Capitalismo totale: disordine globale

Franco Russo*

1.La fine della Storia

Ogni esercizio di filosofia della storia è una manipolazione ideologica, perché un fatto storico è elevato a evento sommo dell’evoluzione della società umana, rappresentando la fine e il fine della Storia. Esempio ne è stata la tesi di F. Fukuyama che nel crollo del socialismo reale nel biennio 1989-1991 ha visto l’episodio conclusivo della Storia, con l’espansione su scala mondiale del sistema economico capitalistico e del regime politico liberale. Le vicende successive – tragiche perché intessute di guerre tra eserciti regolari e tra gruppi armati – hanno dimostrato che la storia non si era conclusa, ha ripreso anzi il suo aspro cammino, falsificando così la tesi di Fukuyama. Di questa, tuttavia, non dobbiamo perdere il nucleo di verità, in quanto l’effetto storico incontestabile del crollo del socialismo reale è stato l’espansione mondiale del sistema capitalistico, con le sue conseguenze devastanti dello sfruttamento operaio in ogni angolo del pianeta, dell’acuirsi delle disuguaglianze sociali, della distruzione dell’ambiente naturale. Inoltre, l’espansione su scala globale del modo di produzione capitalistico non ha portato – come l’ideologia del douce commerce ha da sempre sostenuto – a relazioni pacifiche tra gli Stati, al contrario ha dato inizio a un inasprimento della competizione economica non più tra singoli Paesi ma tra blocchi di Paesi organizzati anche in alleanze politico-militari con lo scopo di creare e difendere i propri ‘spazi vitali’, dove prelevare materie prime e impiantare le proprie ‘catene di valore’. Le guerre e l’uso dello ‘strumento militare’ sono tornati protagonisti di questa lotta geoeconomica, i cui attori possono essere individuati nei Paesi del G7, forti militarmente della NATO e dell’AUKUS, e nella Cina e Russia, in relazione attraverso i BRICS, con altri Stati del Sud globale, che non dispongono però di una comune alleanza militare. La Cina ha promosso la Global Security Initiative, di natura prettamente politico-diplomatica per contenere l’egemonismo USA e far rispettare la sovranità di ogni paese,  rigettando ‘la mentalità da guerra fredda e il confronto tra blocchi’ al fine di ‘costruire una comunità globale di sicurezza per tutti’, come esplicitato da Xi Jinping (http://it.china-embassy.gov.cn/ita/xwdt/202302/t20230221_11028842.htm; https://www.ft.com/content/377cdb02-8a45-4ba2-b6ee-88620eb48f0b 2/4).

 La tesi dell’espansione del regime liberale, e della democrazia parlamentare, si è rivelata anch’essa infondata, dato che in generale si sono andati rafforzando o instaurando regimi politici oligarchici nel blocco occidentale e regimi autocratici nel resto del mondo, il cui più macroscopico segno sono il decadimento delle procedure elettorali: istituite per formare la rappresentanza politica, sono state trasformate in strumenti di mera legittimazione dei vari regimi, oligarchici o autocratici che siano. La conseguenza è stata l’esautorazione dei parlamenti, svuotati di ogni potere decisionale effettivo o ridotti a supporto mediatico delle autocrazie. Pur se organizzato in differenti e conflittuali regimi politici, si è affermato il capitalismo totale nella sua dimensione geografica ormai mondiale, e nella sua dimensione sociale con la mercificazione di ogni aspetto della vita individuale e collettiva.  

