L’illusione di un mondo unipolare: l’Europa tra Trump e BRICS+

Andrea Fumagalli*

Nei primi mesi di quest’anno, lo scenario geopolitico mondiale è drasticamente mutato. L’arrivo di Trump ha rimescolato le carte e acuito la crisi identitaria dell’Europa come soggetto politico in grado di pesare nel contesto internazionale. 

La crisi dell’Europa

Sempre più l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo “un’espressione geografica” a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa.

Già all’indomani dell’invasione della Federazione Russa in Ucraina, la scelta di politica estera europea è stata chiara. Invece di svolgere un ruolo diplomatico e di intermediazione tra le parti in conflitto, la scelta sciagurata della Commissione Van der Leyen, con l’appoggio di tutti i governi europei nazionali, di destra come di centro-sinistra, di perseguire la più ottusa politica guerrafondaia, per di più in posizione subalterna rispetto alle strategie espansioniste verso Est della Nato in funzione non solo anti-russa ma soprattutto anti-cinese, ha ridotto il peso politico dell’Europa e ne ha, di fatto, sancito il fallimento sul piano internazionale. 

SI tratta di tracollo che ha radici lontane e che sconta il peccato originale alla base dello stesso processo di costruzione europea: lo strabismo ideologico che ha accompagnato l’adozione delle politiche monetariste negli anni Ottanta e Novanta. Si tratta di politiche che hanno avuto, come primo obiettivo, il controllo del tasso d’inflazione. In realtà, lo scopo di questo disegno iniziale è stato riportare il mondo delle imprese a livelli accettabili di profittabilità grazie alla compressione dei costi del lavoro, alla contemporanea diffusione della condizione di precarietà e allo smantellamento dei sistemi nazionali di welfare. Insomma, l’Europa ha riaffermato la centralità della logica del profitto pagando un caro prezzo: il venir meno della coesione politica e sociale europea.

Aver perseguito l’Unione Europea solo dal punto di vista monetario ha infatti aumentato le fratture nazionalistiche all’interno del vecchio continente, annichilendo il più piccolo sussulto di solidarietà, come ben evidenziato dalla crisi dei debiti sovrani del biennio 2011 – 2012; ha acuito i differenziali territoriali tra un’Europa Centrale e un’Europa periferica-mediterranea; ha fatto aumentare il dumping fiscale e salariale tra i paesi membri; ha di fatto accelerato il grado di instabilità, già strutturale, del capitalismo contemporaneo finanziarizzato.

La politica economica di Trump

Il nuovo millennio sta vivendo una fase storica fondamentale: la transizione dal vecchio ordine unipolare Made in Usa a un nuovo ordine multipolare. La politica economica dei vari governi americani a trazione democratica ha dovuto fronteggiare all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007-08 due questioni fondamentali per garantire la stabilità e la supremazia dell’economia statunitense: il mantenimento del dominio del dollaro come valuta di riferimento internazionale e impedire che il processo di globalizzazione sfuggisse al controllo del Washington Consensus.

A tal fine, per gli Stati Uniti, il mantenimento dell’egemonia economica degli apparati militari-industriale è strategica, perché è l’unico strumento per impedire il default dell’economia. Al crescente debito interno, causato dalle politiche fiscali espansive di Biden (in seguito all’emergenza Covid), si aggiunge una bilancia commerciale strutturalmente in deficit che necessita un continuo rifinanziamento grazie agli avanzi dei movimenti di capitali. Di fatto sono le economie dei paesi esteri a pagare i debiti Usa e ciò è possibile solo se il dollaro mantiene la sua autorevolezza come valuta di riserva internazionale e le borse statunitensi mantengono la loro egemonia sui mercati finanziari globali. La politica di alti tassi d’interesse (formalmente giustificata dall’aumento dei prezzi in seguito alla ripresa post-covid e alle dinamiche speculative sui prezzi energetici) aveva infatti come primo obiettivo il rafforzamento del dollaro, senza che ciò andasse scapito degli indici azionari. 

