Sull’orlo del baratro. Sette tesi sulla situazione politica internazionale, vista dall’Italia

Angelo D’Orsi*

  1. I media comandano la politica.  

Si è rovesciato il rapporto fra media e attori politici. Un tempo i primi esponevano, illustravano, propagandavano le idee dei secondi, usando al meglio possibile, per i loro standard modesti, le armai della retorica e della persuasione. Oggi, abbiamo un quadro ribaltato: sono i media a dettare l’agenda, a ridurla in slogan di facile diffusione, di immediata presa, specialmente su un pubblico disinformato, un pubblico preparato per cadere nelle trappole della comunicazione apparentemente neutra, che non distingue tra messaggio commerciale, chiacchiera di intrattenimento, preferibilmente sotto specie di ciarle su temi intimistici, soprattutto pettegolezzo sentimental-sessuale. La banalizzazione del discorso, portata avanti scientemente da un trentennio di televisioni berlusconiane, ha predisposto il pubblico – “l’utenza” – a recepire in modo passivo, da “consumatori”, ogni informazione, perdendo la distinzione tra informazione vera e propria, ossia la notizia di eventi accaduti, e comunicazione, volta a titillare i gusti del pubblico, quei gusti che intanto si suscitavano, si inducevano, si eccitavano. Ogni distinzione veniva meno, bene e male si confondevano, le vittime erano equiparate ai carnefici. I giornalisti vedevano accrescere il loro ruolo, che in situazione di crisi estrema – la guerra – diventava un vero potere. 

Essendo la guerra sempre di più giocata sulla propaganda (specificamente le guerre post -1989, le new wars)  è aumentato il peso specifico dei comunicatori, che non sono gli intellettuali del passato, ai quali spettava il compito di essere quelli che Bauman chiama “i legislatori”, ma non incarnano neppure il ruolo degli “interpreti” (sempre stando al pensatore polacco). Questi ultimi hanno perso ogni autorevolezza, mentre in parallelo aumentava la loro “visibilità”, salivano nella scala sociale sul piano del reddito, rinunciando a un vero ruolo civile, di orientamento della classe politica, la quale a sua volta rompeva ogni barriera, e diveniva un serbatoio per essere selezionata ed entrare a pieno tiolo nel grande circo mediatico. Solo quei politici che seguivano questo tragitto, diventavano “decisori”. 

Nella guerra ucraina e in parallelo in quella israeliana-palestinese questo processo ha subito una fortissima accelerazione, che ci ha ricondotto di colpo alle grandi narrazioni falsificatrici dei primi anni Novanta (la Prima Guerra del Golfo) fino al termine di quel decennio, con la guerra dei Balcani (o Guerra del Kosovo). Degna di rilievo l’intensificazione dell’uso politico, spregiudicatissimo, della storia.   E come in quei due conflitti anche per l’Ucraina, in specie, e in forma minore, per la Palestina, il grande riferimento, il paradigma vincente è stata la Seconda Guerra mondale, la “guerra giusta” per eccellenza. E si è fatto ricorso alla tipizzazione, come eterne categorie, ebrei e nazisti, e lo Hitler (o lo Stalin), o persino il Churchill, diventò merce corrente, per esercitarsi nell’usuale pensiero binario, ossia accettando e imponendo la rinuncia al pensiero critico, e in definitiva all’appello kantiano del “Sapere aude!”, quel motto che il filosofo di Koenisberg (oggi, per inciso, la russa Kaliningrad) metteva come insegna dell’Illuminismo, traducendolo con “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”. Dovrebbe essere un invito già digerito da due secoli quanto meno, e soprattutto, dal ceto intellettuale, ma altra è la realtà.

