Conflitto sociale, sapere collettivo e politiche pubbliche per la salute
Nando Mainardi
In questo numero della rivista, cercheremo di leggere, analizzare e connettere i processi che hanno caratterizzato e modificato il sistema sanitario italiano con una lettura più generale e complessiva della storia recente del Paese. Abbiamo evidenziato praticamente in tutti i numeri precedenti della rivista, indipendentemente dagli argomenti affrontati, come la realtà politica e sociale non sia un fatto “naturale” e “oggettivo”, ma il prodotto dinamico della lotta tra le classi, e dei conseguenti rapporti di forza. Ciò vale anche quando si parla, appunto, di sanità. Non è un caso, per esempio, se la L.833/1978, ovvero la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, sia stata discussa, costruita e approvata in una fase caratterizzata da un’elevata e generale conflittualità sociale, aperta dal “biennio rosso” del 1968-69 e dalla diffusione senza precedenti, nel decennio che ne è seguito, di istanze partecipative e di democratizzazione. Tutto, dal nostro punto di vista, si tiene: senza quella stagione di lotte e mobilitazioni, senza milioni di donne e uomini in carne e ossa attivi nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nei partiti della sinistra, nelle organizzazioni sindacali e nei movimenti, non saremmo mai arrivati a dare concretezza a quel diritto alla salute – individuale e collettivo – di cui parla l’articolo 32 della Costituzione; non sarebbe cresciuto e maturato quel sapere diffuso, fondato sulla domanda di politiche della salute e di un sistema sanitario diverso, in grado di affermarsi nel dibattito pubblico.
C’è una vicenda che mi ha sempre colpito, anche perché a me vicina territorialmente, e che qui utilizzo come esempio: l’occupazione dell’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma, nel 1969. Un fatto per l’epoca inaudito e inconcepibile (e probabilmente sarebbe così anche oggi…): la presa di parola collettiva e solidale di medici, infermieri, degenti (ovvero i “matti”) e studenti – insieme – contro quella stessa medicina di classe che imprigionava donne e uomini proletari in una struttura simile a un lager, e non dava alcuna possibilità di vita dignitosa a chi soffriva di malattie mentali. Uno degli striscioni esposti fuori dal manicomio diceva: “il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è pazzo”. La storia del Paese, per quanto riguarda quegli anni, è disseminata di episodi del genere (come dicevo, il mio era solo un esempio), in cui quelle e quelli a cui fino a quel momento era stata negata la parola hanno rialzato la testa.
Con tutto questo, non voglio dire che ci sia stata una piena corrispondenza e coincidenza tra le istanze portate avanti dai movimenti, sul fronte delle politiche per la salute, i processi sociali e politici più ampi da essi innescati, i risultati legislativi raggiunti e la successiva applicazione di tali leggi. Rimando a quanto scrive Ivan Cavicchi nel suo recente libro Sanità pubblica addio, quando sottolinea che l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale non può essere considerata, in sé, una riforma compiuta e sufficiente, ma piuttosto l’inizio di un possibile ciclo, a cui avrebbero dovuto fare seguito ulteriori e indispensabili passaggi e riforme nella medesima direzione. Se infatti, da una parte, la 833 ha avuto il grande merito di superare le mutue private attribuendo la gestione della sanità allo Stato, dall’altra, non ha messo in discussione in modo altrettanto netto gli obiettivi e le prassi del sistema sanitario preesistente. La 833 ha cioè definito una direzione e una possibilità sulla scia di quanto prospettato dall’art.32 della Costituzione, ma i passi successivi, come dicevamo, non sono stati fatti.