A ciò si aggiunge l’adozione, già a partire dall’Amministrazione Biden e prima dello scoppio della guerra russo-ucraina, di politiche protezionistiche basate sul concetto di friend-shoring o di sanzioni: ovvero il consolidamento di relazioni economiche con i paesi “amici” e, contemporaneamente, l’istituzione di barriere di separazione, commerciali e finanziarie, nei confronti di paesi considerati “avversari esteri” (ad esempio minacciando l’istituzione di dazi). L’intento, non riuscito (vedi ad esempio gli effetti perversi delle sanzioni contro la Russia), era di tenere sotto controllo le catene internazionali del valore, sottraendole, illusoriamente, alla governance cinese e dei paesi BRICS+

La realtà economica che più ha subito in termini economici le conseguenze è stata propria l’Europa. 

L’aumento dei prezzi energetici ha messo in ginocchio le economie più importanti dell’Europa a partire da Francia e Germania, ha compresso ulteriormente i salari reali e la domanda aggregata e ridimensionato i già timidi segnali di ripresa economica.

L’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha accelerato il processo già in corso di ristabilire il primato Usa a livello globale. Per garantire la supremazia del dollaro come valuta di riferimento internazionale, diventa necessario operare almeno su tre livelli: finanziario, logistico, tecnologico.

Sul piano finanziario, gli indici di borsa statunitensi da quando è stato eletto il duo Trump-Musk hanno registrato i massimi storici. Ma tale situazione non potrà durare in eterno e il rischio è che scoppi una nuova bolla speculativa con effetti disastrosi sulla tenuta del dollaro. Per evitare questo è possibile che la nuova amministrazione americana converga verso l’istituzionalizzazione di una criptomoneta (una stablecoin, ad esempio) che svolga la funzione di “ancora di salvataggio” a protezione del dollaro (e non semplicemente bene rifugio, come l’oro).

Sul piano logistico, le dichiarazioni di Trump sul Canale di Panama, sulla futura annessione della Groenlandia, sul piano di ricostruzione di Gaza e la richiesta di indennizzo all’Ucraina svelano l’intenzione di competere in modo più deciso con la Cina nel controllo delle reti di trasporto e nell’estrazione di quei minerali (dal litio, al tungsteno, alle terre rare) che sono oggi fondamentali per l’innovazione tecnologica.

Sul piano tecnologico, è in atto una dura competizione, sempre con la Cina, sull’Intelligenza Artificiale, sui nuovi algoritmi di terza generazione (in grado di incrementare i processi di automazione, in diversi campi, a partire dal trasporto), sulle bio-tecnologie, sulle tecnologie verdi e sulle tecnologie di calcolo.

Sul piano politico, il volta faccia di Trump nei confronti del governo Ucraino rappresenta un’altra mossa sullo scacchiere internazionale. Seguendo la vecchia logica del “divide et impera”, la nuova amministrazione ha più interesse ad allontanare la Russia di Putin (con la cui ideologia sovranista e reazionaria Trump ha molti punti in comune) dall’abbraccio della Cina: un abbraccio che era cresciuto di intensità, grazie anche alle sanzioni imposte all’economia russa. Soprattutto in un momento dove il più fedele alleato di Kiev, in nome di supposti ideali di libertà – l’Europa – non ha alcuna capacità politica di dettare l’agenda internazionale.

Se il leader ucraino Volodymyr Zelensky è stato sacrificato sull’altare dello scontro internazionale tra economia Usa e economia dei BRICS+, con una certa corresponsabilità in seguito all’insistenza della richiesta di adesione alla NATO, le strategie dell’Europa sono da subito apparse caratterizzate da velleitarismo servile nei confronti della Nato, sterile ideologismo, completa mancanza di autonomia e di prospettiva comune

I nodi del conflitto geopolitico

Il tentativo di Trump di “Make America Great Again” tuttavia deve affrontare alcuni nodi di fondo che rendono l’obiettivo difficilmente perseguibile. Proviamo ad analizzarli.

Riguardo il ruolo del dollaro come ancora di salvezza per il finanziamento del debito interno ed estero degli Usa ed evitare il rischio di default o lo scoppio di una nuova bolla speculativa sono in atto dei cambiamenti che ne minano l’egemonia. Come già scritto in un articolo su questa stessa rivista, le sanzioni alla Federazione Russia, comminate da Europa e Usa, hanno avuto paradossalmente l’effetto di indebolire potenzialmente il dollaro come moneta principe dei pagamenti internazionali. Infatti, l’esclusione della Russia dal sistema Swift (basato sul dollaro) ne ha ridotto l’utilizzo a favore di nuovi sistemi di pagamento internazionale al di fuori della valuta americana e che hanno interessato soprattutto l’interscambio commerciale tra i paesi BRICS+. Nel corso degli ultimi anni si sono sviluppati sistemi alternativi di pagamento non in dollari soprattutto sul piano degli scambi bilaterali. Per questo, il presidente del Basile, Lula, in vista del prossimo incontro dei paesi BRICS+, che si terrà in Brasile, sta predisponendo una proposta per unificare i diversi sistemi di pagamento non in dollari. Se tale proposito dovese prendere piede, l’egemonia del dollaro tenderà a sminuire, anche alla luce del forte incremento degli scambi commerciali all’interno dei paesi BRICS+. 