2. La geoeconomia

Per orientarci nel disordine globale e tentare di  decifrare obiettivi e strategie dei loro maggiori protagonisti, si può far riferimento al Davos Report 2023 in cui si evidenzia come la ‘guerra economica sia divenuta la norma, con crescenti scontri tra potenze globali e l’intervento statale nell’economia’ – si noti l’espressione ‘guerra economica’ che non è una metafora per ‘aspra competizione’, bensì indica l’uso della guerra per vincere la competizione economica. Infatti, non a caso, il Report continua affermando che nei prossimi tempi la ‘intensa militarizzazione geoeconomica metterà in luce le fragilità poste dall’interdipendenza commerciale, finanziaria e tecnologica tra economie globalmente integrate, con il rischio di un ciclo ascendente di sfiducia e di disaccoppiamento’.  Il Report coglie, a mio avviso, i tratti salienti dell’attuale fase storica: guerre, o minacce di guerre, per conquistare posizioni egemoniche nella nuova divisione internazionale delle produzioni e dei mercati, e negli approvvigionamenti delle materie  prime e dell’energia. Dissento invece dall’affermazione del Report quando, contraddittoriamente, sostiene che la ‘geopolitica batte l’economia’ portando nel lungo periodo a inefficienze e costi crescenti. Si avverte in  queste espressioni l’ideologismo liberale, prima richiamato, per cui il capitalismo si svilupperebbe in un ambiente sì competitivo ma pacifico, ciò che non ha riscontro nell’attuale realtà, né in quella del passato: la guerra è connaturata al capitalismo al pari dello sfruttamento del  lavoro. A caratterizzare oggi lo scenario mondiale è  che guerra, conflitti e competizione economica avvengono tra blocchi economici, peraltro interrelati tra loro. Per questo ricorrenti sono le parole decoupling – disaccoppiamento – e de-risking – riduzione del rischio –, riferite soprattutto alle relazioni economico-politiche dell’Occidente con la Cina. Obiettivo del blocco dei Paesi occidentali è procedere verso un de-resking,  con l’obiettivo di non giungere a separare completamente le loro economie da quella cinese. 

3.  Cina e Russia contro l’egemonismo USA

Il disordine globale è l’espressione della decadenza dell’egemonia mondiale degli USA e il rafforzamento di altre potenze, che mirano o a sostituirli o almeno a istituire un co-dominio, come palesemente persegue la Cina. La Cina da fabbrica del mondo per i colossi industriali occidentali –vera e propria economia della subfornitura – è divenuta un centro di produzione di merci e servizi ad alto contenuto tecnologico in grado di penetrare, grazie ai prezzi competitivi, negli stessi mercati dei Paesi occidentali. La Cina ormai primeggia nelle produzioni dei veicoli elettrici, dei sistemi informatici, delle attrezzature per le energie rinnovabili, oltre a detenere le più ampie riserve delle terre rare, necessarie per la duplice transizione ‘verde’ e digitale. Fin dal 19° Congresso del Partito comunista, svoltosi nell’ ottobre 2017, Xi Jinping ha sostenuto che per la Cina era tempo ormai di ‘prendere il centro della scena nel mondo’, e ancor prima nel 2013 aveva lanciato l’iniziativa Belt and Road con il proposito di creare un’area di dimensioni mondiali sotto il controllo politico-economico cinese. Xi Jinping non si stanca di ripetere che i valori universali predicati dai Paesi occidentali sono un modo per imporre i loro propri interessi, e che la Cina segue un suo modello di modernizzazione, avendo adottato il sistema capitalistico conservando il regime politico ‘a partito unico’. Questo connubio, di capitalismo e di dominio politico del partito comunista, è ideologicamente difeso da Xi Jinping, il quale respinge la narrativa di Joe Biden incentrata su un preteso conflitto tra democrazia e autocrazia, trattandosi invece di regimi parimenti legittimati, gli uni dai valori occidentali, l’altro dai valori asiatici (Financial Times, 31 marzo 2023).

