Genova 2001-2021

Alessandra Mecozzi*

Una strada lunga e accidentata

La strada verso Genova, in occasione del G8 2001, ha origini lontane, nel tempo e nello spazio. Nel 1994 una piccola comunità indigena, gli Zapatisti in Messico, inviò al mondo il suo messaggio di dignità e orgoglio, di ribellione contro il modello economico politico neoliberista (il 1° gennaio entrava in vigore il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada).

Gli zapatisti insorsero, e la questione indigena diventò di attualità. Un’utopia concreta. Quattro anni dopo, la vicenda dell’AMI, ascesa e caduta dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti, con negoziati segreti all’ombra dell’OCSE e protagoniste le aziende transnazionali, ingorde di profitti, che rivendicavano la cancellazione di diritti umani, ambientali, del lavoro, sanciti dagli Stati, come condizione per i loro investimenti. La campagna scatenata online da diverse Ong mise l’AMI fuori combattimento.

L’anno successivo, a Seattle, nella Conferenza Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, venne messa sotto accusa la mancanza di trasparenza e democrazia dell’OMC. L’enorme manifestazione del 30 novembre 1999 colpi tutto il mondo: movimenti sociali, gruppi, associazioni, sindacati. Uno slogan inusuale associava mondo ambientalista e operaio «tartarughe e metalmeccanici, finalmente uniti».

Il 1999 fu un anno drammatico: la guerra NATO contro la Serbia, a cui, il Governo D’Alema, non si sottrasse. La Fiom con il segretario generale Claudio Sabattini, si pronunciò subito contro, e partecipò alla grande manifestazione il 2 aprile, a differenza della Cgil che la definì una “contingente necessità”.

Fu anche l’anno in cui il leader curdo, Abdullah Ocalan, fu costretto ad andarsene, dopo aver trascorso in Italia 65 giorni, sostenuto da migliaia di curdi arrivati a Roma da varie parti d’Europa, e il 15 febbraio fu catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi in Kenya, e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nell’isola turca di İmralı, dove è ancora oggi.

Da Porto Alegre a Genova

Ma l’inizio del 2001 si apriva sotto buoni auspici, con il Primo Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre, in Brasile. Un’esperienza nuova dove migliaia di persone discutevano di alternative: di produzione di ricchezza e riproduzione sociale; di accesso alle ricchezze e alla sostenibilità; di ruolo politico della società civile e dello spazio pubblico. Terreno di coltura erano proprio state le mobilitazioni precedenti in Europa e nel mondo, e la straordinaria Marcia Mondiale delle Donne dell’ottobre 2000. Si rompevano le frontiere nazionali. Nasceva, come attore globale della lotta al neoliberismo, il movimento dei movimenti.

Era affascinante e promettente questo incontro di soggetti e culture diverse: dai vari sindacati al femminismo all’ambientalismo, una inedita “convergenza” dove vigeva l’imperativo della contaminazione tra culture politiche “per un altro mondo possibile”. Venne presentato il progetto del Genoa Social Forum (GSF) in luglio, di cui anche la Fiom decise di far parte, con i temi dei diritti del lavoro e della critica alla globalizzazione, la cui nocività già si sperimentava nelle fabbriche, con le delocalizzazioni, l’abbassamento dei diritti e i rischi di perdita di migliaia di posti di lavoro.

In una iniziativa internazionale successiva coinvolgemmo la Marcia mondiale delle donne, vari sindacati come quello dell’auto in Usa UAW, NUMSA Sud Africa, KMWF Corea del sud, Sindacati di Francia, Spagna, Portogallo, Comitato scienziate/i contro la guerra, CNM-CUT Brasile, rete antiG8 Genova, delegato General Electric, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, i Segretari generali delle federazioni europea e mondiale.

Il popolo metalmeccanico, era nel pieno di una dura lotta per il Contratto nazionale, la prima dentro la globalizzazione e la nascita del movi- mento “no global”, sotto attacco di Confindustria e Federmeccanica, che tentavano di cancellare la libertà di contrattazione. Alla firma separata del contratto da Fim e Uilm, la Fiom rispose il 6 luglio con uno sciopero nazionale per la piattaforma unitaria e in alcune manifestazioni parlarono anche esponenti del GSF: una nuova alleanza.

