Gli operai del terzo Millennio

Francesco Garibaldo*, Emilio Rebecchi**

Le nostre ricerche sul campo

Abbiamo iniziato, ventisette anni fa, a indagare, con la metodologia dei gruppi di discussione, la soggettività dei lavoratori. Le nostre indagini non si sono limitate alla soggettività di chi lavora rispetto al proprio lavoro e all’azienda nella quale lavora, ma si sono estese anche a temi esterni al lavoro come il rapporto con la politica, ad esempio.

Nel corso di queste indagini abbiamo lavorato con persone provenienti sia dall’industria manifatturiera sia dal commercio, dai servizi, dai servizi alla persona, dagli ospedali. 

Un’indagine per noi molto istruttiva è stata quella svolta con chi scrive (produce) i programmi software; indagine tesa a indagare la conoscenza e la creatività espresse in tale lavoro e il grado di cooperazione loro richiesta. Nel corso di tale indagine un lavoratore ha usato l’espressione “noi siamo gli operai del III millennio”. Questa espressione e i ragionamenti che l’hanno accompagnata ci hanno incuriosito e interrogato in questi 13 anni passati dallo svolgimento di quell’indagine.

Il nostro punto di partenza è riassumibile nell’interrogativo se la parola “operaio” fosse solo stata usata come una fortunata ed espressiva analogia, o suggerisse qualcosa di meno generico.

Per il lavoratore che l’aveva usata, essa era utilizzata per marcare il passaggio dalla condizione iniziale di “artigiani” a quella di un lavoro secondo “standard” predefiniti, con controlli sulla produttività, con forme di alienazione nel fare il proprio lavoro. Altri partecipanti polemizzarono duramente con questa rappresentazione e con l’uso della parola “operaio” perché “tutto il valore aggiunto che (il softwarista, nota mia) ottiene è nella sua testa e basta, l’organizzazione è importante, tutto quello che vuoi, se tu ti metti davanti a un esterno e fai finta di scrivere un programma, chi è che ti viene a sindacare il tuo programma? Come fa?”.

Per chi ha conoscenza della sociologia industriale questo dialogo ricorda in modo impressionante la discussione tra gli operatori di macchine utensili all’inizio dell’introduzione del “Controllo Numerico”. Per chi ha conoscenza degli sviluppi dell’industria del software è chiaro che i contestatori avevano torto, ma il punto interessante è che i contestatori usano come criterio distintivo tra loro e l’operaio la modalità di produzione del valore aggiunto, non mettono cioè in dubbio che il loro lavoro produca valore aggiunto e che esso venga incorporato dall’azienda, solo la modalità è diversa; tra loro e l’operaio.

Un lavoro operaio?

Questo dialogo ci ha spinto a porci la domanda: che cosa si intende dire quando si dice che uno svolge un lavoro operaio?

Vi sono ovviamente molte possibili risposte. Secondo larga parte del pensiero sociologico la definizione di operaio deriva o dalla sua posizione sul mercato del lavoro, caratterizzata da una ristretta disponibilità di risorse da offrire sul mercato, da mettere sul mercato, cioè abilità semplici e prevalentemente manuali; oppure dallo svolgere una professione manuale che si svolge in una fabbrica e/o comunque sottoposta alle regole tipiche di una grande organizzazione. Queste concezioni giustificano l’idea del superamento delle classi sociali e dell’avvento di società basate sullo status, cioè sulla posizione sociale del singolo. Singolo che compete con gli altri su un piede di parità. Parità che nascerebbe dai comuni diritti di cittadinanza e dal livellamento delle condizioni di partenza. Il livellamento dovrebbe essere garantito, ad esempio, dall’istruzione universale.

Noi non vediamo tracce della scomparsa delle classi sociali che, al contrario, ci sembrano più vive che mai, e, richiamandoci a Marx, pensiamo che la definizione di “operai” riguardi il rapporto tra i capitalisti e i lavoratori, non quindi le competenze sul mercato del lavoro o la natura della professione. Come è noto, per Marx, il rapporto tra Capitale e Lavoro è un rapporto sociale basato sul fatto che il Capitale, attraverso il Lavoro e la conseguente produzione e vendita sul mercato delle merci, si riproduce e acquista valore, un valore maggiore di quello iniziale. Per questa ragione, in un passaggio dei Grundrisse, Marx dice che l’operaio è colui che valorizza il capitale e cita una frase di Malthus molto chiara: “Lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente la ricchezza del suo padrone”. Il fatto che poi Marx, ne Il Capitale, analizzi la grande fabbrica industriale come il luogo per eccellenza della materializzazione di quel rapporto sociale nulla toglie alla natura generale di quella definizione.

