Transizione verso la destrutturazione?

Franco Bortolotti*

Le “Italie” differenti

L’impressione di una società incerta, sempre meno coesa, aggrappata a un sistema economico che non da più le risposte sperate, è ormai sempre più diffusa.

Pensiamo che venire a capo di questa situazione, darne un’interpretazione, richieda un ancoraggio storico un po’ più approfondito delle ricostruzioni congiunturali o anche della crisi pandemica e magari di quella precedente dei subprime.

Descriveremo allora alcuni dati sulle trasformazioni quantitative della società italiana, in un arco temporale abbastanza lungo, partendo dalla sua composizione di classe.

Tutto lo sviluppo delle nostre considerazioni si accompagna a una analisi anche di tipo macro-territoriale, perché questa è una variabile non neutrale e non scontata.

Tutto sommato, recupereremo una classica tripartizione del territorio nazionale, che ha ormai molti evidentissimi limiti ma che, a questo primo livello di analisi, è difficilmente sostituibile, comparando le trasformazioni del Nordovest (il “classico “triangolo industriale”) e del “Centro-Nordest” (la piccola impresa dalle Venezie all’Emilia, fino a Toscana-Umbria e Marche; e del Mezzogiorno), allargato al Lazio “terziario”.

Si può ragionevolmente notare la divergenza fra la metropoli milanese terziarizzata e quella torinese che soffre la crisi industriale; la divergenza fra Nordest propriamente detto, risucchiato verso un modello germanico e al tempo stesso piccolo-imprenditoriale, e la Toscana tentata dall’arroccamento sulla rendita turistica e il consolidamento di una filiera francese; la divergenza fra l’arco meridionale adriatico in fase di modernizzazione e quello tirrenico in coma profondo.

Ma, ancora oggi, la riduzione analitica alle tre configurazioni tradizionali ha qualcosa da dirci in più rispetto a qualsiasi altra scomposizione del territorio nazionale.

L’occupazione nei settori e nei territori

I dati su cui ci basiamo riguardano il periodo che inizia nel 1993 (primo anno ricostruito da ISTAT e anno di assestamento dopo gli accordi concertativi del 1992-1993), e ha come ultimo dato il 2020 della crisi pandemica. Introduciamo come elemento intermedio il 2008, ultimo anno che precede l’arrivo effettivo in Italia della lunga crisi. Già negli anni precedenti, l’Italia era il paese occidentale in maggiore affanno, ma dalla crisi del 2008, per molti versi, non ci siamo mai ripresi, e, come si vedrà, cambia qualcosa nel meccanismo e nell’articolazione dello sviluppo.

Fra il 2003 e il 2008 l’occupazione “standard” (cioè dipendente, a tempo indeterminato e a tempo pieno) cresce di 400mila unità, e l’occupazione indipendente diminuisce della stessa cifra; aumenta però, e non di poco (1,6 milioni) l’occupazione precaria (a tempo parziale e/o a tempo determinato). Ma tra il 2008 e il 2020 le variazioni delle due forme tradizionali (“standard”, –600mila e indipendente, +700mila) si sommano in diminuzione e non si compensano più, mentre i precari continuano a crescere, seppure di meno (+1,2 milioni).

I due cicli, accomunati ovunque dalla crescita dell’occupazione precaria, hanno forme diverse nelle tre Italie: nel Nordovest l’occupazione cresce in tutti e due i cicli (di 500mila nel primo periodo e di pochissimo nel secondo), e nel primo periodo vi era ancora una robusta crescita dell’occupazione standard. Il Centro-Nordest (CNE) regge- va decisamente meglio nel primo periodo, con una stabilità dell’occupazione autonoma (che flette di 350mila unità nel periodo successivo) e una certa crescita dell’occupazione standard. Nel Meridione il debole incremento fino al 2008 dell’occupazione standard è subissato da un successivo crollo (–500 mila, con una precarizzazione anche più accentuata che nel resto d’Italia, e da una continua emorragia dal lavoro autonomo).

Non abbiamo spazio per commentare l’evoluzione per macrosettori, ma basti notare che fino al 2008 l’area CNE si caratterizza per una certa espansione dell’occupazione dipendente manifatturiera, che invece nel periodo successivo manifesta una leggera ripresa solo nel triangolo industriale. L’edilizia fino al 2008 vede una crescita nelle regioni CNE, e nel Meridione per la sola componente dei dipendenti; dopo, il crollo dell’occupazione delle costruzioni è generalizzato, ma più accentuato nel Meridione. Quanto al terziario, la sua capacità di creare nuovi posti di lavoro (di solito precari) si riduce a un terzo del valore precedente, ed è intaccata soprattutto al Meridione. In sostanza, i due motori dello sviluppo, manifatturiero (nel CNE) e postindustriale (nel Nordovest) passano da una debole capacità di traino a un periodo di stasi; al Meridione però le tendenze alla stagnazione sono particolarmente evidenti, e manifestano un quadro di generalizzato di degrado occupazionale, quantitativo, ma anche qualitativo.

