è accaduto. Si è anche detto, ammettendo che la nostra posizione ci allontanava da gran parte dell’elettorato di sinistra, che la nostra coerenza ci avrebbe consentito di recuperare la connessione sentimentale con il malcontento dei settori popolari che scelgono sempre più l‘astensione. Anche questa ipotesi si è rivelata purtroppo infondata.
LE NOSTRE RAGIONI erano e rimangono giuste. Abbiamo proposto una linea di alternativa al “centrosinistra” e a un PD su posizioni neoliberiste, antipopolari e persino guerrafondaie. Non siamo riusciti a intercettare il malcontento suscitato dal governo Monti avendo promosso le uniche grandi manifestazioni di opposizione perché l’ondata della presunta rivoluzione di Grillo ci travolse mentre quella “civile” di Ingroia naufragava. La divisione con SEL ha fatto sì che in passaggi importanti, nelle elezioni politiche ma anche in quelle europee e regionali, venisse a mancare la forza per superare gli sbarramenti. La divisione rispetto all’alternatività al PD fu all’origine della fine del processo unitario che eravamo riusciti ad avviare con L’Altra Europa con Tsipras e forse dovremmo ragionare sul no dell’allora segreteria a un soggetto che era potenzialmente sicuramente assai più largo di PAP o di Unione Popolare. Successivamente dopo la crisi del Brancaccio rifiutammo la “compromissione” in una lista unitaria come LEU, che pure si presentava in alternativa al PD, per via della presenza di D’Alema e Bersani, e decidemmo di promuovere Potere al popolo che ottenne il peggior risultato della nostra storia (a posteriori credo che avremmo fatto bene a accettare la proposta di accordo che ci avrebbe garantito una tribuna parlamentare, ma tra di noi lo sostenne solo il compagno Zuccherini). Andò poco meglio con La Sinistra alle europee perché ormai siano noi che SI eravamo assai deboli. Poi riprovammo con il progetto di Unione Popolare. E alle ultime europee con Pace Terra Dignità che ha ottenuto il miglior risultato degli ultimi anni ma comunque insufficiente.
È evidente che il nostro tentativo di costruire un’aggregazione alternativa ai poli esistenti non è riuscita a consolidarsi per ragioni che non dipendono da noi. Su tutto ha pesato il bipolarismo che da un lato produce la logica del “voto utile” dall’altro la crescita della disaffezione e dell’astensionismo. E sul piano dell’aggregazione di uno schieramento di sinistra alternativo ci siamo sempre trovati a dover fare i conti da un lato con formazioni che hanno preferito l’alleanza non conflittuale col PD, dall’altro con formazioni con una propensione settaria. La soluzione non risiede certo nell’appiattirci su queste due opzioni ma ricostruire il nostro profilo e aggiornare una nostra linea autonoma.
LE SCONFITTE ELETTORALI PESANO e far finta che non sia così costituisce un clamoroso errore. Pesano sulla tenuta del corpo militante e ancor di più al nostro esterno. La risposta a queste difficoltà non può essere quella di puntare sul settarismo e sull’arroccamento. Per questo abbiamo proposto invece di ragionare sulla nostra cultura politica e sulla necessità di ridefinire la nostra tattica sulla base della fase che stiamo attraversando.
GLI ENTI LOCALI Quando mi riferisco a tendenze settarie faccio innanzitutto l’esempio della ossessiva polemica interna tesa a ingigantire gli effetti negativi sulla nostra credibilità “tra le masse” delle rare occasioni in cui nelle elezioni amministrative il nostro partito ha partecipato a coalizioni con il centrosinistra. Questo fenomeno ha riguardato sia federazioni i cui dirigenti sostengono il documento 1 sia federazioni che sostengono quello 2, ma ovviamente la polemica serrata negli organismi è stata fatta solo nel primo caso. Ma si può dire seriamente che alle origini delle nostre difficoltà ci siano questi pochi casi? La realtà è che ormai nella maggioranza dei comuni non riusciamo più a presentarci e anche le aree di sinistra e di movimento che promuovevano liste di alternativa con noi quasi sempre sono diventate indisponibili o scelgono di partecipare a coalizioni di centrosinistra. Un partito deve discuterne seriamente invece di lanciare anatemi a corrente alternata. Il tema degli enti locali è particolarmente significativo perché siamo l’unico partito comunista e della sinistra radicale ad avere scelto una linea di rottura “a priori” anche nei comuni e nelle regioni. Negli altri paesi è capitato che i partiti della nostra area rimanessero esclusi per un breve periodo dalla rappresentanza a livello nazionale e/o europeo, ma di solito conservando una robusta presenza negli enti locali. Noi abbiamo deciso durante la fase del governo Renzi di rompere a tutti i livelli col PD. Quella scelta non era settaria o estremista, per usare termini classici, perché corrispondeva a una necessità di netta distinzione ed era anche in connessione con i sentimenti e gli orientamenti di una larga area di sinistra. Non a caso in quel periodo riuscimmo a costruire proposte di alternativa ovunque nonostante la concorrenza del M5S. Da tempo non è più così perché molte cose sono cambiate. Riusciamo a resistere solo laddove abbiamo esperienze consolidate o candidature particolarmente riconosciute e/o anche una precedente storia politica del territorio in cui la presenza dei comunisti è stata molto significativa.
