L’industria senza prospettive in un continente allo sbando

Vincenzo Comito*

Premessa

Negli ultimi tempi, anche sotto l’incalzare degli eventi, la riflessioni preoccupate sull’economia dell’UE, in particolare sulla sua industria, si vanno moltiplicando. 

Un segno delle difficoltà è rappresentato dal fatto che nell’ultimo periodo la produzione industriale delle principali sue economie, la Germania, la Francia, l’Italia e Spagna, mostra una tendenza negativa su tutti i fronti e si pensa che non si tratti di un fenomeno solo congiunturale. Nel 2023 l’Asia ha investito nel settore industriale il 54,5% del totale mondiale, gli Usa il 28,5%, l’Europa il 6,7% (Bonnefous, 2024). E la quota dell’Asia continua a crescere. 

Naturalmente il testo più citato sui problemi dell’economia del nostro continente appare quello, pur largamente criticabile, di Mario Draghi. Esso fotografa un clima di emergenza e la necessità di agire in fretta per provare a raddrizzare il corso degli eventi. Nello stesso tempo il confronto con la realtà mostra che tale piano, oltre che essere per molti aspetti non accettabile, non riesce comunque ad essere attuato nell’UE tranne che per la parte dove si auspica un sostanziale aumento delle spese militari, aumento che ora sembra essere il tema principale di tutti i consessi del nostro continente e l’unica apparente via di uscita dalle difficoltà trovata dai folli di Bruxelles.

La crisi economica tedesca: il quadro della situazione

Per analizzare la situazione dell’economia dell’UE è utile partire dall’analisi di quella del suo membro più importante, la Germania, che anche attraverso i suoi stretti legami con gli altri paesi dell’area contribuisce ora a mantenerlo in una situazione piuttosto precaria.

Le ragioni delle difficoltà del paese sembrano chiare, come appaiono sostanzialmente chiare quelle dell’intera Unione Europea, mentre la due crisi hanno plausibilmente molto, anche se non tutto, in comune. 

In un recente articolo comparso sul settimanale The Economist (The Economist, 2025, a), si sottolinea come l’Australia abbia a lungo poggiato la sua stabilità su due pilastri, gli Stati Uniti per la sicurezza, la Cina per la prosperità economica; ma l’articolo prosegue sottolineando come ambedue stiano ora oscillando pericolosamente. Nel caso della Germania, i pilastri erano ben tre: sempre gli Stati Uniti per la sicurezza, la Cina per lo sbocco delle sue produzioni e la Russia per la fornitura di energia a basso prezzo. Ma anche in questo caso non sembra che si possa più contare su di essi.

C’è stato un tempo in cui la Germania era considerata il malato d’Europa. Poi l’economia si è messa a marciare, guidata in particolare da un boom delle esportazioni. L’opinione corrente è che sia stato tutto merito delle riforme del mercato del lavoro di Schroder. L’allora Cancelliere presentò le sue proposte al Parlamento nel marzo 2003 e la loro attuazione venne varata in quattro fasi tra il 20023 e il 2005; si tratta delle ben note “riforme Hartz” dal nome del manager che le aveva messe a punto.

Le proposte di Schroeder hanno poi pesato fortemente sulle fortune elettorali del suo partito: una parte importante delle classi popolari lo ha da allora abbandonato ed esso ha così perso molti milioni di voti a tutte le elezioni, compresa l’ultima.

In realtà, nella ripresa dell’economia teutonica erano a suo tempo entrati in gioco diversi altri fattori e non solo o non tanto le riforme Harz. Intanto, al momento del varo dell’euro, il rapporto tra il marco e la moneta comune era stato fissato a livelli molto favorevoli per gli esportatori; poi, nei primi anni del nuovo millennio eravamo in pieno boom dell’economia mondiale e del commercio internazionale in particolare, mentre la Cina, che si stava sviluppando al ritmo di almeno il 10% all’anno, assorbiva enormi quantità di merci tedesche e apriva le porte agli investimenti diretti del paese teutonico.  

Ma di recente il quadro è fortemente cambiato. 

Il pil, dopo essere cresciuto dell’1,4% nel 2022 semplicemente sotto la spinta del recupero post-pandemico, si è poi collocato in territorio negativo nel 2023 e nel 2024, rispettivamente con uno -0,3% e un -0,2%, mentre alla fine di quest’ultimo anno esso si ritrovava ancora al livello registrato prima della pandemia. Le previsioni per il 2025 non sono poi particolarmente incoraggianti. Il Kiel Institute prevede zero crescita, la Banca Centrale stima un +0.2% e il Governo, come sempre “ottimista”, un +0.3%, mentre la Confindustria si ferma allo -0,1%. 

E’ stata colpita in particolare duramente negli ultimi anni la base stessa della sua economia, il settore manufatturiero, orientato all’esportazione; la produzione industriale è diminuita del 30% rispetto al picco raggiunto nel 2017. Per altro verso, le quaranta grandi imprese presenti nell’indice di borsa DAX ottengono circa l’80% dei loro ricavi all’estero. Qualche speranza di miglioramento viene comunque dal settore dei servizi.

Le ragioni della crisi

Gran parte delle ragioni delle difficoltà sono già state ampiamente esposte.

Intanto, dal lato degli input produttivi, tutti ovviamente citano il forte aumento dei costi dell’energia a seguito della crisi ucraina: oggi il prezzo del gas è più o meno di cinque volte quello Usa. Tale fattore mette in difficoltà i settori più energivori: ricordiamo soltanto a questo proposito il caso della chimica, storicamente uno dei pilastri fondamentali dell’economia del paese. Il settore sta ormai emigrando verso la Cina, che controlla tra il 40 e il 50% del mercato mondiale, nonchè verso gli Stati Uniti. 

Dal lato degli sbocchi all’export va naturalmente sottolineato di nuovo il caso dell’Impero Celeste. L’economia tedesca era ormai molto collegata sul fronte industriale al paese asiatico, ma nell’ultimo periodo la Cina tende a fare una concorrenza crescente alla Germania sia sul piano interno che su quello internazionale. 

Concorre alla debacle anche l’evoluzione tecnologica: la grande sofisticazione tecnica delle auto tedesche, che contribuiva a farle ottenere sino a ieri dei margini economici molto grandi, oggi tende a servire molto meno di una volta. In effetti, i componenti essenziali di un’auto elettrica come di quella a guida autonoma sono costituiti dalle batterie, dal software e dai congegni elettronici che oggi tendono a pesare intorno ai tre quarti del totale dei costi.

Peraltro la Germania è un paese lento e i tempi di decisione molto lunghi tendono a mantenere l’industria del paese lontana anche nei settori tecnologicamente avanzati e a registrare una capacità di reazione agli eventi spesso molto tardiva.

Alla fine quindi sono in crisi i tradizionali settori portanti dell’industria e dell’economia tedesca: l’auto (secondo alcune stime, peraltro forse un poco ottimistiche, nel settore lavorano, tra addetti diretti ed indiretti, circa 15 milioni di persone), la chimica, la meccanica. 

La burocrazia pubblica appare un altro importante fattore di debolezza. Per alcuni settori delle costruzioni è necessario seguire circa 3000 direttive diverse.

In ogni caso in due anni nell’indice di competitività internazionale redatto dall’IMD World Competitive Ranking il paese è sceso dal 15° posto del 2022 al 24° del 2024 (Bufacchi, 2025).

 E’ poi da mettere in campo la questione delle strette politiche di bilancio, iscritte anche nella Costituzione. Esse hanno, tra l’altro, portato ad un sotto-investimento cronico in settori critici per il paese quali i trasporti e l’energia; più in generale, esse hanno bloccato adeguati stimoli all’economia e non sono riuscite a mantenere ai livelli precedenti il welfare. Nelle trattative per la formazione del nuovo governo i primi annunci segnano comunque la caduta dei un tabù e parlano di un grande stanziamento extra per la difesa (tra 200 e 400 miliardi) e per le infrastrutture (500 miliardi in dieci anni).

De te fabula narratur

Naturalmente la crisi tedesca non riguarda solo il paese teutonico. I legami della sua economia con quelle di una parte consistente degli altri paesi europei sono molto stretti. Una delle ragioni delle fortune economiche della Germania è stato proprio l’avvio a suo tempo di un forte processo di delocalizzazione delle sue produzioni ad est ed a sud nel continente. 

Qualche tempo fa la Meloni si compiaceva del fatto che l‘economia italiana stava crescendo di qualche punto decimale in più di quella tedesca, dimenticando che una parte molto importante dell’industria del Nord Italia ha come suo cliente privilegiato proprio la Germania e che, anche in conseguenza di questo, l’attività del nostro settore industriale tende a rallentare fortemente. Così, nel 2024 la produzione industriale nazionale è calata del 7,1% rispetto all’anno precedente, mentre il mese di dicembre 2024 fa segnare il 23 mese consecutivo di riduzione. Particolarmente toccato il settore dell’auto, con un livello produttivo tornato al punto più basso dal 1957, ma poi anche la meccanica e il tessile-abbigliamento. 

Ma vogliamo ricordare anche il caso della Francia, la cui economia è sempre più integrata con quella del suo vicino (Bequemin, 2025). Un segnale vistoso dei problemi ormai in atto è rappresentato dal netto rallentamento degli scambi commerciali tra i due paesi. Sul piano produttivo sono in particolare colpiti non solo l’industria, ma anche l’alta tecnologia e molti servizi. Dei problemi si manifestano poi in diverse filiali francesi delle imprese tedesche, dove si registrano chiusure di fabbriche e riduzione dei livelli di occupazione, nonché nelle regioni francesi più prossime alla frontiera tra i due paesi, aree nella quali l’integrazione tra le due economie era più avanzata. 

Per altro verso, i vari governi che si sono succeduti nel tempo nel paese transalpino avevano da qualche anno provato ad innescare un processo di reindustrializzazione, ma esso è sostanzialmente fallito; il livello della produzione manufatturiera era, alla fine del 2024, inferiore dell’8% a quella del 2020 (Bonnefous, Madeline, 2025). 

E l’Europa?Il quadro non appare certo positivo

In un recente articolo di The Economist (The Economist, 2025, b) si affermava, a proposito del nostro continente, che non si intravedevano vie di fuga dalla stagnazione attuale. 

Da dove possono in effetti venire delle spinte allo sviluppo futuro? I consumi non seguono, tra l’altro con una popolazione sempre più anziana che preferisce mettere i soldi in banca; le prospettive dell’export, su cui tanto ha contato gran parte del continente in passato, sono sostanzialmente negative. Trump vuole bloccarle con i dazi al 25%, mentre la Cina semmai vuole esportare di più da noi. Gli investimenti presuppongono fiducia nel futuro, sentimento che appare del tutto assente; comunque quelli delle imprese dell’Unione sono in caduta dal 2019 (The Economist, 2025, b). I governi sono inerti, mancano le risorse e le idee. L’unico guizzo che è uscito dalle fervide menti di governanti allo sbando è quello di puntare sulle spese militari, vecchio e tragico vizio di un continente che ha già scatenato due guerre mondiali. Intanto i settori maturi sono in difficoltà, mentre in quelli nuovi dominano Cina e Stati Uniti.

Per molti aspetti il quadro somiglia a quello già esplorato a proposito della Germania.

I difficili fronti esterni e quelli interni

Non si può poi dimenticare in tutto questo il ruolo delle politiche della Commissione Europea. Bruxelles, con la guida di Ursula von der Leyen, si è nel corso degli ultimi anni sempre mostrata pronta a recepire gli ordini di Washington ed ha cercato quindi, tra l’altro, di rendere in tutti i modi difficile la vita alle imprese e ai prodotti cinesi, cosa che continua a fare sino ad oggi; ma ora che arrivano le minacce di dazi e di altre condanne da parte di Washington, la Commissione si trova a dover combattere su due fronti, cosa che il nostro continente non è certo in grado di reggere, non possedendo né gli strumenti, ne l’unità necessaria per proteggere i propri interessi (Trillo-Figueroa, 2025). 

In particolare l’UE si trova di fronte alla questione di cosa fare con gli Usa, che hanno in pochi giorni demolito gran parte dei presupposti su cui si reggevano le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. La minaccia dei dazi del 25% verso un’UE che basa una parte consistente della sua economia sulle esportazioni può rappresentare un ulteriore duro colpo alle speranze di sviluppo del continente.

Ma in questo scenario la von der Leyen mantiene la sua posizione di assoluta nemica della Cina, mentre l’industria del Continente è pienamente integrata nelle catene di fornitura di Pechino (Trillo-Figueroa, 2025). A Bruxelles regna quindi in questo momento una situazione di caos e di grandi difficoltà, come del resto in Germania. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha, tra le altre cose, messo in chiara evidenza ed in modo spettacolare la paralisi strategica dell’UE (Trillo-Figueroa, 2025).

Il Kiel Institute ha calcolato che i dazi al 25% significherebbe una caduta dell’export dell’EU verso gli Usa tra il 15 e il 17%, il che porterebbe ad una contrazione del pil dello 0,4% all’anno; sarebbero in particolare colpite le esportazioni tedesche (-20%). Ma alla fine a perderci di più sarebbe il consumatore americano (Inman, 2025).

Ma al di là dei problemi esterni l’Unione ne ha anche al suo interno. Come sottolinea di recente lo stesso Draghi (Draghi, 2025) la alte barriere interne all’Unione e i vari ostacoli regolamentari presenti son persino più dannosi di qualsiasi dazio Trump voglia imporre. Intanto l’UE nel suo complesso, come la Germania, si trova con i settori maturi in difficoltà, mentre in quelli nuovi non riesce ad avere una voce significativa.

Il piano NextGenerationEU

Per molto tempo a Bruxelles anche soltanto a nominare l’espressione “politica industriale” si metteva mano alla pistola. Più di recente, di fronte alle palesi difficoltà economiche dell’Unione, si è cominciato a fare qualcosa, varando dei peraltro anemici piani di settore che non sono riusciti a cambiare gran che nella situazione. Troppo poco, troppo tardi. 

Emblematico il caso dei chip. Molti decenni fa le imprese dell’UE producevano circa il 35% del totale mondiale; ma da molti anni siamo scesi sotto al 10%, mentre siamo comunque assenti da quelli più qualificati. Qualche tempo fa a Bruxelles è stato varato un piano per arrivare in pochi anni al 20%, ma si tratta di un’ipotesi del tutto fantasiosa.

Nel luglio del 2020 veniva congedato a Bruxelles quello che prese il nome di NextGenerationEU. Si trattava di un piano di rilancio di ben 750 miliardi di euro, da concedere in parte come prestiti e in parte a fondo perduto. Si è tra l’altro compiuto il miracolo di far accettare alla Germania la creazione di un prestito comune a livello dell’Unione e che avrebbe finanziato anche e anzi soprattutto i paesi del Sud Europa. Gli obiettivi specifici erano quelli della informatizzazione, della transizione climatica, del rafforzamento delle dimensione economico-sociale, in particolare poi del settore sanitario. Di recente è poi, ahimè, stato incredibilmente aggiunto il settore della difesa, che adesso dovrebbe aggiudicarsi un bella fetta delle risorse stanziate.

Ma, secondo le analisi, alla fine del 2023 il piano aveva aggiunto tra lo 0,1 e lo 0,2% del pil annuale dei paesi della UE contro una stima iniziale dello 0,5% (Albert, Kaval, 2024).

In ogni caso a quattro anni dal varo esso fa molta fatica a fare progressi. Alla fine del 2024 solo il 41% dei 750 miliardi inizialmente previsti erano stati versati ai paesi membri e peraltro solo la metà di tali somme era poi stata spesa. Tra i problemi del progetto la grande complessità delle procedure. La lentezza dell’avanzamento appare in grande contrasto con la rapidità di esecuzione di un parallelo piano di rilancio Usa.

In ogni caso le speranze di rovesciare le sorti in bilico dell’economia dei vari paesi sono state almeno sino ad oggi del tutto vanificate, in particolare nel caso dell’Italia, paese in cui i risultati del piano minacciano di essere irrilevanti.

Il piano di politica industriale

La Commissione, cercando di concentrare l’attenzione su di una competitività in grande difficoltà, ha presentato di recente un serie di proposte, varando tra l’altro il Clean Industrial Act, uno strumento che dovrebbe servire a rilanciare la sua politica industriale, in particolare in un settore fondamentale quale quello della transizione energetica. Sembrerebbe un programma importante, ma esso appare inadeguato ad affrontare le sfide globali che il continente ha di fronte (Di Carlo, Simoni, 2025).

Il piano prevede in effetti la creazione di un fondo di decarbonizzazione di 100 miliardi di euro; ma in realtà per lo meno per la metà di tratta di riciclare dei fondi già esistenti, mentre per il resto ci si affiderebbe ai fondi dei singoli paesi; esso si basa sostanzialmente sul meccanismo degli aiuti di Stato dei singoli governi, mentre le risorse comunitarie sono poca cosa, mentre i meccanismi burocratici relativi appaiono molto complicati. Si parla di semplificare le regole, ma in realtà si allenta con questo pretesto la sorveglianza sui temi ambientali per le piccole e medie imprese. Alla fine non è con strumenti di questo tipo che si faranno grandi passi in avanti. 

Intanto si allentano anche i vincoli ambientali per il settore dell’auto.

Gli Stati Uniti controllano dall’alto

Una delle questioni che mettono in difficoltà i paesi dell’UE riguarda i suoi rapporti ineguali con gli Stati Uniti. Al di là dei grandi temi cui facciamo cenno altrove in questo stesso articolo, sottolineiamo una serie di fonti apparentemente minori attraverso cui si esercita il dominio economico Usa nei nostri confronti.

Uno dei più importanti handicap di cui soffre l’Europa riguarda il fatto che essa è messa in una pessima posizione per quanto riguarda la grande battaglia cui indulgono i vari paesi per assicurarsi i migliori ricercatori e i migliori giovani manager del mondo. Si tratta di un problema di salari, ma anche soprattutto di opportunità di svolgere un lavoro di livello; i tecnici qualificati si trasferiscono per una quota importante negli Stati Uniti. I paesi più toccati dal fenomeno sono la Grecia e l’Italia, mentre va meglio per la Germania e la Gran Bretagna. Così il 55% delle imprese unicorno Usa sono state fondate da immigrati, mentre la percentuale sale ai due terzi del totale se si prendono in conto anche i figli degli immigrati (Albert, 2024, a).

Un testo apparso di recente (Volpi, 2024) fotografa intanto un altro meccanismo di rapina delle risorse europee, quello che si svolge attraverso le azioni dei grandi gruppi finanziari statunitensi, in particolare i grandi fondi speculativi, da Vanguard a Blackrock, che raccolgono grandi quantità di risparmio nel nostro continente (si parla di circa 300 miliardi di dollari all’anno) e poi le trasferiscono in gran parte negli Stati Uniti, dove da una parte alimentano la macchina produttiva locale, dall’altra invece tendono a dominarla, mentre cercano di fare lo stesso anche nel nostro continente.

Parallelamente, si può sottolineare che nel settore della tech c’erano tradizionalmente poche imprese europee rispetto a quelle degli Stati Uniti, ma negli ultimi dieci anni le cose sono molto migliorate. Ma quando si tratta di far crescere queste start-up ci si scontra con un muro ed allora la soluzione è quasi sempre quella di spostarsi negli Usa. Vi si trovano dei finanziamenti molto più abbondanti (risorse che non mancherebbero nell’UE, ma che non si riescono ad indirizzare adeguatamente verso il settore delle nuove tecnologie) e un mercato molto più grande (Albert, 2024, b).

Si può anche sottolineare che sul nostro continente grava anche la minaccia di una perdita di autonomia rappresentata dal fatto che la rete internet e i relativi gruppi che controllano i dati e le informazioni europee presenti sulla rete sono tutti statunitensi. Abbiamo persino il caso di un paese come l’Italia che ha ceduto ad un’impresa Usa la propria società di telecomunicazioni. Così gli americani sanno tutto di noi e sono in grado di influenzarci con le loro reti, mentre il contrario non vale. E accenniamo appena alle società di certificazione e di consulenza.

Infine attraverso Swift, il sistema di messaggistica bancaria controllato di fatto dagli Usa, o ancora attraverso Google, non c’è dettaglio legato alle transazioni finanziarie a alle informazioni sul web su cui gli Stati Uniti non possono mettere gli occhi (Ricci, 2025).

Cosa fare? Armarsi è la formula magica? 

Al di là del piano Draghi di cui non si intravede alcuna possibilità di realizzazione, l’UE non ha certamente una strategia adeguata alla bisogna. L’unica mossa concreta che si intravede è quella di spingere fortemente sulle spese militari, per far fronte ad un’improbabile minaccia russa, naturalmente trascurando poi necessariamente gli investimenti in istruzione, sanità, pensioni, temi per i quali le risorse non si trovano mai per “problemi di bilancio”. A Bruxelles non si parla d’altro, da parte di un gruppo dirigente poco plausibile, che di uno sciagurato quanto improbabile progetto di riarmo sino ad 800 miliardi di euro in quattro anni (il ReArm Europe plan). Tra l’altro alla fine una parte consistente di tali spese andrebbe evidentemente nell’acquisto di armamenti americani. Se il piano fosse approvato torneremmo quindi, per molti versi, al male oscuro dell’Europa, quello della sua propensione pluricentenaria ai cannoni e alle guerre. Per altro verso, si parla ormai apertamente di tagli allo stato sociale per alimentare la spesa militare. Lo fa ad esempio il Financial Times per bocca di uno dei suoi più autorevoli commentatori (Ganesh, 2025).

Che qualcosa si potrebbe invece fare nel settore delle alte tecnologie è mostrato dal caso DeepSeek, che indica come non sarebbero necessarie grandi risorse finanziarie per operare in misura importante nel settore; ma è significativo che sono stati i cinesi e non gli europei a portare avanti la svolta.

Oltre all’IA, tema su cui le competenze all’interno dell’Unione non mancherebbero, si potrebbero concentrare gli sforzi, invece che sulle armi, su alcuni pochi altri settori sui quali l’UE possiede già dei punti di forza rilevanti, quali la robotica, l’energia eolica, alcuni comparti del software, le tecnologie per l’aeronautica civile e così via. La decarbonizzazione dovrebbe essere comunque la pista principale dello sforzo europeo. La strada appare comunque lunga. 

Su quelli tradizionali, auto, chimica, meccanica, si deve cercare di salvare il salvabile, in particolare cercando un grande accordo con la Cina, ma scontando in ogni caso un ridimensionamento produttivo. La Cina controlla poi il 60% delle catene del valore delle tecnologie verdi e dei materiali critici della transizione energetica (Bonnefous, 2024). 