  1. Ritorna l’apologetica della guerra

La realtà si presenta oggi come altre volte nel passato: il ceto intellettuale subisce tre pulsioni fondamentali, che prevalgono su tutte le altre: la vanità, ossia il voler essere nella prima fila sul proscenio degli eventi, anche quando non sono protagonisti degli stessi; la seduzione bellica, perché la gran parte di loro, nel 1914, come nel 1935-36, come nel 1991, come nel 1999, vede nella guerra la grande occasione proprio per esercitarsi come narratori, come costruttori di fabulae, il loro desiderio più grande è se non possono rivestire i panni dei reporter di guerra, diventarne gli ideologi. Perché la guerra è una grande tavolozza, come si esprimevano i  pittori futuristi, perché la guerra “è il più grande poema mai scritto” (Marinetti), perché la guerra genera ogni sentimento, dai più ignobili ai più puri, e l’intellettuale scrittore, pittore, scultore, musicista, filosofo, eccetera, si trova dinnanzi, a sua disposizione, una enorme, pressoché infinita quantità di materiali da trattare, sistematizzare, organizzare in argomenti logici o in strutture narrative. 

Dunque protagonismo, ora con un certo rischio, ora a buon mercato, e ispirazione nel proprio lavoro. In questi anni di guerra europea, l’ultima, in Ucraina, guerra glocal, ossia apparentemente locale ma di fatto globale, per il coivolgimento di decine di attori, e proxy war, ossia una guerra per procura, ma anche conflitto identitario che coinvolge mondo russo e mondo ucraino, il ceto intellettuale, stanco di guerre lontane, ha trovato la sua grande occasione. Occasione per inventare le proprie favole, che hanno avuto un baricentro ideale, offerto dal destino, ma in realtà elaborato a tavolino, nella costruzione del nemico perfetto, quel Vladimir Putin rappresentato come la reincarnazione di tre figure storiche, che però erano degli idealtipi, più che precisi riferimenti a individui: lo zar, ossia un capo, un re di tratti mistico-sacerdotali, che mira a incessante allargamento del territorio, con l’ambizione di far diventare le restanti nazioni d’Europa parte di “tutte le Russie”; Stalin, il comunismo dal volto disumano e crudele all’interno, imperialista e conquistatore all’esterno;  infine, abbandonando lo spazio nazionale, Hitler, ossia una sorta di crasi tra sete di dominio, volontà sopraffattoria, ferocia belluina: negli scorsi decenni del resto l’hitlerizzazione del nemico è stata una pratica essenziale nella propaganda bellicistica. 

Nel caso specifico, si trattava di presentare con uno spettacolare salto triplo, Putin come erede del comunismo sovietico, ma anche come esponente di un nuovo fascismo, esattamente come già era avvenuto nella campagna politico-mediatica contro Slobodan Milosevič, che preparò la guerra dei 78 giorni della coalizione di 19 Stati contro la Repubblica Federale Jugoslava, il cui esito fu la separazione del Kosovo e il successivo rapimento, arresto e misterioso decesso in una prigione dell’Aja. 

Una nuova apologetica della guerra faceva il suo ingresso in campo. Dopo la guerra giusta riemersa con la Prima Guerra del Golfo, ora si procedeva a una normalizzazione della guerra, presentata come una forma della politica. E si cercava di persuadere la popolazione che in “certe situazioni” un conflitto militare è non solo inevitabile, ma persio necessario e utile. Improvvisamente tutti i commentatori incominciarono a ripetere il motto latino: Si vis pacem para bellum. Una spinta formidabile giungeva dai media espressione diretta o indiretta dal partito trasversale degli “armaioli”, dei gruppi del complesso militar-industriale che, rispetto a quello denunciato da Eisenhower nel 1961, ora aggiungeva un terzo soggetto quello dei media. Di qui partiva la campagna volta a far durare all’infinito tanto l’attività bellica in Ucraina quanto gli scontri in Palestina: l’industria bellica italiana concedeva i suoi prodotti tanto a Est (Ucraina) quanto a Sud-Est (Palestina). E la guerra diventava un perfetto sistema, che comprendeva militari politici giornalisti, produttori di armi, un sistema che macinava profitti, costruiva senso comune, inquinava, distruggeva, e in contemporanea decisdeva e modalit della bonifica e/o della ricostruzione. (Vedi Gaza, vedi Ucraina) 

