Autonomia differenziata: il nuovo scambio ineguale
Giovanni Russo Spena*
Dobbiamo prendere coscienza. Forse vi è stata rimozione di fronte a un provvedimento eversivo della forma Stato. Anche da parte delle sinistre radicali che non hanno compreso che, con l’Autonomia differenziata, si ridetermina, in direzione completamente privatistica, lo Stato Sociale. Come è già largamente avvenuto nella sanità. Dalla malaugurata controriforma del Titolo V della Costituzione (che, ricordiamolo sempre, con puntuale analisi e controcorrente di fronte al centrosinistra, i gruppi parlamentari Prc non votarono) fino all’attuale disegno di legge Calderoli, si sono compiute trame di eversione: dalla spinta secessionista leghista all’attuale tentativo delle destre di varare una nuova Costituzione postfascista.
Per noi marxisti è essenziale comprendere che alla base dell’eversione vi sono ragioni strutturali, vi sono forze economico-sociali che hanno interessi ingenti nel perseguire una differenziazione nella gestione della cosa pubblica. Il treno dell’operazione è guidato da un nuovo triangolo industriale che avverte la necessità, nel magma del capitale globale che si ridefinisce con una competitività feroce, di ricostruire le catene del valore. Le imprese del triangolo industriale hanno necessità di procedere ad ulteriori forme di integrazione sovranazionale e, per questo, spingono per differenziare il sistema istituzionale. Anche la classe operaia del Nord verrà minacciata con privatizzazioni, abbattimento del contratto nazionale di lavoro, precariato crescente, da una eversione fortemente classista. Il sindacato confederale lo sta finalmente comprendendo dopo anni di rimozione (anzi di condivisione). Il Meridione è completamente fuori dai processi di integrazione. Si riapre una ineludibile “questione meridionale”. Al Sud è assegnato il destino di hub, per il passaggio dai paesi nordafricani all’Unione Europea, di energia carbonifera e fossile, di trivellazioni; nonché di grande area per i servizi della logistica. L’energia transiterà nei gasdotti del Sud per alimentare il sistema industriale mitteleuropeo, la macroregione di cui fanno parte Lombardia, Veneto, Emilia. E’ il nuovo scambio ineguale, che colpisce al cuore l’unità di classe Nord/Sud. La lotta di classe , come ci ammoniva Gallino, la sta facendo e vincendo il padrone “dall’alto”, complice attivo il centrosinistra. Il quale, anche per il lavoro di documentazione, scienza e pressione militante dei Comitati, si sta svegliando, avvertendo il pericolo. Dobbiamo, con urgenza, allargare queste fratture.
Le destre non sono compatte, perché il nazionalismo populista postfascista non sopporta il secessionismo liberista leghista; perché l’Unione Europea ha mostrato fastidio, temendo per la sua compattezza; perché perfino settori della Confindustria temono la restrizione di aree di consumo di più di venti milioni di persone. E’ il tempo di battersi, in Parlamento e nella società per il ritiro del disegno di legge Calderoli. Il tentativo di mediazione, per salvarlo (tentativo a cui non sono estranei settori delle opposizioni parlamentari) è quello di alzare un grande polverone sui LEP (livelli essenziali di prestazioni). È stata dalle destre anche varata una Commissione, guidata dal “noto” Cassese che è, però, già in crisi. In realtà la presunta mediazione è una truffa. Innanzitutto i livelli di prestazione devono essere “uniformi” in tutto il paese e non solo “essenziali”. E poi questa scelta nasconde il fatto che viene automaticamente abbassato il livello dello Stato Sociale, contravvenendo ai primi tre articoli della Costituzione. I quali sarebbero sostituiti da una specie di “ius domicilii”, in base al quale il livello delle prestazioni dipende dal luogo di nascita. Questa sarebbe la fine dello Stato unitario e indivisibile con le sue autonomie locali (articolo 5 della Costituzione) ma una polverizzazione in base agli interessi del capitale. Attraverso intese tra regioni e governo, con un ruolo del tutto marginale del Parlamento.
