Voglio militare in un partito…
Marina Boscaino*
Le ragioni di una scelta
La mia decisione di iscrivermi per la prima volta ad un partito politico risale al 2020. Un fatto importante, alle soglie dei 60 anni, con un’esperienza di militanza lunga ed intensa, praticata integralmente nei movimenti per la scuola della Repubblica e per la difesa della Costituzione del 1948.
Si trattò, allora, di un approdo tanto ponderato quanto naturale. Assunto con la consapevolezza che, in alcun modo, esso avrebbe prevalso rispetto al mio massimo impegno politico, quello di portavoce dei Comitati per il Ritiro di ogni Autonomia Differenziata; e che, in alcun modo, avrei subordinato quella attività, che ancora impegna corposamente e convintamente la mia vita, alla mia militanza partitica. Le motivazioni di quella decisione stavano nel cuore e nella pratica: carissimi/e compagni/e che – nel corso degli anni – avevo intercettato nelle lotte, spesso in salita, mai semplici, e dei/delle quali avevo apprezzato l’onestà intellettuale, la capacità di impegno intransigente per l’interesse generale, la caparbietà di risalire una china senza mai compiere alcun tentativo di egemonizzare lotte che riconoscevano essere elaborazione ed iniziativa di movimenti e non di pregresse formazioni organizzate. Si trattava, nello specifico, delle lotte – a difesa della scuola della Costituzione- contro G. Berlinguer, Moratti e Gelmini; quella per il referendum contro la Buona Scuola di Renzi; quella a sostegno della Lip Scuola e dell’art. 81 della Costituzione; quella per il referendum del 2016; e, da ultimo, appunto, per il ritiro di ogni autonomia differenziata.
La mia iscrizione è stata tesa, in sostanza, a verificare se quelle pratiche disinteressate e finalizzate alla promozione di un obiettivo condiviso senza se e senza ma, di una costruzione comune di senso all’interno di un perimetro definito, potessero essere trasferite in un partito politico, senza perdere la propria peculiarità, la propria capacità di essere percepite – all’interno – come un patrimonio comune e solidalmente gestito; all’esterno, come un valore aggiunto ascrivibile (anche) al contributo del partito medesimo.
Il confronto con la realtà
La mia risposta oggi è no. E non perché creda che sia impossibile; e non perché quei/quelle compagni/e, che all’epoca mi sembravano persone straordinarie, non lo siano realmente. Ma perché il passaggio verso una costruzione di senso realmente comune si interrompe (o viene pesantemente intralciato) dalla finalità ontologica del partito stesso: la lotta per l’egemonia; che lo fa differire, altrettanto ontologicamente, da tutte le altre forme più o meno organizzate di militanza politica. L’impossibilità sta, a mio avviso, nelle modalità in cui quella peculiare aspirazione del partito viene gestita. E in quanto questa gestione vada a subordinare impegni, principi, convinzioni, addirittura rapporti personali tra compagni/e, militanti. Ebbene, le modalità di gestione del segretario del partito e di coloro che – negli organi dirigenti – hanno sostenuto e sostengono quella gestione (a partire dall’avallo al drastico cambiamento della linea politica rispetto a quanto definito nell’ultimo Congresso) si sono rivelate per me non solo insoddisfacenti, ma profondamente deludenti. Lo stesso apporto che ho tentato di fornire all’interno del PRC (che sin dall’inizio della mobilitazione è stato parte dei Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, e che quindi non avrebbe certo avuto bisogno di posizionarsi, partendo da una posizione già chiara e radicale) come portavoce dei comitati stessi è stato talvolta ostacolato, spesso strumentalizzato e manipolato.
Mi sono ritrovata sin da subito in una situazione di gestione autoreferenziale, scarsamente democratica, fortemente subordinata a patti interni sanciti per supportare quel cambio di linea. Patti che hanno smontato pezzo per pezzo la tenuta di principi comuni, alleanze che hanno scardinato l’equilibrio tra la (legittima) convinzione personale, e quanto doveva essere deciso (ed era stato deciso) insieme. Accordi interni che hanno dato vita ad una vera e propria narrazione (mi si perdoni l’orrido termine) fondata spesso su imprecisioni, quando non su bugie: prima tra tutti, l’idea che una parte del partito volesse (o voglia) sciogliersi prima dentro Unione Popolare, ora dentro Potere al Popolo. Non solo non è così, ma non e mai stato così. Tuttavia quella narrazione è stata certamente strumentale ed utile per sfilarsi progressivamente – ma fino all’ultimo non esplicitamente – , da un progetto che avrebbe richiesto la cura, la pazienza, l’intenzione che sono sfumate improvvisamente dopo il risultato elettorale del 2022 e il profilarsi all’orizzonte di Michele Santoro: un obiettivo ritenuto più appetibile, un interlocutore più affidabile. Non si sarebbe stato nulla di male, se questo passaggio fosse stato negoziato attraverso una sana dialettica interna. Invece, ci si è trovati in sostanza davanti ad un dato di fatto: il segretario di PRC componente della “cabina di regia” dell’operazione Santoro.