  1. Il fallimento della campagna di Ucraina

Quella guerra fu la fase conclusiva del decennale conflitto dei Balcani, volto a frantumare l’unità di quei popoli, e a portare i nuovi governi dalla parte dell’Occidente, dopo opportuni regime change, sapientemente predisposti dalla Cia e dalle varie longae manus di amministrazioni euro-americane.  Numerosi osservatori indipendenti qualificati, oggi vedono la guerra in Ucraina, come l’esito di quel conflitto, o la guerra del Kosovo come la premessa della guerra d’Ucraina, con lo scopo recondito di arrivare a una frammentazione territoriale della Jugoslavia (di ciò che ne rimaneva, ieri), della Federazione Russa oggi. In una prima fase, la politica delle sanzioni avrebbe dovuto essere l’equivalente dei bombardamenti, anche sulla base di previsioni dimostratesi clamorosamente errate, di sedicenti statisti alla Mario Draghi, o Enrico Letta, o Paolo Gentiloni, e via seguitando, con il loro corredo di politici europei dentro e fuori l’Unione, previsioni che concedevano poche settimane di resistenza economica e politica alla Russia di Putin. 

Davanti alla dimostrazione del tragico errore di valutazione, sulla base sempre della spinta dei signori dei media, prima e più che dei decisori politici, le sanzioni divennero un simulacro, affiancate, e poi di fatto sostituite dall’invio di armi, pur mentre si reiteravano gli inefficaci “pacchetti” delle prime, si moltiplicavano i container zeppi di strumenti di morte. Le armi, sempre affiancate da una opportuna, compiacente narrazione, venivano distinte tra “difensive” e “offensive”; quindi, si giunse alla distinzione tra missili e cannoni a lunga, media o breve gittata, e poi ancora alla grottesca decisione, immediatamente contraddetta, di concessione di uso di armi offensive purché non di provenienza euroamericana, e simili trucchi retorici. 

In tale profluvie narrativa si sono esercitati spesso gli stessi corifei dell’intervento NATO nei Balcani nel 1999, con i politici, eterodiretti dai giornalisti, trasformatisi ormai in opinion makers, o negli ultimissimi anni, in influencers. Il ricorso all’uso politico della storia, facilitato dalla grossolana ignoranza del ceto politico, fu fondamentale, ma questa volta a differenza delle tante altre rappresentazioni delle new wars, si aggiungeva un elemento rilevantissimo: si creava paura, la paura dell’“Orso russo”, che sembrava vagamente riprendere i cascami della propaganda democristiana del 1948, ma opportunamente aggiornata. Se allora si sosteneva che “Baffone” voleva trasformarci in colonia, appaltata ai comunisti nostrani, ora il fior fiore dei commentatori insisteva su un unico tasto dei loro computer, ossia Putin vuole rifare l’URSS, anzi vuole rifare l’Impero Russo, e si precisavano le prossime vittime sacrificali, dopo l’Ucraina, ossia i Baltici, la Polonia, e tutte le ex repubbliche sovietiche, che il nuovo zar-nuovo capo del Cremlino, divisava di riportare “a casa”. “Bisogna fermarlo, era”: ecco il grido che da tante parti d’Europa, e per solidarietà, d’Italia, giungeva nelle stanze del potere, i talk show, e di qui tracimava nel Parlamento e negli uffici governativi. Nessuno era in grado di fornire uno straccio di prova, nessuno in grado di compiere analisi convincenti, ma tutti psittacisticamente continuavano a ripetere: “Bisogna fermarlo”. Dopo l’Ucraina si prenderà…e qui le indicazioni potevano divergere. Chi puntava sulla Polonia, chi Finlandia e Svezia (recenti traditrici passate sotto l’egida NATO), chi le tre repubblichette baltiche, e così via in un grottesco gioco di Risiko. E a quanti provavano ad obiettare che per le sue gigantesche dimensioni, la Federazione Russa non aveva alcun possibile interesse ad accrescerle, per la ricchezza dei suoi  territori, non aveva alcun bisogno di fare guerre (con i relativi costi) per controllarne altri,  per la produttività dei suoi terreni non aveva interesse a cercare altrove cereali o petrolio o ferro o gas naturale…, e così via. Lo stesso Putin ha spiegato più volte tali banali assunti, ma… “Putin è un bugiardo!”: lo slogan di Zelesnsky risonava ovunque, e non v’era modo di contrastarlo, dato lo spazio mediatico che all’illegittimo presidente ucraino veniva concesso. In questa mobilitazione, i trombettieri erano i giornalisti, che incitavano i politici, i più recalcitranti in fondo erano i militari, soprattutto quelli che qualche cognizione di che cosa sia una guerra moderna avevano, o per esperienza sul campo, o per studi specifici.