Tale situazione è ulteriormente aggravata dalla politica protezionistica di Trump. L’introduzione di dazi rischia di creare una situazione recessiva a livello globale (si stima un possibile effetto sul PIL mondiale pari a-1,5%), con conseguenze sulla stessa economia Usa e quindi il rischio di innescare aspettative negative sui mercati azionari e quindi sullo stesso dollaro.

La possibilità che tale politica possa colpire in misura maggiore i paesi in surplus commerciale e quindi creditori verso gli Usa (guada caso, proprio i paesi contro cui tali dazi sono rivolti, in primis Cina) è concreta per l’Europa ma assai remota per la Cina e i paesi BRICS+, che presentano u  maggior grado di differenziazione geografica nel loro export

Ad esempio, il commercio bilaterale tra Cina e Africa è enormemente cresciuto a partire dai primi anni Duemila. Nel 2008 supera per la prima volta i $ 100 miliardi. Nel 2015 il suo valore stimato era di $ 200 miliardi, raggiungendo un picco che sarà superato solamente nel 2021 durante la ripresa post Covid-19. Attualmente, il valore supera i 250 miliardi di dollari.  Dal 2019 la Nigeria è stato il maggior importatore di beni cinesi, dopo Sudafrica, ed Egitto, che (con la Nigeria) insieme assorbono circa il 40% delle esportazioni cinesi. Diventa quindi politicamente rilevante la richiesta della Nigeria (il paese africano più popoloso) di entrare nell’area dei paesi BRICS+. SI tratta di diversi segnali che possono minare il primato finanziario Usa.

Tale situazione è anche l’esito del primato cinese nella logistica delle merci. 

Per contrastare tale processo, come abbiamo già osservato, l’amministrazione Trump sta cercando di recuperare e monopolizzare nuove rotte flussi del trasporto minerario e nel controllo delle principali fonti minerarie (dalle terre rare al tungsteno). Ma proprio recentemente, due fatti sembrano andare in senso contrario. Il 15 novembre 2024, è stato inaugurato in Perù il mega-porto di Chancay, costruito dalla Cina. Situato a 78 km dalla capitale Lima, il grande hub marittimo dovrebbe attirare circa tre miliardi di euro in investimenti, creando una rotta diretta attraverso l’Oceano Pacifico ed espandendo l’influenza di Pechino in America Latina: un’influenza che oggi ha già ampiamente superato quella statunitense.

Il 3 marzo 2025 è stato siglato un accordo per circa 19 miliardi di dollari tra Blackrock (uno cddei maggiori fondi di investimento su scala globale) e la CK Hutchinson di Hong Kong per la creazione di una joint venture per la gestione comune del Canale di Panama con l’acquisto dei porti che si trovano alle due estremità del Canale di Panama. Se da un lato tale operazione consente agli Usa di entrare nel controllo del Canale, dall’altro rende impraticabile la possibilità per gli Usa di appropriarsi unilateralmente dell’intero canale, come dichiarato dal neo-presidente Trump. 

Sul piano tecnologico, la sfida sull’Intelligenza Artificiale è ancora del tutto aperta, dopo il lancio della nuova start-up cinese DeepSeek, che rischia di diventare un letale competitore per il monopolo finora detenuto dalla Silicon Valley e, in particolare, da Nvidia.

La partita è ancora del tutto aperta ma la tendenza verso un mondo multipolare, ancora tutto da definire, sembra oramai inarrestabile. Con buona pace di Trump e Musk.


*Insegna Storia dell’Economia Politica e Teoria dell’Impresa all’Università di Pavia e Eco-social Economy alla Libera Università di Bolzano. È vice-presidente del BIn-Italia (Basic INcome Network) e partecipa al blog di Effimera.org, critica e sovversione del presente

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