In questa strategia volta ad accelerare il declino dell’egemonia USA, la Cina non è sola, infatti la Russia dell’autocrate Putin pratica da anni una linea di aperta contrapposizione agli USA e alla NATO fino a scatenare guerre nella stessa Europa e a utilizzare le sue ricchezze minerarie ed energetiche come armi per indebolire i Paesi dell’UE. Dopo l’aggressione armata contro l’Ucraina il blocco occidentale si è posto l’obiettivo del decoupling nei confronti della Russia – ciò che gli è riuscito soprattutto nel campo energetico –, e  dell’ indebolimento dei legami tra la Russia e la Cina – ciò che non gli è riuscito.  Cina e Russia non sono sole nell’opera di sgretolamento del dominio USA, dato che trovano un forte appoggio nei Paesi BRICS, che, se pur con interessi non sempre convergenti, sono uniti nel voler superare il ‘mondo unipolare’, ponendo termine al ‘secolo americano’.

Il presidente brasiliano, in visita in Cina lo scorso anno si è domandato retoricamente perché ‘non possiamo commerciare usando la nostra propria moneta’, rivolgendosi idealmente all’insieme dei paesi del Sud globale, e offrendo un chiaro supporto agli sforzi cinesi e russi di porre fine al predominio del dollaro nel commercio internazionale. Lula poggia la sua proposta forte della considerazione che il dollaro, dopo il suo disancoraggio dall’oro nel 1971, è un fiat money, al pari delle altre monete, il cui valore e solvibilità sono basate su economie altrettanto solide di quella americana (si veda il Financial Times del 3 aprile 2023).

4. Il decoupling

Nelle sue due visite in Cina, nel luglio 2023 e nell’aprile 2024, Janet Yellen, la Segretaria al Tesoro USA, ha vestito i panni del ‘ poliziotto buono’, sostenendo nei suoi colloqui con le autorità cinesi che l’Amministrazione Biden con le misure protezionistiche non mira a destabilizzare la Cina ma solo a impedire il trasferimento di tecnologie altamente sensibili per la sicurezza USA, come i semiconduttori. L’Amministrazione Biden vorrebbe ridurre i rischi nelle relazioni tra USA e Cina, ma non disaccoppiare le due economie, con il duplice proposito di rendere meno presente nella gestione dell’economia cinese lo Stato, che usa massicce sovvenzioni per rendere più competitive le sue merci, e di preservare lo status quo nella regione indo-pacifica, soprattutto per quanto concerne Taiwan.

La strategia delle imprese di attuare il de-risking verso la Cina attraversa ancora una fase di incertezza e non ha la stessa valenza per l’UE e gli USA, come evidenzia un ampio articolo di Le Monde (5 aprile 2024). Malgrado gli appelli alla sovranità e a una politica industriale europee per il momento non vi è alcun disaccoppiamento tra l’UE e la Cina, infatti ‘tra il 2013 e il 2023, il deficit commerciale dell’UE è pressoché triplicato, a 291 miliardi di euro’. Verso il disaccoppiamento, nonostante le affermazioni di Janet Yellen, sono incamminati gli USA, dove le diverse Amministrazioni, hanno perseguito un’opera di contenimento delle importazioni cinesi che sono passate dal 23%  del totale al 14% (dal 2018 al 2023), risultato raggiunto attraverso l’aumento delle tariffe doganali che per i pannelli solari, le lavatrici, e l’acciaio giungono fino al 26%. L’UE, fa notare sempre Le Monde, ha per esempio imposto una tariffa doganale per le auto elettriche cinese del 10%, mentre quella USA raggiunge il 27,5%. L’UE ha varato due regolamenti, il Foreign Subsidies Regulation e il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), che prevedono una verifica di aiuti di Stato e dei livelli degli inquinanti per le merci importate, senza tuttavia riuscire a minare la supremazia cinese nella produzione e vendita delle auto elettriche, dei pannelli solari, delle pale eoliche,  delle sostanze chimiche e farmaceutiche.  Una conferma politica ufficiale che il disaccoppiamento tra UE e Cina in campo economico non sta procedendo  è venuta dal Commissario Paolo Gentiloni che, dopo la riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile 2024, ha detto:       ‘noi siamo consapevoli del fatto che ciò che chiamiamo disaccoppiamento non sta avvenendo .. è probabilmente perfino impossibile..’. Un’altra conferma è venuta da un top manager della Siemens, Ralf Thomas, che in visita a Pechino, al seguito del cancelliere Scholz nell’aprile di quest’anno, ha rilevato che ci vorranno decenni per ridurre la dipendenza della manifattura tedesca dalla Cina, e che sarà un vero dilemma data l’importanza del mercato cinese e delle filiere produttive che legano Cina e Germania (Financial Times, 14 aprile 2024).  