Le assemblee preparatorie del Gsf, a Genova si svolgevano tra notizie “terroristiche” veicolate dai media, e progressiva militarizzazione della città, la costruzione della zona rossa che isolava rendendolo inaccessibile il centro di Genova. Si sentiva parlare di “ala militare della protesta e di guerriglia con armi non convenzionali fino ai famosi palloncini con sangue infetto!”

Da giugno era in carica il Governo Berlusconi. Il GSF era impegnato a realizzare il programma, nel rispetto del patto di lavoro: contro la non legittimità del G8 a prendere decisioni per tutto il mondo; per il carattere pacifico della protesta,

Il successo della grande allegra e colorata manifestazione del migranti del 19, sembrava aver fatto calare la tensione in città. Il giorno successivo ci saremmo distribuiti in piazze tematiche. Giravano le voci di arrivi di gruppi di “Black Bloc”, anche da altri paesi. Il pensiero andava alle violenze poliziesche, a Napoli nella manifestazione del 17 marzo e a Goeteborg dove un ragazzo di 19 anni, Hannes Westberg, era stato gravemente ferito da un poliziotto, alla manifestazione anti vertice EU-Stati Uniti del 15 giugno.

In quei giorni, avevo molto apprezzato quella forma di lavoro insieme, diversa dal normale lavoro collettivo sindacale, di discussione, mediazione, compromesso. Eravamo in molti a non conoscerci, con storie e culture diverse, dalle tute bianche alle femministe, dalla rete Lilliput ai Cobas. Ma si riusciva a discutere e anche a trovare soluzioni ai tanti problemi, in un sistema organizzativo che si preparava ad accogliere almeno 100.000 persone, sotto molte pressioni. Mi ero resa conto di quanto non fosse semplice per una organizzazione sindacale industriale centenaria, segnata dalle culture del lavoro e della organizzazione proprie del Novecento, misurarsi con altre culture, radicate in realtà diverse. Nello stesso tempo sentivo, soprattutto tra i giovani, un grande interesse per la migliore tradizione operaia e sindacale: solidarietà e coraggio nella lotta per i diritti del lavoro, apertura all’ascolto.

Pensando “positivo”, il 20 luglio mi trovai, con molti/e altri/e di Fiom, Cgil, Arci, Attac e altre associazioni in Piazza Dante, la nostra piazza tematica, a ridosso della alta rete che circondava la zona rossa.

Volavano oltre la rete i palloncini, simbolico ingresso nella zona rossa, e arrivavano voci di scontri e di attacchi della polizia in altri luoghi. Decidemmo di tornare verso piazzale Kennedy dove ritrovarci tutti.

A Piazza Kennedy ci attendeva la notizia peggiore che potessimo immaginare: un ragazzo ucciso da un carabiniere in Piazza Alimonda. Era Carlo Giuliani. Dolore, rabbia diffusa, desideri di vendetta…

La sola risposta poteva essere la grande manifestazione del giorno dopo, ma serpeggiavano voci che ne chiedevano l’annullamento. In una riunione tesa ed emozionata, venne presa la decisione giusta: non ci si sarebbe ritirati. Anzi, bisognava far si che la manifestazione fosse davvero oceanica. E che gioia veder arrivare il 21 migliaia di metalmeccanici e metalmeccaniche! Il grande sciopero per i diritti e la democrazia del 6 luglio contribuiva a far sentire anche questa lotta come propria.

Erano giorni di emozioni altalenanti, dall’angoscia alla gioia, fino all’entusiasmo per l’enorme corteo e la solidarietà della città, fatta anche di secchiate d’acqua per alleviare il caldo! Dalla gioia alla paura, all’incertezza, quando si sentiva di scontri in corso. I pacifici manifestanti venivano attaccati violentemente dalla polizia, mentre gruppi violenti si scatenavano indisturbati in città.

Verso sera, il gruppo della Fiom nazionale, ricomposto, arrivò in albergo, esausto, ma scampato alla violenza bestiale e diffusa, agli arresti, alle torture di cui avremmo saputo dopo, anche da nostri compagni/e. Su suggerimento del portiere guardammo subito la Tv: una massa di carabinieri davanti alla scuola Diaz, qualcuno portava giù sacchi neri.

Immagini indimenticabili come la voce concitata che parlava di una irruzione nella scuola da parte delle “forze dell’ordine”. Con un compagno, Lello Raffo, andammo in macchina lì, dove i carabinieri che circondavano la scuola impedivano l’accesso. Rabbia e angoscia di nuovo, non sapendo che succedeva. Le tracce le vedemmo la mattina dopo, quando entrammo nella Scuola Diaz. Caos e devastazione, macchie di sangue sul muro e per le scale: sconvolgente, come le notizie successive, le violenze sugli individui arrestati, le torture nel carcere di Bolzaneto; scene terribili che migliaia di videocamere e macchine fotografiche di partecipanti avevano ripreso, mostrandone al mondo l’ orrore.

Venti anni dopo penso che, a fronte di quella violenza di Stato, i fondamenti dell’esperienza del Gsf continuano ad avere un senso incancellabile: la riapertura di un grande processo democratico fondato sulla responsabilità personale e l’impegno collettivo; essere parte di un processo di confronto con al centro la questione della lotta per i diritti e un altro mondo possibile, sempre più necessario, per determinare la vita politica e sociale in Italia e nel Mondo; la scelta della nonviolenza.

Apparvero evidenti le responsabilità politiche di Governo e “forze dell’ordine”, ma solo in parte vennero riconosciute.

Sull’uccisione di Carlo rimangono ancora oggi solo parziali verità e giustizia. Quella ferita, e il dolore dei genitori e della sorella di Carlo, non si cancellano. Forse solo alleviati dalla solidarietà e dall’ affetto che li ricoprì, che ancora dura e sarà a Genova nel 2021. Quell’esperienza unica e tragica, cambiò in vari modi la vita di tanti. Haidi Giuliani divenne infaticabile e amata messaggera della richiesta di verità e giustizia.

Chi sperimentò direttamente o indirettamente la violenza di Stato e la sospensione dei diritti fondamentali di ogni cittadino/a, non dimenticano.

Tanti di noi, prima generazione dopo il fascismo, poterono constatare come anche in un paese democratico sia possibile la repressione, molto vicina al fascismo, di diritti fondamentali, di manifestazione e di pratica democratica. Ma nello stesso tempo imparammo la necessità di pensare e agire insieme prendendo forza dalle differenze, senza venir meno al proprio radicamento sociale e culturale.

Vennero espresse la determinazione e il coraggio di chi, in Italia e nel mondo, credeva profondamente nella necessità di agire, contro processi politici ed economici che avrebbero portato a un mondo più diseguale, a un aumento dello sfruttamento e della povertà, alla crescita di regimi nel mondo, alla guerra contro i/le migranti. Era ed è giusto ribellarsi all’avanzare di un mondo dove vince la legge del più forte. E penso che se, dopo vent’anni di cambiamenti, di frammentazione sociale, di estensione delle guerre, di disastri climatici, fino alla distruzione operata dalla non immaginabile pandemia, oggi rimangono desiderio e volontà di denunciare i responsabili di quei processi letali e di cercare alternative, lo dobbiamo anche ai giorni di Genova 2001.

Per questo mi auguro che anche le nuove generazioni conoscano, e si confrontino con quelle vicende, ne traggano la volontà di continuare il lavoro per un mondo più giusto, alimentando una indistruttibile speranza.


* Alessandra Mecozzi ha militato per 41 anni nella FIOM, di cui gli ultimi 15 come responsabile internazionale; i precedenti tra Torino e Roma, in attività di organizzazione e contrattazione.


Immagine in apertura articolo da www.cgilmodena.it

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