  1. La storia più si usa meno si conosce 

Dal dibattito pubblico, storici bons à tout faire (e àt tout dire), si prestavano volentieri a dire quello che i gazzettieri volevano dicessero, a confermare la malvagità di Putin, la diversità della Russia (nel senso di arretratezza irrimediabile e di asiatismo congenito, insuperabile)  aspiranti a diventare anchormen televisivi, politici professionisti che brigavano per diventare “firme” delle grandi testate, docenti universitari che nutrendo l’ambizione almeno di un sottosegretariato o di un posto in un CdA, edificavano una carriera di opinionisti televisivi, rivelando quanto in basso fosse sceso il sistema di reclutamento universitario. Il sistema delle porte girevoli osservato e denunciato dai sociologi più acuti (per tutti il compianto Luciano Gallino), tra politici e amministratori di banca o presidenti di fondazioni, e così via, si andava allargando a giornalisti che volevano diventare deputati, professori che sognavano il ruolo complementare di editorialisti, e così via, in un girone infernale, nel quale le “competenze” (perlopiù sedicenti), si smarrivano nell’opinionismo, gli orientamenti politici diventavano semplici, goffe coperture di scelte fatte a monte da qualcun altro, l’autorevolezza era mera autoreferenzialità, supportata da giornalisti compiacenti…

Pochi, pochissimi temerari provavano a resistere al torrente fangoso che cancellava la verità, fornendo una lettura politica di comodo, schiacciata su un indefettibile presente, come se il 24 febbraio 2022 (o in Israele il 7 ottobre 2023) rappresentassero un inizio che non trova spiegazioni nel passato. Era in tali casi pronti a scattare la mannaia della censura o quella della damnatio, attraverso l’ingiuria, il sarcasmo, l’insinuazione (ti paga Putin?), l’aggressione verbale, la minaccia.  Si andava saldando un asse propagandistico possente, fra sionismo e russofobia, che recava in sé robuste tracce di anticomunismo, perché, in fondo, per il professore come per il gazzettiere, la Russia “è sempre quella roba là”. Del resto Volodymir Zelensky che abbraccia Benjamin Netanyahu, fornisce anche la rappresentazione sintetica ma immediata della comune appartenenza al “popolo eletto”. E assai sovente coloro che venivano etichettati (non dai politici, ma dai sullodati gazzettieri) come “putiniani” e più recentemente come “trumputiniani” dovevano subire in contemporanea l’infamante accusa di “antisemiti”. 

