Autonomia differenziata e gabbie salariali: se un lavoratore in Sicilia guadagna meno di uno in Lombardia
Eliana Como*
Gli effetti della Autonomia differenziata sui salari
Le ragioni per dire NO all’Autonomia differenziata sono tante e non soltanto quelle che immediatamente vengono in mente quando si affronta questo tema, cioè sanità e scuola. Le materie su cui viene chiesta maggiore autonomia sono molte di più: il commercio estero, la sicurezza sul lavoro, la tutela dei beni culturali, il trasporto, il credito, la ricerca, la distribuzione di energia elettrica, persino la previdenza integrativa e complementare. Se fosse approvata la legge, l’insieme dei servizi pubblici universali verrebbe disarticolato, producendo non solo differenziazioni e quindi diseguaglianze territoriali, ma anche portando a distorsioni di programmazione e competizione tra aree del paese, che determinerebbero quasi inevitabilmente il peggioramento delle condizioni di tutti.
Oltre a questo, l’Autonomia differenziata produrrebbe altri effetti indiretti. In particolare, intervenendo sulle condizioni di reddito complessive delle persone e su differenziazioni salariali nei settori pubblici, finirebbe per minare alla base il ruolo solidaristico dello stesso contratto nazionale. Per dirla più semplicemente, l’Autonomia differenziata rischia di essere il “cavallo di Troia” per tornare alle vecchie gabbie salariali.
Cosa erano le “gabbie salariali”
Frutto di un accordo del 1945, le gabbie salariali erano un vero e proprio strumento di disuguaglianza, mascherato dall’idea che se i salari al Sud fossero stati più bassi, avrebbero attirato lo sviluppo del sistema imprenditoriale in quelle regioni. Nel 1970, prima che la loro cancellazione entrasse a regime, un operaio metalmeccanico di 3° livello di Torino guadagnava 97mila lire, uno di Taranto 92mila, uno di Palermo non arrivava a 90mila.
Quello che avvenne in quei decenni fu in realtà tutt’altro da quello che era stato propagandato. I bassi salari al Sud non attirarono le imprese in quelle regioni, ma casomai portarono a un esodo di massa dei lavoratori verso il triangolo industriale del Nord.
Le gabbie salariali rimasero in vigore fino al 1969, spazzate via dalle lotte dell’autunno caldo sull’onda di un principio fondamentale della democrazia: a parità di lavoro, parità di salario.
Questa idea solidaristica del sistema salariale iniziò a essere messa in discussione 15 anni dopo dai primi contratti di formazione-lavoro e poi, via via, negli ultimi 30 anni con l’istituzionalizzazione della precarietà.
Le differenze salariali oggi
Forme di gabbie salariali o comunque di differenziazione nei salari, d’altra parte, esistono ancora, in particolare in alcuni settori dove la contrattazione territoriale ha un ruolo determinante, come l’edilizia e l’agricoltura. Un operaio agricolo di Brindisi, già oggi, guadagna meno di un suo collega di Modena.
Oltre alla contrattazione territoriale, incide anche quella aziendale, che di per sé è connotata da forti differenziazioni, legate principalmente alla dimensione di impresa e al settore (molto più diffusa nei settori industriali e manifatturieri che nei servizi, dove è quasi inesistente), ma anche al territorio, visto che è decisamente più diffusa nelle grandi e medie fabbriche del Nord.
Persino in alcune realtà del pubblico impiego si registra una differenziazione territoriale legata al salario aggiuntivo. Per esempio, nelle università. Lo stipendio medio del contratto nazionale del personale tecnico amministrativo degli atenei è per tutti intorno ai 24/25mila euro. Il salario aggiuntivo complessivo in uno dei politecnici di Milano e Torino supera i 12mila euro annui medi. In altri atenei statali “poveri” fatica ad arrivare a 1000.
Così, nel 2022, complessivamente le retribuzioni italiane più alte si registrano in Lombardia (35.534 euro lordi media di retribuzione complessiva annua). Le più basse in Sardegna, Calabria e Basilicata, fanalini di coda della classifica nazionale, con salari medi inferiori a 27.000 euro.
Non è un caso che il Sud sia tornato a livelli di emigrazione ormai superiori a quelli degli anni Sessanta e Settanta e che su due milioni di famiglie italiane povere, circa 775mila siano concentrate al Sud. Condizione che non potrà che peggiorare con la riduzione del reddito di cittadinanza.
Meno salario sociale al Sud
Se quindi già oggi al Sud le paghe sono più basse che al Nord, cosa accadrebbe con l’Autonomia differenziata?
Partiamo da un dato di fatto. In molte regioni del Sud lo stato sociale è già al collasso, in termini di infrastrutture e servizi sociali. L’Autonomia differenziata metterebbe ancora di più in discussione l’universalismo dell’accesso al welfare, aumentando la strutturale carenza di servizi sociali essenziali e intervenendo indirettamente sui livelli di reddito complessivi, attraverso la riduzione del cosiddetto “salario sociale”.
Il salario globale è diviso sostanzialmente in tre componenti: lo stipendio diretto (a sua volta diviso in parte fissa e componenti accessorie variabili), lo stipendio differito (che arriva in tempi diversi: tredicesima, TFR, pensione) e il salario sociale (cioè quella quota di servizi pubblici gratuiti o a prezzi ridotti, che concorrono a sostenere la vita di una persona, come la sanità, la scuola, ma anche gli abbonamenti ai trasporti, ecc.). Per esempio, quando si paragonano gli stipendi in due paesi con sistemi sociali diversi (prendiamo l’Italia e gli Stati Uniti), allo stipendio lordo statunitense deve essere sottratta la quota per la sanità (l’assicurazione sanitaria, che infatti spesso è offerta come benefit aziendale), nonché l’incidenza di scuola e università per i figli (con costi molto diversi da quelli italiani), i trasporti, ecc.
