“Cara” Università
Simone Rossi*, Edoardo Casati**
Uno dei tanti cori delle mobilitazioni universitarie di quest’anno è stato: “La borsa di studio non si tocca/ci togliete il cibo dalla bocca!”.
“Solo un coro” qualcuno potrebbe dire; “un grido di aiuto e di rabbia” diciamo noi.
Un grido che rende palese la necessità, per tutte le studentesse e gli studenti d’Italia, di avere accesso all’istruzione fino al più alto grado. A oggi, infatti, non è così, e anzi l’università italiana è elitaria, e come istituzione in grado di fornire il più alto grado di formazione sta morendo.
Errore: accesso negato
Per capire la realtà dei costi universitari, basti citare il fatto che le persone diplomate che intraprendono il percorso universitario sono appena 2/3 del totale, e pochissime provenienti da istituti professionali, dove di solito va chi viene dalle famiglie meno abbienti. Quando parliamo di costi, infatti, dobbiamo considerare, oltre a quelli elevati delle tasse universitarie, anche i costi dei libri (difficili da trovare nelle biblioteche che hanno sempre meno risorse), della mensa, del trasporto. In molti casi, vi è il trasferimento in una località diversa dalla propria o, come alternativa, lunghi viaggi in treno: appena il 40% delle persone frequenta infatti l’università nella stessa provincia in cui si diploma (pensiamo a chi vive in piccoli borghi o al Sud e nelle Isole). Bisogna poi tenere conto che il diritto all’accesso agli studi dipende molto dalle risorse della singola università, che variano in base alla sua posizione e dimensione. Tutto questo senza contare che il percorso universitario spesso non consente di lavorare. Secondo alcuni dati, è chiaro perché nelle università italiane il numero di persone laureate, che vengono dalla numerosissima classe lavoratrice, è uguale a quello di chi viene dalla minuscola minoranza dei ceti privilegiati, a ulteriore conferma che non esiste in Italia un’università di massa.
Eppure, esisterebbero diritti istituiti appositamente per garantire il diritto allo studio, come alloggi e borse di studio.
La questione delle borse è, ovviamente, strettamente legata alle tasse universitarie, il cui aumento da decenni dimostra il disinteresse dei nostri governi nel garantire a tutte le persone la possibilità di studiare; per rendere ancora più chiaro questo disinteresse, va detto che la gestione delle borse, di competenza regionale e quindi dipendente dalle risorse di ogni regione, è basata su uno stanziamento di fondi preventivo e a esaurimento. Le differenze sono enormi, in termini di possibilità di spesa tra regione e regione, con un solco profondo tra le regioni del Nord e quelle del Sud. Ciò ricade a cascata anche sulla capacità dei singoli atenei di assicurare effettivamente l’accesso alle risorse universitarie per tutte le studentesse e tutti gli studenti. Accade anche molto spesso che chi vince una borsa, per mantenerla, debba continuare a ottenere risultati eccellenti e senza rimanere indietro, pena la restituzione dell’intero importo della borsa. Insomma, è “il danno oltre la beffa” per quelle famiglie che non si sarebbero potute permettere i costi dell’università e che, proprio per questo, hanno richiesto una borsa, rischiando di ritrovarsi, a percorso intrapreso, a dover far fronte a delle spese che, senza il supporto dello Stato, non sarebbero mai riuscite a sostenere e che forse, se il supporto fosse mancato sin dall’inizio, non avrebbero nemmeno mai pensato di intraprendere.
La conseguenza dei tagli all’accesso all’università è che una parte consistente della popolazione studentesca è costretta a lavorare per poter studiare; spesso in nero, date le condizioni lavorative di questo paese.
Per quanto riguarda gli alloggi la situazione è drammatica, se pensiamo che solo in due regioni italiane il totale degli alloggi universitari supera il 10% di quelli che sarebbero necessari per tutte le persone fuorisede. Numeri ridicoli.
L’arrivo: gli strumenti per potersi laureare
Un altro elemento, emblematico della controrivoluzione portata avanti nell’università sin dagli anni ‘80, è quello delle facoltà a numero chiuso, funzionali a ridurre il numero di figure professionali laureate in vari settori, pensiamo per esempio ai medici, mentre, sul modello statunitense, vengono gradualmente ridotte le persone laureate in medicina per sostituirle con quelle di infermieristica e professioni sanitarie, una dimostrazione evidente a chiunque dello squilibrio gravissimo tra le pretese del tanto decantato “mercato” e le necessità della popolazione.
Di contro, dove il numero chiuso non c’è, vediamo un sistema universitario che punta sempre di più sulla quantità delle persone che ogni anno effettuano l’iscrizione senza alcun interesse per la qualità della preparazione da fornire, e senza per questo ampliare il personale docente o gli spazi accademici, con un forte impatto sulla quotidianità della popolazione studentesca. Malgrado questo tentativo di puntare alla quantità, la popolazione universitaria in Italia negli ultimi anni sta calando, mentre tra chi prosegue gli studi dopo le scuole superiori sono sempre di più le persone che fuggono dall’università pubblica preferendo. Chi è benestante quella privata, chi non lo è, quella telematica. In quest’ultimo settore stiamo assistendo, in Italia, a un vero e proprio exploit: nell’anno universitario 2010/11 le persone iscritte alle università telematiche erano 40 mila, oggi assistiamo a crescite esponenziali che ci portano ad avere, nell’anno 2020/21, 185 mila iscritte e iscritti. Nonostante ciò, le università italiane non fanno nulla per includere le studentesse e gli studenti che sono più in difficoltà, non garantendo neppure l’affiancamento con tutor. In questo modo si spinge queste persone ad abbandonare gli studi.
L’accesso all’istruzione universitaria non è più un “servizio” (un diritto, diremmo noi) da estendere progressivamente, ma diviene un privilegio che ci si può permettere di iniziare ma che solo poche persone possono riuscire a concludere, perché foraggiate dalle possibilità economiche della famiglia, che permettono loro di poter usufruire di ripetizioni o corsi privati di “potenziamento”. È ovvio, altresì, che questa situazione di mancata solidarietà e di mancato sostegno mette in luce (anche qui come nella società tutta) le differenze di classe più marcate. Si dice spesso, a ragione, che l’università si è via via trasformata in un mero “esamificio”, dove l’unica cosa che conta è la corsa per quel pezzo di carta che sta perdendo progressivamente ogni valore, se confrontato con le università private d’élite. Già ora non dice più quasi nulla di conoscenze acquisite. In questa corsa, chi può si fa aiutare privatamente, e chi non può soccombe. Questa differenza dimostra il classismo del concetto di “meritocrazia” che la destra tiene a imporre. In una società in cui le persone più abbienti possono permettersi ripetizioni e approfondimenti fatti privatamente, non ha senso pensare di poter fare paragoni con chi, invece, non riesce fare fronte a questa spesa o con chi, pur riuscendoci, deve tentare di moderarla il più possibile, dato l’altissimo impatto che una spesa del genere ha sul budget familiare.
Una visione d’insieme: che fare?
Sarebbe facile considerare questo insieme di problematiche come dipendente da scelte della singola università, come una “cattiveria” non necessaria. Non è purtroppo così. Per quanto le istituzioni universitarie siano quasi sempre in accordo con questo piano di svendita del diritto allo studio, ciò che rende il processo qualcosa di strutturale è l’ANVUR, ente controllato dal Ministero dell’Università e della ricerca (MUR) e che si occupa, per esempio, di gestire il finanziamento pubblico delle università, sulla base di una serie di indicatori che mettono le università in competizione tra loro e le forzano a tagliare sulle spese sociali, oltre a costringerle a rivolgersi a finanziamenti privati per colmare quella parte di bilancio che l’ANVUR strutturalmente non sostiene: un meccanismo nazionale di spolpamento dei nostri diritti.
Ci auguriamo che risulti chiaro il perché delle mobilitazioni per gli alloggi e per il diritto allo studio in generale. Per poter studiare dignitosamente, tuttavia, è prioritario riuscire a ricostruire un movimento universitario nazionale che abbia la forza di rispondere a questi attacchi, partendo da chi si sta già mobilitando: dalle proteste contro l’aumento dei costi della mensa a Torino, alle università chiuse alle persone non iscritte come a Bologna, dall’attacco alle infiltrazioni delle grandi compagnie del fossile o dell’entità sionista come a Roma, al rilancio dell’alleanza tra comunità studentesca e classe lavoratrice, per convergere ed insorgere insieme, come a Firenze con la vertenza GKN, cercando di ricostruire un blocco che comprenda anche studentesse e studenti medi, sempre con attenzione verso chi non può studiare per motivi economico-culturali.
* 23 anni, studente di filosofia all’università La Sapienza di Roma. Membro dei GC nella federazione di Roma e responsabile scuola ed università per la stessa federazione. Già in precedenza in altre organizzazioni, da 4 anni nel coordinamento dei collettivi della Sapienza.
** 20 anni, studente di scienze politiche all’ università di Pavia. Dal 17 Settembre 2019 é coordinatore dei/delle Giovani Comunisti/e della federazione di Pavia. Candidato alla carica di consigliere regionale nelle elezioni del 2023 nella lista di Unione Popolare. Dal 27 Luglio 2023, a seguito della conferenza nazionale GC, é nominato responsabile nazionale saperi.
Foto da www.open.online