5. Il liberalismo autoritario

In un saggio del 1933, Autoritärer Liberalismus, Hermann Heller individua il connotato di fondo dell’autoritarismo nella de-statalizzazione dell’economia che, però, non significa ‘astinenza da una politica di sovvenzioni per le grandi banche, la grande industria e i grandi agrari’, ma smantellamento della politica sociale. Heller mette in luce una doppia pratica dell’autoritarismo:  restringimento della sfera pubblica per ampliare la libertà delle imprese e al contempo interventi statali per sostenerle; in parallelo, restringimento delle misure di politica sociale e interventi per rendere disciplinate le classi lavoratrici e popolari (Gesammelte Schriften, Zweiter Band, Tübingen 1992, p. 652).

Queste connotazioni dell’autoritarismo si attagliano ai regimi politici dell’Occidente, che hanno  portato avanti da almeno quattro decenni lo smantellamento dei diritti sociali, tagliando i servizi pubblici e la previdenza in modo che la ‘frusta’ della disoccupazione, del lavoro precario, della necessità di pagare i servizi privatizzati potesse disciplinare i comportamenti delle classi popolari. D’altra parte le politiche pubbliche, ritrattesi dalla sfera sociale, si sono allargate in quelle del sostegno alle imprese.  Prendiamo ad esempio la produzione dei semiconduttori, dove  per reggere la feroce la competizione, vengono elargiti i massicci sostegni finanziari  alle imprese da parte sia degli USA che dell’UE. L’Amministrazione Biden, per decentrare la produzione dei semiconduttori da Taiwan, a causa delle minacce militari della Cina, ha offerto alla Taiwan Semiconductor Manufacturing ben 11, 5 miliardi di dollari  – di cui 6.6 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto e i rimanenti in prestiti agevolati – al fine di spostare una parte della sua produzione in una fabbrica in Arizona.  Inoltre, occorre ricordare che Biden ha varato il Bipartisan Infrastructure Law  (per 448 miliardi di dollari), l’Inflation Reduction Act (per 739 miliardi) e il Chips and Science Act (per 280 miliardi) per modernizzare le infrastrutture fisiche e per sostenere i processi di innovazione dell’industria americana. L’UE non è da meno, infatti ha varato l’European Chips Act, il 21 settembre 2023, con una dotazione di 3,3 miliardi di euro, certo lontana dalle cifre USA, e infatti i livelli dei finanziamenti pubblici alle imprese è un problema per l’UE, che non essendo dotata di un ‘fisco centralizzato’ ha minori possibilità di reperire risorse da destinare alle imprese (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_23_4518). In ogni caso non va sottovalutato quanto l’UE ha fatto in questi anni per gestire la crisi pandemica e bellica, varando  il piano noto con la sigla NGEU, con una dotazione finanziaria di 806 miliardi, rastrellati sul mercato attraverso l’emissione di debito comune, che sommati con gli aiuti di Stato portano i finanziamenti pubblici a livelli non dissimili da quelli USA (https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/recovery-plan-europe_it). Infatti dai dati dello State aid Scoreboard, reso pubblico il 9 aprile 2024, risulta che nel 2022 gli Stati membri hanno concessi aiuti per 228 miliardi di euro, che includono sia misure attinenti agli strascichi del Covid sia alla guerra della Russia contro l’Ucraina, e nel 2021, in piena crisi da COVID gli aiuti hanno toccato la cifra di 349,7 miliardi di euro (file:///C:/Users/Laptop/Downloads/2023_State_aid_Scoreboard_shows_reduction_in_State_aid_expenditures_in_2022_while_crisis_support_to_businesses_continued.pdf).