Quindi, se l’offerta di servizi pubblici fosse ancora più differenziata di quanto è oggi, un lavoratore del Sud risulterebbe più povero, anche a parità di salario lordo, di un lavoratore del Nord, perché avrebbe minore accesso a servizi come sanità, assistenza sociale, asili, scuola e trasporti.
Più privatizzazioni al Nord
D’altra parte, va spiegato ai lavoratori del Nord che loro non diventeranno più ricchi, perché dietro la pretesa della Autonomia differenziata c’è comunque un processo di privatizzazione che metterà in discussione il servizio pubblico anche per i lavoratori lombardi e veneti, sostituendolo con il privato a pagamento, in particolare nella sanità, sempre più lasciata nelle mani di un mercato rapace e distruttivo.
Infatti, insito nel processo di Autonomia differenziata c’è la contabilizzazione di ogni servizio e quindi di ogni diritto universale. L’erogazione dei servizi è calcolata in rapporto ai principi del fabbisogno e del costo standard. Al di là dal fatto che l’esplicito obiettivo è abbassare la spesa pubblica complessiva (prendendo a riferimento e quindi calcolando il fabbisogno sul costo minore), il risultato di questo processo è che ogni singolo servizio, ogni singola attività, viene contabilizzata. Questo è il presupposto delle esternalizzazioni, perché nel momento in cui ad un’attività è riconosciuto un costo, diventa secondario se viene poi erogata da una struttura pubblica o privata. È quello che è successo nel Servizio Sanitario Nazionale, a partire dal modello lombardo, con la progressiva esternalizzazione di attività sanitarie via via più essenziali. Prima l’attività di laboratorio e la diagnostica specialistica, poi le cure ai malati cronici, ora i consultori e le guardie mediche e persino il primo pronto soccorso privato, recentemente aperto a Brescia.
Se un insegnante siciliano “merita” meno di uno lombardo
Oltre a questo, va considerato un altro rischio, direttamente legato alla contrattazione dei settori pubblici. Con una sanità e una scuola sempre più differenziata a livello regionale e a fronte di contratti nazionali del settore sempre più poveri (ad oggi il governo non ha stanziato le risorse per i loro rinnovi contrattuali), non ci vorrà molto ad arrivare a una contrattazione integrativa differenziata per regione e territorio, anche nel pubblico.
Nella scuola, il ministro Valditara lo ha detto esplicitamente qualche mese fa. D’altra parte, se si auspicano metodi di reclutamento e persino programmi di studio diversi da Milano a Palermo, cosa impedirà di differenziare anche orari, incarichi, responsabilità e buste paga?
Ricordiamoci sempre che, dietro il concetto di merito, usato da anni come clava per legare i salari pubblici alla prestazione, il rischio è di finire in un attimo per accettare che un professore siciliano “meriti” meno di un collega lombardo.
Se passasse questo principio nei contratti nazionali pubblici, difficilmente il privato resisterebbe a lungo. E finiremmo in breve tempo al medioevo del nostro sistema salariale e di diritti, cioè prima del 1969 e dell’autunno caldo. Prima che il contratto nazionale, strumento solidaristico per eccellenza, tentasse faticosamente di accorciare le distanze di questo paese e la sua storica segmentazione tra Nord e Sud.
E se il contratto nazionale non basta? Salario minimo!
Si può argomentare che già oggi il contratto nazionale non sia quel baluardo di democrazia che era un tempo, svuotato da decenni di precarizzazione, moderazione salariale e arretramenti normativi, oltre dalla ormai incontrollata proliferazione dei contratti pirata e dalla frammentazione dei processi produttivi nelle catene degli appalti e dei subappalti.
Non commettiamo l’errore di pensare che il contratto nazionale non sia tuttora un elemento decisivo di unità e solidarietà del paese, da difendere dal rischio di una ulteriore spallata determinata dall’Autonomia differenziata. È vero però che non basta più da solo a difendere la condizione salariale e di vita dei lavoratori e delle lavoratrici, tanto meno dopo due anni di inflazione alle stelle.
Anche per questo, non è più rinviabile una mobilitazione vera sul salario minimo, come soglia fissata per legge e regolarmente indicizzata all’inflazione sotto la quale nessun contratto nazionale, in un nessun settore, possa scendere, obiettivo della campagna di raccolta firme per la legge di iniziativa popolare “10 euro è il minimo”.
L’introduzione del salario minimo, in questo senso, non soltanto non depotenzierebbe affatto la contrattazione nazionale esistente come qualcuno profetizza (anzi la favorirebbe, spingendo verso l’alto, come è avvenuto in Germania, anche i livelli salariali più alti e nei settori a più alta produttività), ma soprattutto contribuirebbe a mantenere vivo il ruolo solidaristico e universale del contratto nazionale, difendendolo anche dal ritorno alle gabbie salariali e dalle non meno importanti differenziazioni di genere, di settore e di dimensione di impresa.
Insomma, la parola d’ordine, alla fine è la stessa di sempre, quella storica del movimento operaio e dell’autunno caldo, principio fondamentale della democrazia: a parità di lavoro, parità di salario.
* Eliana Como fa parte della assemblea generale nazionale Cgil e Fiom, è portavoce di Le radici del sindacato, area alternativa in Cgil. Antifascista e transfemminista, è attiva in Non Una Di Meno e nel mondo Lgbt+. Appassionata di storia dell’arte ha creato il progetto @chegenerediarte e la relativa pagina Facebook, per la promozione e conoscenza delle artiste donne.