Noi comunisti non siamo né centralisti, né conservatori, come i liberal liberisti ci dipingono. Noi, anzi, mentre lottiamo contro l’Autonomia differenziata, rilanciamo il regionalismo solidale, in base all’articolo 5 della Costituzione che in Italia non è stato mai applicato. E consideriamo essenziale il ruolo dei comuni. Non a caso portiamo avanti la campagna “Riprendiamoci il Comune”, con l’annessa raccolta delle firme popolari. Perché siamo per la democrazia “di prossimità”. il controllo popolare, l’autorganizzazione, perché al decentramento delle funzioni non deve corrispondere una discriminazione tra i cittadini. E’ fondamentale contrapporre all’egoismo territoriale secessionista il rapporto tra i territori come autogoverno sociale. L’autonomia solidale prevista dalla nostra Costituzione allude a spazi “meticci”, condivisi, plurali.
Sta a noi, partigiani della Costituzione
Temo che la fascista Meloni, per far accettare al proprio elettorato lo schema secessionista leghista offra in cambio la controriforma presidenzialista. Un paese frantumato, diviso, rancoroso, impaurito, dentro il contesto autoritario di “postdemocrazia”, che lo passivizza, potrebbe accettare la presunta “necessità” della delega assoluta all’uomo o alla donna “forte” che vedrebbe come unico elemento di governabilità.
Perciò ritengo, al contrario di altri giuristi e politologi che autonomia differenziata e presidenzialismo verranno dalle destre portati avanti come complementari, per abbattere la Costituzione repubblicana e costruire la Terza Repubblica postfascista. Con l’incontro convocato dalla Meloni con i partiti di opposizione parlamentare per discutere di presidenzialismo e riforme costituzionali è iniziato, di fatto, il percorso eversivo, anche tecnicamente. Dobbiamo ogni giorno ricordare, non per puntiglio giuridico, ma come partigiani della Costituzione , che non può essere il presidente del consiglio a convocare il tavolo per il mutamento addirittura della forma/Stato. Calamandrei ammoniva: quando si parla di riforme costituzionali “i banchi del governo devono restare vuoti”. Non dimentichiamo che l’autocrazia governativa è altresì favorita dalla legge elettorale maggioritaria.
La partecipazione popolare viene sostituita dalla delega assoluta di un popolo inerte. Il sistema presidenziale renderebbe evanescente il Parlamento, sede della sovranità popolare (art. 1 della Costituzione) e indebolirebbe tutti gli istituti di garanzia costituzionale, a partire dalla Presidenza della Repubblica. In Italia, paese che non ha tradizione confederale né uno stato amministrativo solido, il presidenzialismo presenta il rischio forte di una torsione autoritaria. I contenuti della proposta Meloni, fino a ora, non sono affatto chiari. Ora parla di “premierato”, cioè di elezione diretta del presidente del consiglio. È una formula inedita, mai sperimentata in Europa.
Inoltre: come si articolerebbero gli equilibri tra i poteri? E quali i rapporti tra presidente della Repubblica e “premier” eletto dal popolo? Chi svolgerebbe i ruoli forti di garanzia e di potere neutrale? Che forza avrebbe il presidente della Repubblica? La verità è che le destre vogliono travolgere l’impianto costituzionale, profittando anche delle incertezze e della subcultura governista stabilizzatrice delle opposizioni parlamentari. Tocca a noi alimentare la costruzione di argini democratici.
* Giovanni Russo Spena fa parte dei Giuristi Democratici e del Comitato Difesa Costituzione. È ex segretario di Democrazia Proletaria e ex parlamentare del Prc. Ha pubblicato, tra l’altro, “La metafora dell’emergenza”, “Peppino Impastato, anatomia di un depistaggio” e “La Costituzione della Repubblica italiana”, con Gaetano Azzariti e Paolo Maddalena.