Una cosa è sicuramente evidente: non basta più dirsi contro il PD per aggregare un’area significativa. Come minimo c’è la necessità di sviluppare un lavoro politico, sociale e programmatico che consenta di costruire su ragioni proprie del comune o della regione la necessità di un’alternativa. In ogni caso la nostra tattica dovrebbe essere interna alle dinamiche sociali e politiche, non autoreferenziale. Può darsi che in una città si creino le condizioni per sfidare il centrosinistra sui programmi e alcune priorità sentite dalla comunità e solo dopo aver dimostrato che non ci sono condizioni di una svolta convincere uno schieramento più largo dell’opportunità di una presentazione autonoma. Può darsi che in altri casi si creino invece le condizioni per una coalizione unitaria. È quello che facevamo fino al Pd di Renzi e continuano a fare le nostre compagne e i nostri compagni in tutta Europa. È evidente che in gran parte d’Italia, comuni e regioni, permangono ottime ragioni per mantenere una posizione di alternativa ma questa non può essere data per scontata. Invece di esercitare l’anatema accusando di “tradimento” compagne e compagni che resistono sui territori bisogna qualificare la nostra azione sugli obiettivi che ci poniamo nella difesa dei servizi sociali, nella lotta contro le privatizzazioni e la precarizzazione del lavoro, per l’ambiente e contro la speculazione edilizia e il consumo di suolo, nella lotta contro ogni forma di razzismo e discriminazione. È dentro le dinamiche politiche territoriali che vanno scelte le tattiche più adeguate per far avanzare elementi di alternativa, costruire convergenze con i movimenti e svolgere un’azione efficace. Invece siamo giunti al paradosso che, per subalternità ad altre formazioni (Pap), la nostra direzione bocciò un documento del sottoscritto che proponeva che il nostro partito nei territori laddove possibile costruisse coalizioni di alternativa coinvolgendo anche M5S, Sinistra Italiana e Verdi. Una posizione ottusa poi superata dal voto del nostro CPN e in vari comuni con coalizioni insieme a M5S o Si abbiamo ottenuto persino vittorie elettorali.
UNA POSIZIONE AUTOCONSOLATORIA che si è pericolosamente diffusa nel partito è quella secondo cui porsi il tema della rappresentanza istituzionale – e delle tattiche più adeguate per conseguirla – sia politicismo e che prima bisogna ricostruire una forza sociale nel paese. Pur considerando prioritarie le lotte e il radicamento nella classe lavoratrice, non si può non constatare che alla nostra scomparsa dallo spazio della rappresentanza è corrisposto anche un fortissimo indebolimento anche del nostro peso sul piano sociale.
UNIONE POPOLARE è stata l’ultima esperienza di costruzione di un soggetto unitario in cui ci siamo impegnati. La rottura che si è prodotta ha diviso anche i nostri organismi e mi sarei aspettato che il documento alternativo proponesse esplicitamente di riprendere quel percorso. L’averlo (momentaneamente?) accantonato dà l’idea che ci sia consapevolezza che nel partito sarebbero forti i malumori. Mi limito dunque a parlarne solo perché nel documento ci siamo assunte/i la responsabilità di una posizione chiara. Quell’esperienza unitaria si è interrotta perché sono emerse costantemente divergenze e una esasperata conflittualità interna che hanno bloccato fin dall’inizio la spinta propulsiva. Quello che doveva essere uno spazio assai aperto e capace di aggregare è diventato un recinto settario. Sulle coalizioni a livello locale PAP ha posto sempre un veto di principio alla collaborazione con il M5S dichiarandolo “incompatibile”. Sulla costruzione dell’opposizione sociale e politica al governo Meloni PAP ha sempre posto problemi. Persino aderire a manifestazioni della CGIL o a iniziative unitarie dell’ANPI incontrava una rigidissima contrarietà. Non a caso Pap non ha aderito al comitato referendario contro l’autonomia differenziata. Infine siamo arrivati alla deflagrazione con un veto a priori alla costruzione di una lista unitaria contro la guerra alle elezioni europee che negava proprio l’ispirazione originaria di UP che era quella di unire il fronte pacifista. Chi oggi propone il documento alternativo ha fatto da spalla a PAP con il risultato di ritardare di mesi preziosi un progetto che avrebbe dovuto attraversare il paese in lungo e in largo già da ottobre e imponendo, con un voto della direzione, che il segretario nazionale non entrasse nella cabina di regia organizzativa. Tra le ragioni con cui PAP argomentava la sua contrarietà c’era il rischio dell’adesione anche di AVS (evito ulteriori considerazioni). Tengo a precisare che se giudichiamo conclusa l’esperienza di UP questo non implica che si debbano dismettere i rapporti unitari con le soggettività che la componevano e con le quali è giusto continuare a collaborare. Sacrificare la nostra autonoma iniziativa politica per perseguire generosamente costruzioni unitarie ha purtroppo indebolito il partito seminando anche delusione tra chi ci aveva creduto.