Il sindacato, operai ed impiegati

Non è un caso che nella storia del movimento sindacale, in Inghilterra e in Germania, poi negli USA e in Giappone, uno dei problemi chiave è stato quello di riuscire a organizzare insieme gli operai specializzati, che si consideravano più vicini a degli artigiani, e gli operai comuni, i proletari per eccellenza; più vicino ai giorni nostri si è presentato il problema del rapporto tra operai e impiegati nei processi industriali. La riflessione quindi di quegli informatici ci ripropone plasticamente, oggi, un tema antico, e continuamente risorgente, lo scarto tra la soggettività e l’obiettivo rapporto sociale cui essi partecipano. Scarto che non riguarda solo i singoli lavoratori ma anche le organizzazioni sindacali che affrontano, con analoga ricorrenza, il problema dell’estensione della platea di coloro che dovrebbero essere organizzati e di come ricostruire concretamente gli elementi di unità tra di loro, contro quelli della divisione e della individualizzazione. Problema, tra gli altri, che quando non viene risolto porta alla loro burocratizzazione e poi al loro declino. Il Capitale, quindi, include sfere sempre più ampie dell’attività umana nel proprio processo di valorizzazione.

Il lavoro precario e il processo di soggettivizzazione

Il lavoro precario dei giovani oggi, anche se svolto al di fuori delle grandi organizzazioni e non di tipo industriale, è in larga parte un lavoro produttivo in senso proprio, cioè di valorizzazione del capitale, di chi possiede e controlla tale processo; mentre, ad esempio, il lavoro di tanti artigiani che forniscono prestazioni di servizio, persone, “sociologicamente” parlando, più vicine alla condizione operaia, non è un lavoro produttivo per il Capitale. Si tratta di un’affermazione che va contro il senso comune ma produrre cose inutili e/o di lusso in una rete aziendale capitalistica, situazione oggi molto diffusa, è lavoro produttivo, produttivo per il Capitale, mentre svolgere attività socialmente utili in forme non capitalistiche, non è un lavoro produttivo per il Capitale.

Il paradosso d’altronde come voi ben sapete è lo stesso della contabilità del Prodotto Interno Lordo (PIL). Il PIL, infatti, comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le testate nucleari, ed altre cose se non negative quantomeno inutili. Il lavoro precario oggi non è solo conseguenza delle leggi di deregolamentazione del mondo del lavoro. Esso, infatti, serve come uno degli strumenti per cercare di risolvere la contraddizione fondamentale che il Capitale deve affrontare. Sin dagli albori del capitalismo industriale, infatti, il processo di valorizzazione è impossibile senza il contributo dei lavoratori che, anche nelle sue forme più elementari e nelle condizioni di lavoro più degradate, è il frutto dell’esercizio di una disciplina del lavoro che è mediata dalle forme dell’organizzazione della produzione e del lavoro.

Se, quindi, i lavoratori sono obbligati al lavoro subordinato perché non hanno altre possibilità per vivere, in ogni lavoro è necessaria una qualche forma di investimento soggettivo. Questa esigenza è oggi massima in molte occupazioni precarie dei giovani, ad esempio nelle attività legate alla cultura, alla ricerca e alle tecnologie della informazione e della comunicazione e alle produzioni per l’intrattenimento multimediale.

In queste attività, infatti, si realizzano i paradossi della soggettivizzazione. I lavoratori soggetti di questi paradossi sono quelli analizzati in tante ricerche italiane sul lavoro autonomo, cioè quelli che lavorano troppo, dieci, dodici ore ed anche di più, quelli che si portano il lavoro a casa e in vacanza, in sostanza coloro che lavorano senza limiti. Si parla di soggettivizzazione perché è evidente che la ragione di fondo di questo lavorare senza limiti sta nel fatto che essi si identificano con il loro lavoro ed il loro desiderio profondo è quello di realizzarsi nel lavoro. Dove stanno i paradossi? Nel fatto che lavorando in questo modo essi sono destinati a “scoppiare” (burn out) prima dei 45 anni e quindi a minare ciò che essi considerano così prezioso; inoltre spesso questo assorbimento totale nel lavoro indebolisce o rompe i legami sociali sia sul lavoro che fuori dal lavoro, infine spesso la condizione lavorativa complessiva di questi lavoratori è quella di uno scambio improprio tra una relativa autonomia operativa e condizioni di lavoro precarie sia nel senso della stabilità della relazione di lavoro che delle condizioni lavorative.

La contraddizione del Capitale

Il precariato di massa, quindi, è uno strumento necessario per il Capitale di controllo, disciplinamento della forza-lavoro in settori sempre più ampi del mondo del lavoro, comprese larga parte delle vecchie professioni liberali e parte delle nuove attività legate alla finanza creativa, nonché per la manipolazione della ricerca di una soggettività da parte delle nuove generazioni.