L’austerità ferma la crescita dell’occupazione più qualificata

Il carattere di svolta degli anni successivi alla crisi del debito sovrano ci è ricordato anche da un grafico che seziona l’occupazione per macrogruppi professionali. Dopo il 2008 la crescita del lavoro operaio è interrotta dalla crisi e, come negli altri paesi occidentali, viene a perdere oltre 250mila unità. Ma lo spostamento verso una struttura sociale “postindustriale” in cui la produzione materiale è ridimensionata a favore delle funzioni di servizio e complesse si interrompe bruscamente nel 2011, primo, e unico, anno, in cui gli impiegati sono più dei lavoratori manuali. Da allora, e contrariamente a quanto avviene in altri paesi, è anche il numero degli impiegati a ridursi (di 500mila unità in un paio di anni, per riprendere a crescere seriamente solo nel 2015, e meno degli operai) e il riallineamento della divisione internazionale (ed europea) del lavoro vede l’Italia relegata alle funzioni meno complesse.

È così che il lavoro operaio cresce, fra 2014 e 2019, di circa 700mila unità (di cui perse, nel 2020, circa 300mila). Nel quindicennio esaminato inoltre viene decisamente ridotto il numero degli imprenditori (da 400mila a 265mila), e anche quello dei dirigenti e quadri, che nel 2020 sono 80mila meno rispetto al 2004. La promessa di opportunità occupazionali qualificate in seguito all’espandersi e ramificarsi dei processi innovativi, o alle opportunità dell’offerta formativa si rivela per quel che è: carta straccia, a fronte di processi di imponente concentrazione proprietaria e di crescita del “lavoro povero”.

Anche il lavoro in proprio (artigiani, commercianti, piccola proprietà contadina) vede un ridimensionamento sostanziale, di 500mila unità fra gli autonomi senza dipendenti, e di 100mila unità fra coloro che si avvalgono di almeno un dipendente. Cresce invece il lavoro dei professionisti, che crescono di 270mila unità (ma fra di essi sono stabili quelli con dipendenti). Vi sono anche ben 300mila collaboratori in meno, ma del resto le collaborazioni furono introdotte come grimaldello contro la strutturazione e le garanzie del lavoro dipendente, e nella misura in cui tali garanzie sono state smontate (dal Jobs Act, ma non solo), togliendo lo scudo dell’art.18 o eliminando le “causali” per assumere lavoro a termine, il lavoro tramite collaborazione diventa superfluo, meno “competitivo”, rispetto, ad esempio, al lavoro a termine senza causali.

Tuttavia, quest’ultima considerazione è anche esemplificativa di un problema più generale: sebbene indispensabile, considerare solo la dimensione numerica, quantitativa, è insufficiente a una analisi delle trasformazioni sociali, perché le grandezze, i fenomeni di volta in volta esaminati tendono a mutare anche se la nomenclatura cui fanno riferimento è la stessa.

L’integrazione sistemica e l’informazione come nuova forza produttiva

I processi produttivi sono investiti in pieno da un processo che può essere definito “integrazione sistemica”; oggi non è rilevante tanto la sostituzione di lavoro con macchine e informazione in una singola fase del processo produttivo, quanto la connessione fra diverse fasi e funzioni, tradizionalmente anche lontane fra di esse, sotto il controllo di sistemi informatici che “capitalizzano” esperienze e competenze. Sistemi sempre più perfezionati permettono la raccolta di informazioni su di un prodotto, anche dopo che è stato venduto, in modo da ottimizzarne le caratteristiche rispetto alle esigenze di profitto dell’impresa produttrice, a sua volta inserita in un circuito informativo che permette alle imprese che gestiscono l’informazione di ritagliarsi rendite crescenti derivanti dall’accumulazione, conservazione ed elaborazione di informazioni sui comportamenti dei consumatori singoli. È un processo a stadi molto diversi in settori differenti, certamente più avanzato in altri paesi, ma già in atto, e pone il problema del controllo sociale del nuovo fattore produttivo, l’informazione, che cresce e si espande attraverso un processo di interazione sociale che i riusciti tentativi di privatizzazione (si vedano i tentativi di “recinzione” delle conoscenze operanti attraverso il controllo brevettuale nel settore farmaceutico) purtroppo rallentano, deviano e ostacolano.