A PROPOSITO DI SUBALTERNITÀ. Siamo stati accusati di subalternità al centrosinistra o addirittura di voler “elemosinare posti in liste altrui”. Segnalo solo di sfuggita che chi formula queste accuse dal 2009 non ha più presentato il nostro simbolo in elezioni a carattere nazionale ma scopre propositi identitari alla vigilia dei congressi. La più pericolosa forma di subalternità è quella di rinunciare a svolgere un ruolo nella dialettica politica del paese. D’altronde il sistema del bipolarismo maggioritario in Italia è stato introdotto proprio per marginalizzare ogni autentica sinistra e in particolare quella comunista.
FARE COME MELENCHON? Le suggestioni come quella di “fare come Syriza” a volte cozzano con la realtà. Il documento 2 sostiene di voler fare come Melenchon. Si tratta di un’analogia che rischia di essere fuorviante anzitutto perchè da noi c’è un sistema elettorale a turno unico che stritola chi è fuori dai poli mentre Melenchon ha potuto crescere in un paese in cui alle presidenziali come alle legislative c’è il doppio turno e quindi la sinistra radicale non ha mai subito il ricatto del voto utile. Melenchon inoltre non è partito dall’1virgola% ma alle presidenziali del 2012 con un ben più consistente 11,1%. È stato di conseguenza sempre uno dei protagonisti del dibattito politico francese nel corso di cicli di lotta e persino di rivolta sociale di dimensioni che l’Italia non ricorda da decenni. Questo non significa che non abbiamo nulla da imparare dalle esperienze degli altri paesi ma bisognerebbe farlo a partire da un’analisi che corrisponda ai processi reali e non di carattere onirico. L’esempio francese o quello spagnolo possono essere di grande incoraggiamento innanzitutto perché dimostrano che le nostre proposte, in altri paesi europei, sono state in grado di parlare a settori larghi della società. E la sinistra radicale è riuscita a lanciare sfide egemoniche e anche a aggiornare la propria tattica per non farsi schiacciare dalla paura dell’onda nera quando si è profilata una possibile affermazione dell’estrema destra.
LA QUESTIONE PRINCIPALE è quale ruolo deve svolgere il nostro partito in questo momento storico. Non possiamo ragionare come se ci fosse ancora al governo il PD. Bisogna evitare di minimizzare, per paura del “frontismo”, la gravità delle politiche del governo Meloni. La vittoria di Trump farà perdere ulteriormente i freni inibitori all’ultradestra italiana. Dobbiamo investire le nostre energie nello sviluppo della più larga opposizione sociale e politica sottolineando incessantemente che senza il NO ALLA GUERRA e al riarmo, la fine della complicità con Israele, la rottura con le politiche neoliberiste, un programma incentrato sui bisogni delle classi popolari e il rilancio dello stato sociale non si costruisce una credibile alternativa. La sconfitta di Kamala Harris rafforza i nostri argomenti. Invece di subire la fortissima domanda di unità contro la destra dobbiamo essere noi a far emergere le contraddizioni e a proporre che si costruisca una coalizione che abbia al centro davvero la difesa e l’attuazione della Costituzione. Come abbiamo fatto sull’autonomia differenziata dobbiamo proporre fronti unitari su obiettivi avanzati. Dobbiamo porre in maniera forte l’inconciliabilità tra l’agenda Draghi e le rivendicazioni della stessa Cgil. Non dobbiamo regalare l’antifascismo al “campo largo”. Una proposta di coalizione popolare su un programma che metta al centro il no alla guerra e un programma intersezionale di giustizia ambientale e sociale può incontrare l’ascolto di settori larghi della società italiana. Si tratta di determinare il terreno per una lotta per l’egemonia tra le forze di opposizione con una prospettiva concreta che sfidi la logica dell’alternanza. Noi che siamo alternativi al “campo largo” e alla sua indeterminatezza dobbiamo sfidarlo sul piano dei contenuti e del progetto di Italia e di Europa. Abbiamo bisogno di un partito meno correntizio e più democratico. Cosa faremo tra tre anni alle elezioni politiche sarà bene che lo decidano in ultima istanza le/gli iscritte/i con una consultazione referendaria. In questo congresso intanto assumiamoci l’impegno di lavorare insieme senza dimenticare la lezione di creatività e radicalità non settaria di Lidia Menapace e mettendo al primo posto lo slogan che ci ha lasciato in eredità: FUORI LA GUERRA DALLA STORIA. Siamo diventati un piccolo partito, ma non dobbiamo perdere l’ambizione di fare quella che Gramsci definiva “grande politica”. Possiamo svolgere un ruolo nella Sinistra europea e nel nostro paese se sapremo “imparare dalle sconfitte” e adeguare la nostra tattica a quello che Lenin definiva “lo zig zag” della storia. Nessuno ha la soluzione in tasca, ma abbiamo ancora un patrimonio di elaborazione e di militanza che non va disperso. Proviamoci con intelligenza e passione a ricostruire nei prossimi tre anni il nostro partito e a ridare forza a una sinistra di alternativa.
- Segretario nazionale Prc-Se