Di certo, le politiche economiche dell’Amministrazione americana e dell’UE divergono nei tempi e nelle misure monetarie e fiscali. La FED e la BCE stanno da due anni adottando politiche monetarie restrittive attraverso il quantitative tightening  – sia pure con tempi  differenti – e l’innalzamento dei tassi di interesse,  ma USA e UE seguono differenti politiche fiscali. Come spiega Vito Lops, l’economia USA è ‘forte e resiliente’ perché, mentre ‘la FED sta facendo il suo dovere di ridurre la liquidità (il quantitative tightening) e difatti  ha drenato gli asset in bilancio da 9mila a 7600 miliardi di dollari, non si può dire altrettanto del Tesoro. Nel 2023 il deficit governativo si è attestato al 5,8% e nel 2024 sta marciando a un ritmo annualizzato a un ritmo annuale superiore al 6%. Si tratta di stimoli fiscali  paragonabili a una fase post-bellica’ (Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2024). Se il deficit  USA è quasi il doppio di quello dell’Eurozona, che sta al 3,6%, è perché nell’UE non c’è la possibilità di emettere debito comune, infatti, l’NGEU e l’allentamento della disciplina degli aiuti di Stato rimangono per ora un unicum.

6 . Il momento hamiltoniano

L’UE è a un bivio: o crea una fiscalità comune centralizzata, che le consenta di rispondere alle sfide delle transizioni ‘verde’, digitale, ed energetica, degli approvvigionamenti delle materie prime e, di vitale importanza per essa, degli investimenti negli armamenti e nel rafforzamento degli eserciti nazionali (e in prospettiva dell’esercito europeo), oppure rimane inchiodata allo status quo, con piccoli aggiustamenti istituzionali che la condannerebbe all’irrilevanza sulla scena mondiale (sia in campo economico che geopolitico). Le classi dirigenti UE hanno la consapevolezza di dover attraversare il ‘momento hamiltoniano’ per giungere alla comunitarizzazione del debito con emissioni di bond europei, dando vita a una sovranità europea, cioè a una centralizzazione del potere per sostenere la competizione economica,  che oggi va di pari passo con la militarizzazione dell’economia e della società.

La necessità di attraversare il ‘momento hamiltoniano’ per giungere a una capacità fiscale centralizzata così da poter emettere debito comune per tener testa alle sfide nei vari campi – industriali, energetici, militari – è una posizione in via di consolidamento e di sicuro sarà riproposta da Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività (atteso per il mese di giugno), mentre in quello  di Enrico Letta, presentato il 19 aprile,  si afferma a più riprese l’urgenza di emettere bond direttamente da parte dell’UE per sostenere gli investimenti per la difesa militare e per la duplice transizione. Secondo Enrico Letta gli interventi per unificare il mercato in questi campi hanno bisogno di uno strumento a livello europeo simile all’IRA adottato da Biden con i suoi massicci crediti di imposta per le imprese, e per questo occorrono risorse fiscali centralizzate a livello dell’UE (Much more than a market, pp. 27 e 74). Anche Fabio Panetta, già membro del Comitato esecutivo della BCE e ora Governatore della Banca d’Italia, si è espresso da tempo con grande nettezza a favore di una capacità centralizzata permanente di emettere debito direttamente da parte dell’UE per rispondere  innanzitutto alle esigenze di investimento nella difesa comune. Si noti che è un banchiere centrale a farsi carico dei problemi di riarmo e a indicare la via per trovare le risorse finanziarie, dimostrando la fusione tra classi dirigenti politiche e tecnocrazia  accomunate nel disegno di sostenere l’industria bellica e il ruolo dell’UE nei conflitti geoeconomici (Financial Times, 20 settembre 2023, https://www.ft.com/content/e17664eb-b712-4d22-a4ff-e415ca4069e8 3/3). Fabio Panetta ha riproposto analoghi concetti nella sua Lectio magistralis all’Università Roma Tre, il 24 aprile di quest’anno, chiarendo che investimenti ‘finanziati con emissioni obbligazionarie comuni permetterebbero di creare un titolo europeo privo di rischio (safe asset). Ciò rimuoverebbe il principale ostacolo alla formazione di un’autentica Unione dei mercati dei capitali e rappresenterebbe un passo fondamentale per dotare l’Unione economica e monetaria di uno strumento indispensabile per finanziare il vasto programma’ di produzione dei beni pubblici europei , a partire dagli armamenti necessari per la difesa (pp. 17-18).