L’epoca delle controriforme
Rispetto al nesso propulsivo e virtuoso tra lotte, sapere collettivo e riforme (pur con i limiti sottolineati rispetto ai risultati legislativi) di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, è però evidente anche la dinamica opposta. Ce lo indica quanto avvenuto in questi anni: la sconfitta del movimento operaio, l’espulsione del conflitto sociale dall’agire pubblico, l’indebolimento della politica come spazio collettivo e di lotta, la modifica strutturale dei rapporti di forza tra le classi, la vittoria dei padroni, non hanno prodotto effetti devastanti solo sul terreno dei salari, delle pensioni e dei diritti dei lavoratori, ma hanno innescato, tra le altre cose, elementi e dinamiche radicalmente distruttive anche del sistema sanitario pubblico. Pensiamo, per esempio, a uno dei primi atti significativi e strutturali con cui ha preso piede il ridisegno contro-riformatore della sanità: la trasformazione delle Unità Sanitarie Locali in aziende, e la sostituzione dei comitati di gestione con i direttori generali, nominati dalle giunte regionali. È stata cioè sdoganata e istituzionalizzata l’idea secondo cui l’obiettivo primo del sistema sanitario non è promuovere e garantire la salute delle cittadine e dei cittadini, ma far quadrare i conti. E per poter raggiungere tale obiettivo, organismi collegiali che possano rapportarsi, rappresentare e dialogare con il territorio non solo non servono, ma risultano dannosi. Serve invece “l’uomo solo al comando”, il direttore generale appunto, che risponde del proprio operato non più al territorio, alle comunità, ai consigli comunali, ma appunto al Presidente della Regione. Tale ridisegno del sistema sanitario è avvenuto mentre contemporaneamente prendevano piede, in termini più generali, politiche brutali di abbattimento della spesa pubblica e di privatizzazione, e al contempo venivano gettate le basi per cancellare la legge elettorale proporzionale e sostituirla con il maggioritario e l’elezione diretta dei sindaci.
Centrosinistra? Colpevole!
In merito alle politiche di distruzione della sanità pubblica e del welfare praticate in questi decenni, il centrosinistra porta responsabilità pesantissime. Se il Servizio Sanitario Nazionale è ridotto come è ridotto, non è colpa solo di Berlusconi ieri o di Meloni oggi. Pensiamo alla riforma del titolo V della Costituzione – teorizzata, incubata e sostenuta appunto dal centrosinistra – che, come sappiamo, ha generato 21 sistemi sanitari regionali differenti. Con tale riforma, il compito dello Stato è diventato quello – circoscritto e residuale – di definire i Lea, mentre alle Regioni è stata attribuita la “potestà legislativa”. Il risultato è che le disuguaglianze presenti in sanità non solo non sono state ridotte, ma sono aumentate in modo esponenziale. Ciò perché il vero obiettivo non era far contare maggiormente, in un quadro virtuoso, i territori regionali (come l’Ulivo propagandava), ma proseguire e fare un “salto di qualità” nella riorganizzazione e riduzione strutturale della spesa sanitaria pubblica, secondo i dettami delle politiche neo-liberiste, a cui il centrosinistra è stato, nell’arco della sua storia, evidentemente e continuativamente interno.
La follia della regionalizzazione neoliberista della sanità è diventata chiara a tutti durante l’emergenza pandemica; peccato che le buone intenzioni espresse in quel periodo – di fronte a un’opinione pubblica attenta come non mai allo stato di salute della sanità italiana – siano poi cadute nel dimenticatoio. Non a caso, il Parlamento sta procedendo a spron battuto verso l’Autonomia Differenziata, che sancirebbe ulteriormente e in via definitiva l’impossibilità radicale per la sanità pubblica di confrontarsi con i bisogni e la domanda di salute. Al Sud, certamente, ma pure al Nord. E se l’Autonomia Differenziata è in questa fase il tassello di una partita politico-istituzionale interna al campo della destra (lo scambio tra la Lega, sostenitrice della secessione dei ricchi, e Fratelli d’Italia, fan del presidenzialismo), non dimentichiamo che Bonaccini, da Presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottoscritto (e mai ritirato) nel 2018 le pre-intese per portarsi a casa dallo Stato l’autonomia su 16 ulteriori materie. Richiesta peraltro possibile proprio in virtù della riforma ulivista del titolo V soprarichiamata. Così come il progetto Autonomia Differenziata perseguito dal governo Meloni.