Un punto che mi pare importante è che questo processo non comporta, a parer mio sfortunatamente, una nuova omogeneità del lavoro, tesi sostenuta pure da autorevoli e brillanti economisti.

La precarizzazione del lavoro è ovviamente, dal punto di vista delle imprese, anche un mezzo per rompere l’unitarietà della classe operaia in una miriade di condizioni connotate da tutele “ad hoc”, e un modo per imporre più facilmente livelli salariali indegni ai lavoratori più svantaggiati, incrementando i profitti. Ma non mi sembra che sia obiettivo delle imprese la precarizzazione di tutti i lavoratori, e mi pare ancora operante una linea di segmentazione della forza lavoro secondo diverse funzionalità che essa può avere, di cui in passato è stato un esempio particolarmente chiaro, sia pure con specificità nazionali non riproducibili, il caso giapponese.

Il carattere continuo del processo innovativo fa sì che in ogni momento ci siano segmenti del lavoro più “preziosi” di altri, dal punto di vista del capitale, che conviene alle imprese “coltivare”, estraendone non solo tempo di lavoro (come sempre più è per la massa del lavoro precario) ma creatività, capacità di problem solving, capacità di connettere funzioni lavorative e visione dei processi di lavoro guidati dall’esperienza. Per questo motivo non convincono visioni del precariato come “nuova classe generale”: che è sì una “miniera” di contraddizioni sociali, ma che non può esprimere da solo una capacità di riprogettazione dell’organizzazione del lavoro che richiede la confluenza di segmenti oggi abissalmente distanti, dal “lavoro della conoscenza” alla classe operaia “toyotizzata”, accanto al lavoro precario dequalificato.

Il “dualismo” del mercato del lavoro va affrontato consapevolmente in quanto tale. L’economia nazionale ha componenti, nella media impresa soprattutto, ancora dinamiche e capaci di competere sul piano internazionale. Dai primi anni Novanta a oggi le esportazioni si sono moltiplicate per tre volte e mezzo: una tendenza dovuta in parte alle capacità di fare integrazione sistemica (magari non nelle tecnologie di base, ma in quelle di nicchia), in parte a un fattore di “competitività salariale” che ha anche ovvi aspetti negativi.

L’innovazione trova un limite nelle caratteristiche del sistema produttivo ed è particolarmente arretrata nei comparti terziari, ma al riguardo bisognerebbe riflettere sui limiti e l’assenza di politiche industriali.

Il contenuto sociale del “piano di ripresa” Draghi

Un’ultima notazione riguarda il contenuto, in termini di cambiamento, ri-dislocazione e sviluppo dei vari gruppi sociali, implicato dal PNRR del governo Draghi.

Nel 2021-2022 si prevede un’accelerazione degli investimenti fissi lordi di non meno del 25% (che vuol dire, fra l’altro, grande sviluppo del settore delle costruzioni, del resto favorito anche da misure di politica economica, come il “110%”); nelle condizioni attuali questo si tradurrà certamente in una ripresa del lavoro immigrato che da qualche anno, nonostante la propaganda, è stagnante. In generale però, nell’edilizia ma anche in tutti gli altri settori, come si sta già puntualmente verificando, la previsione è di una crescita concentrata nel segmento precario dell’occupazione.

Gli investimenti privilegeranno la parte più moderna e dinamica delle imprese industriali, accelerando un processo di espulsione delle imprese piccole che si fondano sul lavoro autonomo: su questo Draghi è stato chiarissimo, e ha parlato di “imprese zombie” che non potranno sopravvivere. Un’ondata di ristrutturazioni dovrebbe investire anzitutto il settore terziario, che non potrà più costituire una cassa di espansione dell’occupazione come avvenuto sino ai primi anni 2000.

Anche l’aspetto territoriale del profilo dello sviluppo atteso desta preoccupazione: i ritmi di crescita dovrebbero essere più intensi al Settentrione, quando la soluzione dei problemi dell’economia nazionale richiederebbe una articolazione esattamente opposta, con un’accelerazione più slanciata nel Meridione, a rischio di un’incidenza pesante sulla stessa coesione sociale nazionale.

Del resto, le indicazioni di Draghi in materia di relazioni sindacali sono chiarissime, quando ha elevato ad esempio di coesione nazionale i durissimi anni Cinquanta; ma si rifletta anche su quanto questa visione dà per scontata la subalternità dell’industria nazionale in funzione dei paesi centrali dell’Unione Europea, fra i quali certo non c’è l’Italia.


* Franco Bortolotti, economista, già coordinatore scientifico di Ires Toscana, è stato docente a contratto di Economia Urbana e Regionale presso l’Università degli Studi di Firenze.


Immagine da pixabay.com

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