Queste posizioni echeggiano quelle di Mario Draghi, da sempre fautore della devoluzione a Bruxelles della sovranità fiscale, e dunque politica,  da parte degli Stati all’UE di cui ha sostenuto, da Presidente del Consiglio italiano, la strategia bellicista nella vicenda ucraina. Le riflessioni politiche di Draghi si intrecciano spesso con considerazioni storiche, come avvenuto nella Lecture Martin Feldstein (del luglio 2023), quando rilevò come negli Stati Uniti sia stata ‘la Guerra di indipendenza che ha prodotto il “momento hamiltoniano” dell’assunzione del debito da parte del governo federale. In Canada e in Germania furono create le prime imposte federali dirette – a parte i dazi doganali – per generare nuove entrate per finanziare la Prima guerra mondiale. Fu la necessità di superare la Grande Depressione che portò all’espansione del bilancio federale degli Stati Uniti negli anni Trenta’. Sembra suggerire Draghi che l’UE deve, proprio in questi tempi di guerra, dar vita al suo ‘momento hamiltoniano’ in modo da accentrare la produzione di beni pubblici,  intesi nell’accezione liberale vale a dire  la difesa,  le infrastrutture materiali e digitali,  le regole per la gestione del mercato unico delle merci, dei capitali, dei servizi e della forza-lavoro.

In attesa delle elezioni di giugno del Parlamento europeo per verificare se i suoi esiti consentiranno di procedere verso una fiscalità centralizzata, la Commissione europea si è assicurata  nel frattempo il controllo delle politiche di bilancio nazionale degli Stati membri attraverso il cd nuovo Patto di Stabilità perché, al di là delle misure tecniche quali il parametro delle spese o la neutralizzazione degli interessi sul debito pubblico o degli investimenti necessari per la duplice transizione o per la difesa,  le consente, con le disposizioni  sulla traiettoria  di riferimento dell’articolo 5, di dettare i parametri a cui devono attenersi gli Stati membri nel redigere e varare i loro bilanci, facendo un salto verso una ulteriore centralizzazione a Bruxelles delle decisioni delle politiche pubbliche nazionali, finora condizionate solo da Raccomandazioni (Effective coordination of economic polizie and multilateral budgetary surveillance file:///C:/Users/Laptop/Documents/EU.2024/governance.PSS.text%20EP%20NB%20NB.pdf). Al pari di quanto avvenuto negli USA, il ‘momento hamiltoniano’ per l’UE non porterà all’instaurazione di un sistema federale democratico, al contrario rafforzerà l’oligarchia transnazionale, l’insieme di ceti politici, imprenditoriali e tecnocratici che ne ha la guida. Il capitalismo totale ha eroso le fondamenta della stessa democrazia rappresentativa e instaurato un liberalismo autoritario, di cui parlò Hermann Heller.


*Franco Russo ha partecipato al movimento del 1968 in Italia. Nel 1976 ha partecipato alla costruzione di Democrazia Proletaria. Ha contribuito a costruire percorsi rossoverdi. Come membro di Rifondazione Comunista, ha partecipato al Forum Sociale Europeo e alla Carta dei principi dell’altra Europa. È stato deputato al Parlamento italiano. Ora è attivo in associazioni che si occupano di democrazia costituzionale, diritto del lavoro e Unione Europea.

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