In conclusione, io contesto la gestione che si è fatta in questi anni della fisiologica lotta per la legittima affermazione del Partito della Rifondazione Comunista. Perché ci sono modi e modi di interpretare il mandato che elettori/elettrici, militanti, simpatizzanti affidano al partito stesso non solo votandolo, ma anche continuando a sostenerlo con la partecipazione. Sono però sinceramente convinta che una parte del partito non abbia voluto ascoltare il grido di allarme che molti/e di noi hanno lanciato rispetto alla situazione, così come essa si è andata delineando. E che le ricostruzioni filologiche dei fatti non siano in grado di scalfire la convinzione di coloro che – pur sensibili al problema della scarsa democrazia interna – ritengono la sopravvivenza di Rifondazione strettamente subordinata non già alla costruzione di una reale e possibile alternativa, ma alla capacità di entrare nella dinamica elettorale; e che per far questo occorra mantenere tenaci rapporti con il campo del centro sinistra.
La difficoltà estrema di trovare una potenziale sintesi tra due posizioni che sono diventate progressivamente sempre più inconciliabili, e infine antitetiche (quella di chi ha creduto di esigere in questi 3 anni che il dispositivo emerso dall’ultimo congresso di Chianciano fosse concretamente attuato nella linea del partito; e quella di chi ha ritenuto preferibile seguire il segretario in una personalissima interpretazione di quel dispositivo) impone una considerazione.
Perché il documento 2
Ho aderito senza tentennamenti alla prima istanza, quella rappresentata nel Documento 2, semplicemente perché credo che gli impegni vadano rispettati. La lotta interna al partito si è materializzata in un fatto che ritengo profondamente significativo del degrado che ha caratterizzato la storia di questi ultimi anni. Provate a leggere il documento 1. L’incipit del documento promosso dal segretario (il documento di un congresso, un documento che dovrebbe essere l’identikit della parte che lo promuove, un documento che dovrebbe parlare all’intera comunità, per poi essere eventualmente scelto; che è pubblico, quindi disponibile alla lettura di chiunque); esso indugia su un’accurata, insistita, lunga accusa, che concretizza un attacco senza filtri alla parte del partito che non ha approvato (ed ha tentato legittimamente di contrastare) la sua gestione. In altri termini: un attacco a tanti/e membri della comunità (ha senso, in questo contesto, usare un termine simile?). Chissà se la lettura di quella parte del documento 1 possa sollevare qualche sussulto nei suoi sostenitori; sarebbe, a mio avviso, un segno incoraggiante nella direzione che auspico: quella del riconoscere che alcuni limiti non dovrebbero mai essere superati; quella di porre sul piatto della bilancia opportunità (pseudo)politica e direzione da non smarrire. Non mi sfugge che c’è chi si è sottratto a modalità aggressive e talvolta pesantemente spregiudicate; e chi ha lavorato con impegno persino commovente nelle situazioni in cui ci siamo trovati/e a condividere momenti di lotta, indipendentemente dalla “corrente” di appartenenza. Sono certa che in questi/e compagni/e alberghi quanto meno il dubbio, qualsiasi scelta abbiano compiuto.
Ho sottoscritto il documento 2 per un motivo che, paradossalmente, esula dai contenuti del documento stesso, che – naturalmente – condivido in pieno.
Il partito che vorrei
Voglio militare in un partito in cui abbiano cittadinanza (per idem sentire politico, culturale, umano) le condizioni per il confronto tra varie elaborazioni politiche; in cui i dipartimenti tematici siano i luoghi di ricerca e costruzione dei contenuti politici. In cui la comunicazione – per la maggior parte – non si riduca al commento della cronaca quotidiana (spesso condivisibile, peraltro) da parte del segretario. Ma, è evidente, non è della condivisibilità che sto parlando.
Voglio militare in un partito in cui mai più venga sospesa la democrazia interna, in cui non si verifichi che la direzione nazionale non venga convocata da più di un anno; in cui vi siano regole certe e condivise per la gestione di importantissime riunioni online degli organismi dirigenti, per evitare le più rocambolesche infrazioni (voti ascritti ad assenti; voti comunicati telefonicamente a chicchessia; mancato rispetto di orari preventivamente stabiliti per la presentazione dei documenti ufficiali, ecc): una parodia di quello che dovrebbe essere un organo assembleare con funzioni decisionali. Voglio militare in un partito in cui una ragionevole presa di posizione per il ritorno alla civiltà dei toni non venga stroncata da comunicazioni private, al limite del minaccioso. Rivendico il diritto al dissenso; rivendico il diritto di esprimere il dissenso.
Non voglio (più) – infine – militare in un partito in cui affermare queste ed altre cose in modo trasparente collochi automaticamente tra le fila dei “nemici”.
*Insegnante, portavoce nazionale dei Comitati per il ritiro di qualunque autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti.