Una nuova pianificazione e autogoverno dei “produttori”

Giovanni Russo Spena*

Il populismo tecnocratico

Mattarella, braccio esecutivo dell’Unione Europea, ha imposto un “gabinetto di guerra”. Sono netto oppositore, anche in difesa della Costituzione, di un governo che rappresenta la connessione tra cesarismo, populismo e tecnocrazia, un inedito per il sistema politico italiano. Nasce un preoccupante “organicismo totalitario”. Chi è fuori da questo arco, che sostituisce quello costituzionale, è emarginato e politicamente non deve esistere. È ora, mi pare, di rimettere al centro due concezioni classiche della politica (per troppo tempo rimosse): l’“opposizione” e il “pubblico”. Intese dialetticamente sono un vero progetto politico alternativo.

Il popolo è privo di rappresentanza, di partito, di un sindacato di massa degno, di una soggettività organizzata non esile. Cresce, quindi, l’arroganza padronale (con il centrosinistra che fa la parte dell’”utile idiota”): non esiste più conflitto di classe; ha vinto la lotta di classe “dall’alto”, come ci ricordava Gallino, e quindi la dicotomia destra/sinistra è un’anticaglia. Il nuovo populismo padronale passa attraverso lo scontro tra “competenti” ed “incompetenti”.

Prevale, in forme inedite, un totem classico dell’ideologismo borghese: l’oligarchia. Altro che post-ideologia. Siamo al trionfo della visione del mondo padronale costituita da dominio culturale e comando sociale del pensiero unico del mercato. Non a caso il governo Mattarella/Draghi è stato qualificato dai poteri dominanti (e relativo sistema massmediatico, docile servitore) come “governo dei migliori”. Il fronte della presunta competenza a trazione tecnocratica trasforma come d’incanto i “peggiori sovranisti” in “migliori europeisti” perché si accucciano, docili, ai voleri della struttura ordoliberista dell’Unione Europea. Il presidente della Confindustria tiene la barra dritta: finalmente la borghesia “deve” riconquistare il primato culturale e morale della “nazione”. L’intendenza (il centrosinistra) seguirà.

L’operazione di omologazione del senso comune è potente, immane e determinata. È superfluo che io ricordi che il Parlamento è il luogo della rappresentanza e non della tecnocrazia. Il conflitto sociale è marginalizzato anche perché i partiti non organizzano più la società ma sono diventati “partiti-stato”. La tendenza al presidenzialismo di fatto ha portato un amministratore delegato alla guida del Paese cioè alla massima espressione della concezione privatistica, poiché impone la visione autoritaria dell’azienda alle strutture pubbliche.

Il “pubblico” si riduce ad assegnare alle imprese le future ingenti risorse pubbliche ed inoltre militarizza (perfino il piano vaccinale) e reprime il dissenso. La pulsione autoritaria è, in questo contesto, strutturale. È in corso il più colossale trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. I padroni si pongono come la sola, vera classe generale. La società diventa, nella stragrande maggioranza sempre più povera, opaca e rancorosa; spesso disperata. Il rapporto classico tra istituzioni e popolo può “sprofondare”. Preoccupano la tenuta ed i livelli della democrazia costituzionale.

Domina Draghi, il grande privatizzatore di Iri, Eni, Enel, Comit, Telecom, l’ispiratore del Fiscal compact, lo strangolatore della Grecia nonché consigliere del Jobs Act renziano. La pandemia ha certamente allentato i vincoli recessivi dell’Unione Europea, ma non ha cambiato i trattati; soprattutto, continua la vocazione privatistica.

Per questo propongo di varare una sorta di “audit”, un controllo ed un conflitto punto per punto, territorio per territorio, progetto per progetto per seguire il percorso di tutti i fondi europei, affinché non vadano al capitale predatorio. Bisogna attaccare “dal basso”, dalla mappa dei bisogni sul territorio. Solo da qui, credo, parte una efficace critica dell’economia politica.

Che sappia rimettere in discussione i rapporti di proprietà e ricostruire i nessi unitari dei conflitti sulla griglia di un grande investimento pubblico (e, di conseguenza, della ricostruzione del sindacato di classe e di massa).

Pianificazione pubblica dell’economia

Non penso a un retorico “ritorno a Keynes”. Ma non credo neppure che “pianificare” significhi progettare una programmazione dell’economia di stampo sovietico negli anni successivi alla morte di Lenin. È stato, del resto, il capitale ad adottare la costruzione dello Stato-piano (penso, tra l’altro, al New Deal) per rispondere alla crescita del comunismo.

Mi interessa molto per il futuro la riflessione di Emiliano Brancaccio: ripensare il “piano” come un dispositivo innervato nella società che assicura la “libera individualità sociale” attraverso la partecipazione dei soggetti e non l’eterodirezione dello Stato: “Avremmo bisogno di un comunismo scientifico nella lotta contro il virus”, aggiunge.

La pianificazione democratica pretende, ovviamente, la ripresa di un nuovo antagonismo di classe. Classe significa la contemporanea composizione proletaria, dal lavoro operaio alla galassia del precariato, della produzione immateriale e cognitiva, alla lotta al patriarcato, al meticciato, all’ecologia politica radicale. La politica classista vive in questo complesso caleidoscopio combattendo sia i disperati isolamenti delle lotte dei vari segmenti tra loro non comunicanti, sia la deviazione (attuata dai sovranismi nazionalisti e dalle tecnocrazie) del conflitto sociale verso la torsione degli “ultimi contro penultimi”.

Inedita centralità ha oggi l’attività di “cura”, dalla formazione alla sanità pubblica, territorialmente omogenea non dimenticando le lotte delle comunità territoriali e per il diritto all’abitare (che significa occupazioni ma anche progetto collettivo per un modello non mercificato di città). Dovremo disegnare, insieme, un nuovo “stato sociale”, universale e meticcio.

Mutualismo e contropoteri

Il mutualismo conflittuale non è assistenzialismo pietistico ma forma di lotta e di organizzazione in un contesto storico in cui la “resistenza” sociale può fare un salto di qualità, tentando di costruire contropoteri, durando nel tempo, addensando massa critica, strappando avanzamenti alle istituzioni, a partire da quelle locali.

Dovremo lottare corpo a corpo, territorio per territorio, sull’allocazione ed assegnazione delle risorse; occorre costruire un controllo quotidiano quota per quota, formare osservatori di esperti e “rossi”. Penso, insomma, ad “audit” popolari che pretendano la co-decisionalità tra associazioni e potere. Altrimenti, come quotidianamente vediamo, Confindustria e governo alimentano, con i fondi europei, esclusivamente i processi di valorizzazione del capitale.

Un esempio di quello che affermo, tra i tanti esistenti, è la splendida esperienza di resistenza e mutualismo della parrocchia pugliese di Angelo Cassano. Le reti sociali e di solidarietà sono luoghi e spazi di libertà. Consolidiamole, “inventando” anche forme inedite di lotta.

Dentro la pandemia, insomma, uno dei principali terreni di lotta è il welfare; più che “quanto Stato?” il tema sarà “quale Stato”? La sfida anticapitalista è la conquista di segmenti importanti di “ricchezza sociale” pertanto sarà centrale la lotta per una migliore riproduzione sociale. Non cadiamo in bolsi economicismi. Parlo dell’attività di “cura”, istruzione, sanità e formazione, la quale si fonda su mille straordinarie attività (quasi sempre trascurate) precarie, pagate malissimo o invisibili.

La “politicizzazione sociale”

Da qui ripartiamo per ripensare la “cooperazione sociale” (Marx), che è conflitto, solidarietà, condivisione. La lotta per l’investimento pubblico deve collegarsi al lavoro politico sull’autorganizzazione sociale. Farneti acutamente sostiene che esistono due volti, come compresenza storica di un “doppio movimento”: da un lato la “politicizzazione della società civile”, dall’altro la “statualizzazione della società ci

vile”; dopo la critica a quest’ultima, parla, con- cludendo, di “politicizzazione sociale”. Pino Ferraris ci richiamava al progetto di una “con- federazione politica delle iniziative sociali” cioè un insieme di autonomia di lotte territoriali (dalla Val Susa a Riace alla “Terra dei fuochi” ai No Tap) e di tratti di programma ed elaborazio- ni comuni. Ricostruiamo, anche teoricamente, i “fondamentali”: dal fecondo ossimoro mar- xiano dell’”individuo sociale” alla formazione dell’”individuo empiricamente universale”. In La guerra civile in Francia, Marx definisce la

Comune di Parigi “una forma politica fonda- mentalmente espansiva contrapposta allo Stato centralizzato, organizzata sulla base di principi assembleari e come espressione dell’autogover- no dei produttori”. Questa è la base del potere costituente sociale, che ci obbliga a ripensare, in definitiva, anche forme e contenuti dell’organizzazione comunista.


* Giovanni Russo Spena, già docente di Diritto Pubblico, ex segretario di DP, è dirigente nazionale di Rifondazione comunista.


Immagine in apertura di IttMust da www.flickr.com

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