Non occorreva essere storici del mondo slavo, non era indispensabile essere specialisti della storia russa, e neppure studiosi della geopolitica contemporanea, per comprendere che il 24 febbraio 2022 non era che l’inizio di una fase, di un conflitto iniziato trent’anni prima, con la forzata dissoluzione dell’Unione Sovietica decisa su mandato di alcune cancellerie europee, da tre politici (il presidente russo El’cin, quello bielorusso e quello ucraino), il tradimento di tutte le intese tra URSS e Occidente, l’allargamento della Nato fino alle soglie della Russia, l’armamento segreto dell’Ucraina, il golpe del 2014, l’azione militare condotta proprio da Zelensky contro le popolazioni civili e le città del Donbass, fino all’azione reattiva di Putin, ma in generale, come ho scritto altrove, si trattava di far scattare la classica “trappola di Tucidide”, ossia quando una nazione egemone si accorge della nascita o della crescita di una nazione potenzialmente concorrente (Sparta/Atene), mette in atto ogni azione in grado di provocarne la reazione, in altre parole la spinge ad attaccare, per poterla distruggere. Così è accaduto nel rapporto Russia-Ucraina, ma stando alle conclusioni oggi certe e anzi imminenti ossia la disfatta dell’Ucraina, e la sconfitta dell’Occidente (malgrado gli annunci roboanti di un pugno di irresponsabili alla testa dell’Europa), possiamo anche sostenere che in questo specifico caso nella trappola è caduto che cercava di tirarvi il competitore dentro.

In tale sinfonia discorde emergeva una verità: meno si conosce la storia più si cerca di piegarla ai propri interessi di parte, di partito, di azienda. Il ricorso all’analogia diveniva ossessivo, e gli storici professionali erano in fondo i più restii a farlo, mentre politici e soprattutto gazzettieri ne abusavano, in modo assai disinvolto, anche quando si lasciavano andare ad affermazioni roboanti quanto infondate. Del resto la risoluzione del Parlamento della UE del 19 settembre 2019, che non solo equiparava nazismo e comunismo (omettendo comunque la parola fascismo), ma attribuiva la principale responsabilità del Secondo conflitto mondiale all’Unione Sovietica era stata un punto di non ritorno, rafforzata da analogo documento sul finire del 2024.

VI                Sergio Mattarella, l’uomo sbagliato al posto giusto

In tale pratica si è messo in luce, ripetutamente, e in forma va via più aggressiva, da rasentare e sovente superare l’arroganza, il presidente della Repubblica Italiana, onorevole Sergio Mattarella, il quale nel secondo, improvvido mandato al Quirinale, ha lasciato cadere l’aplomb istituzionale, e ha avuto modo di sciorinare un vero e proprio odio antirusso, accumulando una serie di scempiaggini teoriche, di banalizzazioni e falsificazioni storiche, e pericolosissime affermazioni politiche. Mattarella, in sintesi ha abdicato al ruolo istituzionale, e lo ha trasformato in ruolo immediatamente politico e persino partitico, con una nettissima scelta di campo, sull’asse euroatlantico, e quando Donald Trump ha scompaginato tale asse, Mattarella si è schierato accanto ai peggiori. Ossia i guerrafondai a oltranza, i bellicisti impuniti, i russofobi più accaniti. Ciò facendo, il Presidente della Repubblica ha contribuito in maniera forse decisiva, a recidere il legame storico fra il nostro Paese e il mondo russo, scompaginando una ricca trama di individui, di economie, di libri, di architetture, di opere d’arte, di commerci. Di aiuti reciproci, ma con un netto guadagno italiano. E in questo cul-de-sac Mattarella si è infilato compiendo gesti di sgarbo istituzionale, come quando redarguì l’ambasciatore russo che, di rito, presentava al capo dello Stato le proprie credenziali, o quando recentissimamente ricordando in Giappone le atomiche su Hiroshima e Nagasaki non ha resistito alla tentazione di inviare reprimende e moniti alla Russia, per le sue “minacce” di ricorrere all’arma estrema, omettendo clamorosamente di fare menzione degli Stati Uniti, l’unica nazione ad aver fatto impiego di quell’arma, con conseguenze devastanti ancora oggi presenti nella popolazione.    

Uomo “sbagliato”, perché ha nel suo pregresso una vicepresidenza del Consiglio nel Governo D’Alema, quel governo che partecipò nel 1999 alla ultima distruzione della Jugoslavia, e che da uomo di quel governo espose i nostri militari al rischio dell’uranio impoverito, e negando sempre la causalità fra quella sostanza e i numerosi casi di leucemia. Sbagliato perché invece di invitare al dialogo, al confronto, alla trattativa, come coraggiosamente, incessantemente ha fatto papa Francesco, un vero e proprio contraltare a Mattarella. E non si dica che l’uno rappresenta uno Stato (e come è noto gli Stati non si reggono coi pater noster”) e l’altro una religione. Il Pontefice di Roma e non certo da oggi né da ieri e neppure dall’altro ieri, svolge un ruolo decisamente politico, e lo ha svolto egregiamente in relazione soprattutto alla guerra in Ucraina. Perché il nostro cattolicissimo capo dello Stato non ha tratto un lume, una scintilla, un suggerimento dalle tante parole spese dal Papa, per aiutare a fermare il conflitto? Ma, all’opposto, si è schierato, sempre dalla parte bellicistica, contribuendo a propalare l’insano disegno di “sconfiggere la Russia”.  Quest’uomo sbagliato occupava il posto giusto, perché era un posto che godeva della base solida degli eccellenti rapporti tra Italia e Russia, prima durante e dopo l’URSS. Un posto giusto, perché l’Italia aveva sempre praticato, pur nella ribadita “fedeltà atlantica”, una politica estera di una certa autonomia, da Fanfani a La Pira (un sindaco che di fatto era un ministro degli Esteri ombra), da Moro a Craxi, fino al perfido ma intelligentissimo Giulio Andreotti. Con i suoi deliranti moniti morali, le sue grottesche analogie storiche, con le sue parole dissennate e con gesti fuori luogo, Mattarella ha sperperato un capitale politico, economico, intellettuale enorme. La sua responsabilità rimarrà scolpita nella storia d’Italia, e implica una totale condanna che rimane senza conseguenze, oggi, ma la storia, quella seria, saprà emettere il suo giudizio; di fatto, il cauto Mattarella ha finito per fare compiere un deciso passo avanti al “presidenzialismo”, caro alla destra estrema, oggi al governo del Paese.

VII. Il Grande Inganno 

Si riassume nell’interrogativo retorico proferito da Mario Draghi: “Preferite i condizionatori accesi, o la libertà?”. Fu quello il preciso istante in cui ci sarebbe dovuta essere se non una rivolta di popolo, ormai imbonito dalle favole, ma quanto meno del ceto intellettuale. Invece quel ceto, ha finto di credere, come aveva fatto davanti alla provetta di pseudo-antrace agitata da Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU:  per viltà, o per appartenenza, i chierici tradirono il loro ruolo di servitori della verità (il sacerdos veritatis invocato da Julien Benda, nel 1927, l’intellettuale al di sopra della mischia teorizzato da Romain Rolland nel 1914), e si accomodarono pigramente nelle cucce assegnate loro dai palinsesti televisivi dai menabò giornalistici, quando non addirittura si posero sugli attenti, davanti alle chiamate in servizio dei loro padroni. E abbracciarono come un sol uomo (o una sola donna!) o piuttosto come un sol soldato, le ragioni “ideali” di questa guerra che non ci riguardava affatto, sia rilanciando i messaggi terroristici di una Russia putiniana pronta a russificare l’intero continente, arrivando “fino a Lisbona”; sia tirando in ballo, accanto alle motivazioni territoriali, quelle ideali, ossia, cioè, che questa guerra, un po’ come la guerra del Kosovo,  “noi” dovevamo, noi dobbiamo, noi dovremmo combatterla per ragioni morali, pronti a sacrificare ad esse gli interessi materiali. Kiev, città sconosciuta alla totalità del popolo italiano divenne il nome stesso della libertà, e l’Ucraina – il territorio meno presente nell’immaginario turistico, ma anche nell’ideario degli italiani – divenne sinonimo di democrazia. Quanto all’Europa, scomparsa da tutti i radar nell’ultimo decennio, l’Europa sedicente “unita”, la cosiddetta Unione Europea, deliberatamente sovrapposta e confusa con il Continente, nel momento del cambio dell’Amministrazione USA, e della improvvisa comparsa della parola “pace” nel lessico del nuovo inquilino della White House, pace senza aggettivi (“giusta”, “duratura”, magari certificata dalla UE!), ecco tenta di rialzare, faticosamente, la testa. 

Abbiamo quindi assistito ai conati penosi di ridestare il corpo agonizzante dell’Unione. E i capi di governo, presi a sberle da Donald Trump, e i loro plenipotenziari che non rappresentano altro che opzioni fallimentari si riuniscono confusamente e convulsamente, minacciando di “fare da soli”, di “proseguire negli aiuti a Kiev fino a…” ; fino non più alla vittoria, ma ora soprattutto fino a una “pace giusta e duratura”, secondo le condizioni accennate e poi ritirate e poi riproposte, e poi di nuovo semi-ritirate, segno di una instabilità mentale prima che di una debolezza politica) di un presidente illegittimo, come Zelensky. E chiedono più armi non solo per Kiev, questa la novità, ma “per l’Europa”, sempre giocando sul voluto equivoco tra il continente e i 27 Stati aderenti alla UE. E v’è chi parla di “esercito europeo”, chi di riarmo per tutti, chi sottolinea l’aumento della spesa militare di ciascuno Stato, chi ancora ulula “800 miliardi”… La follia si è impadronita di un intero ceto politico. Ed ecco che risponde il ceto intellettuale, che, però, invece di fare da contraltare, fa da complice, sia pure con l’eleganza di tirare in ballo l’identità europea (come se fosse possibile senza il contributo russo!), o l’antica insopprimibile anima guerriera di noi umani, di noi europei, di noi occidentali? La chiamata alle armi si tramuta in un edulcorata marcia “pro Europa”, minacciata dall’Est russo e dall’Ovest americano. Non si sa se sia peggio l’uno (Putin) o l’altro (Trump). La rinuncia all’esercizio critico della ragione, l’inabissamento del Sapere aude di uno dei progenitori dell’Europa che ragiona, Immanuel Kant è clamoroso. La chiamata alle armi da parte degli intellettuali è, ripeto, cosa già vista nella storia d’Italia e d’Europa, ma almeno i Marinetti, i D’Annunzio, i Prezzolini, persino i Mussolini e compagnia marciante, in guerra ci andavano. I nostri chierici armati sono una penosa parodia di quelle mobilitazioni del 1914. La marcia per l’Europa promossa da chierici e chierichetti al servizio delle loro testate giornalistiche, delle loro reti tv, dei loro padroni,  in definitiva, suona esattamente come la famigerata Marcia dei quarantamila del 1980. Un ritorno all’ordine, una barricata contro la pace (ecco spuntare il neologismo “Nopax”, che fa rabbrividire), una mobilitazione grottesca fuori tempo massimo per rivitalizzare il corpaccione morente, al suono delle trombe, oggi, delle bombe domani. 

A questa pseudo-Europa, a questa mobilitazione indotta, a questa follia che vuole spingersi verso il baratro, diciamo no. E ripeteremo il nostro no fino all’ultimo respiro.


*Storico, già Ordinario di Storia del pensiero politico nell’Università di Torino, ha pubblicato oltre 50 volumi. Ha fondato e dirige due riviste: “Historia Magistra” e “Gramsciana”. Svolge una intensa attività come conferenziere e come opinionista.

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