L’UE dovrebbe più ingenerale spingere molto di più gli sforzi verso lo sviluppo dei rapporti economici verso il Sud del mondo, in particolare verso l’Asia.

C’è poi il grande dilemma di cosa fare nei confronti degli Usa che da una parte minacciano tariffe del 25%, dall’altra rifiutano di accettare che nella UE le sue imprese vengano regolamentate. Il dilemma è allora quello di tenere duro sulla regolamentazione e esporsi al rischio di pesanti ritorsioni, o invece di inchinarsi al ricatto economico che si va profilando. Evidentemente nel lungo periodo si dovrebbe puntare all’autonomia strategica, con massicci investimenti nell’innovazione, ecc. (Damiani, 2025).

Ostano al progetto le gelosie nazionali, la pochezza ed anzi la tendenza al suicidio delle classi dirigenti locali, l’ostilità Usa.

Ma ci si trova poi soprattutto di fronte a un potenziale grande problema sul fronte politico. 

Di fronte alla prospettiva di una rifondazione dell’Unione Europea uno studioso come Lucio Caracciolo afferma: “…Non credo ad una rifondazione, l’Unione è una fondazione americana…ma nel momento in cui gli Usa ci lasciano noi torneremo a quello che siamo sempre stati, paesi in conflitto, sperando che questo non comporti una guerra tra noi, come è sempre successo” (Cannavò S., 2025). 

Speriamo che questo non sia troppo vero. Ma intanto le prime reazioni europee alle affermazioni di Trump sull’Ucraina appena dopo il suo insediamento appaiono demenziali; questi pensano solo a fare l’Europa delle armi.


Testi citati nell’articolo

-Albert E. ed altri, L’Europe peine à enrayer la fuite des cerveaux, Le Monde, 19 dicembre 2024, a 

-Albert E. ed altri, Start-up européennes: la tentation américaine, Le Monde, 21 dicembre 2024, b 

-Albert E., Kaval A., le plan de relance européen à la peine, Le Monde, 20 dicembre 2024

-Bequemin F., La France va etre un gran dommage collateral de la récession en Allemagne, Mediavenir, 12 febbraio 2025 

-Bonnefous B., La grande panne de l’industrie européenne, Le Monde, 24 settembre 2024

-Bonnefous B., Madeline B., La réindustrialisation de la France a fait long feu, Le Monde, 18 febbraio 2025 

-Bufacchi I., “In due anni è crollata la competitività del paese”, Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2025

-Cannavò S., Senza gli Usa, Nato ed Unione sono finite…, Il fatto quotidiano, 17 febbraio 2025

-Damiani A., Non solo più soldi, all’UE serviranno politiche comuni e innovazione, Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2025

-Di Carlo D., Simoni M., Un sistema unico per accesso ai finanziamenti industriali europei, Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2025

-Draghi M., Forget the Us – Europe has successfully put tariffs on itself, www.ft.com, 14 febbraio 2025

-Ganesh J., Europe must trim its welfare state to build a warfare state, www.ft.com, 5 marzo 2025

-Inman P., Trump’s threatened 25% tariffs on UE imports could trigger « economic turmoil », www.theguardian.com, 27 febbraio 2025

-Ricci M., Il vero soft power degli Usa…, La Repubblica, 24 febbraio 2025

The Economist, Australia the lonely, 22 febbraio 2025, a

The Economist, Onward and sideways, 8 febbraio 2025, b

-Trillo-Figueroa S. C., « Europe last »; how von der Leyen’s China policy traps the EU, www.asiatimes.com, 23 gennaio 2025-Volpi A., I padroni del mondo, Laterza, Bari, 2024


*Economista, ha lavorato a lungo nell’industria, nel gruppo Iri, alla Olivetti, nel Movimento Cooperativo. Ha poi esercitato attività di consulente ed ha insegnato finanza aziendale prima alla Luiss di Roma, poi all’Università di Urbino. Autore di molti volumi. Collabora a “Il Manifesto” e a www.sbilanciamoci.info

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