Così facendo il Capitale sposta la sua contraddizione fondamentale a un livello ancor più centrale, per il funzionamento del sistema capitalistico, e ancor più “universale”, coinvolgendo cioè l’insieme della vita e delle relazioni sociali, oltre il mondo del lavoro dipendente. Lo sviluppo della produzione e della ricchezza sociale dipendono sempre di più dalla crescita della socializzazione di tutte le attività e dallo sviluppo della scienza e della tecnica e rendono paradossalmente, come osserva Marx, il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, e il tempo che egli lavora sempre meno importanti rispetto alla sua esistenza come corpo sociale. Il capitalismo insomma deve misurare la ricchezza prodotta sulla base del tempo di lavoro del singolo, tempo di lavoro, che viene sempre più allungato (durata) e reso più denso (intensità) allo stesso tempo. Ecco, quindi, dice Marx, che

“Esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata”.

Il capitalismo, in altre parole, diviene un limite allo sviluppo della società ed al pieno utilizzo delle sue potenzialità; posizione non dissimile da quella espressa da Keynes.

L’estensione del mondo del lavoro dipendente

La nostra prima riflessione, quindi, è che il mondo del lavoro dipendente, al di là della forma giuridica dei contratti, si è enormemente esteso. Per essere ancora più chiari, il mondo di chi deve accettare un rapporto di lavoro dipendente, anche se non nella forma giuridica di un contratto di lavoro, perché non ha alcuna alternativa, se non quella, si è enormemente esteso. Ciò è avvenuto nel mentre la disgregazione, sino alla esplosione atomistica, delle relazioni sociali nel mondo del lavoro sta raggiungendo livelli che, per alcuni versi, ricordano l’800.

La nostra seconda riflessione riguarda la natura stessa della società capitalistica che attribuisce valore solo a ciò che valorizza il Capitale e non a ciò che è socialmente utile, quando non necessario, alla valorizzazione della nostra socialità, alla costruzione dell’eguaglianza, alla ricerca della conoscenza e di ciò che piacevole e/o bello, ecc.

L’inclusione di sfere sempre più ampie di attività umana nel processo di valorizzazione, l’investimento soggettivo, il lavoro senza limiti, la soggettivizzazione del lavoro, l’aumento della durata del tempo di lavoro e l’aumento della densità dello stesso (condensazione), contribuiscono a creare un nuovo tipo di uomo, per molti aspetti più “maturo”, se così possiamo dire, rispetto al passato anche recente, ma anche più fragile.

Un uomo che è terribilmente esposto alle vicende, alle modificazioni del contenuto del lavoro, continuamente illuso dalle sirene capitalistiche, e sempre disilluso dalla realtà.

Questo stesso uomo, così fragilizzato, vive in una società che attribuisce valore solo a ciò che valorizza il capitale, e che spesso trascura ciò che è socialmente utile.

La ricerca di un aumento di conoscenza, la ricerca del bello, la costruzione di più alti livelli di libertà e uguaglianza, sono problematiche, quando non impossibili.

La contraddizione fra lavoro e società, fra vissuti lavorativi e vissuti sociali diviene alta, a volte insuperabile, come ci dicono gli indicatori di sofferenza (depressioni, suicidi, etc.). Questo ci viene segnalato dalle ricerche sulla soggettività svolte nel passato e da quelle in corso. Crediamo sia utile tenerne conto.


* Francesco Garibaldo è sociologo. È stato un dirigente sindacale della FIOM sino al 1991, poi ha diretto, sino al 2008, due istituti di ricerca – IRES nazionale sino al 1998, e poi l’ Istituto per Il Lavoro (IPL) – ed è oggi il direttore della Fondazione Claudio Sabattini.

** Emilio Rebecchi è psichiatra e psicoanalista. Oltre a incarichi istituzionali nella sanità dell’Emilia-Romagna, e di insegnamento universitario, si è sempre interessato ai problemi del lavoro: sino al 1977 ha prestato la sua attività nel Servizio di Medicina Preventiva dei Lavoratori della provincia di Bologna, è stato presidente del Centro studi MET (Mente e tecnologia), svolgendo numerose ricerche in particolare su salute psichica e condizioni di lavoro. È membro della Fondazione Claudio Sabattini.

Garibaldo e Rebecchi, a partire dagli anni Novanta, hanno organizzato e partecipato in ricerche sul lavoro in diversi ambienti lavorativi, riprendendo e innovando la tradizione italiana di inchieste operaie di Panzieri e il metodo della ricerca condivisa di Alquati.


Immagine in apertura da www.microbizmag.co.uk

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