Ma le responsabilità del centrosinistra non si fermano qui. Pensiamo a quanto innescato dal Dl 229/1999, ovvero dalla “riforma Bindi”. Tale atto ha dato un’accelerazione profonda e ulteriore ai processi di privatizzazione della sanità italiana. Ha spalancato infatti le porte all’assistenza sanitaria sostitutiva e all’attivazione dei fondi integrativi del Servizio Sanitario Nazionale attraverso la stipula di contratti e accordi di lavoro collettivi, nella logica del “welfare aziendale”. L’obiettivo dichiarato era costruire la “seconda gamba” del sistema sanitario, ovvero far crescere il privato a discapito del pubblico. Uno schema che, da allora, in sanità, ha avuto tanta fortuna. Non solo: la riforma Bindi ha anche introdotto l’intramoenia, ovvero la “possibilità” per una/un cittadina/o che non riuscisse ad accedere in tempi decenti a una visita secondo le regole del Servizio Sanitario Nazionale, di farlo, sempre all’interno della stessa struttura sanitaria pubblica, pagando; come se si trattasse a tutti gli effetti di una prestazione privata. Il centrosinistra è arrivato cioè a creare una sanità di serie A – accessibile a chi può pagare – e una sanità di tipo B, nel quadro dello stesso Servizio Sanitario Nazionale.
Aggiungo a queste riflessioni – e ad altre che si potrebbero fare – un’ulteriore considerazione, che riguarda le responsabilità dei gruppi dirigenti riconducibili al centrosinistra, per così dire, in modo più “diffuso”. Penso alla parabola complessiva del mondo della cooperazione sociale, formatasi negli anni Settanta, sulla spinta delle lotte e delle mobilitazioni richiamate in precedenza, con l’obiettivo di dare risposte, anche in modo creativo, a quei nuovi bisogni e a quelle nuove domande di salute e cura su cui il pubblico non era in grado di intervenire. E alla sua successiva normalizzazione e allineamento alle politiche neoliberiste di distruzione della spesa pubblica e privatizzazione del welfare. Il sistema cooperativo è diventato cioè uno strumento prezioso, in ambito socio-sanitario (nelle Rsa, nelle case protette eccetera), per la riduzione del costo del lavoro, diventando così, spesso e volentieri, un semplice “sfornatore” di personale. E tutto questo, aggiungo, è avvenuto mentre la retorica del “terzo settore” e del “welfare di comunità” imperava proprio nelle posizioni, nelle politiche e nei programmi del centrosinistra.
Le parole che ingannano
In questi decenni, nel campo delle politiche sanitarie, c’è stato (e c’è) il ricorso continuo a concetti e parole che, tempo fa, appartenevano esclusivamente al vocabolario e alla bussola di chi voleva una sanità diversa e migliore. Penso, per esempio, alla parola “de-istituzionalizzazione”, ovvero all’idea secondo cui curare le persone senza rinchiuderle in strutture possa essere più rispettoso ed efficace, ai fini del progetto di cura stesso. Da qui, perciò, l’attenzione al territorio, alla comunità, alla domiciliarità. Il problema è che questo concetto, ridefinito e inquadrato nelle politiche neoliberiste applicate alla sanità e al welfare, è diventato un modo ulteriore per verniciare ideologicamente e mascherare la riduzione progressiva della spesa e la chiusura di strutture e servizi. Quindi, non per riorganizzare la rete dei servizi perseguendo l’obiettivo di mettere al centro la persona, ma per tagliare.
Quante volte abbiamo sentito l’assessore regionale di turno, o il direttore generale di turno dell’Asl, dire: “investiremo di più sull’assistenza domiciliare”, “investiremo di più sulla sanità territoriale”, mentre contemporaneamente venivano ridimensionati i servizi ospedalieri, con il risultato che alla fine non c’era né l’una né gli altri? Oppure – sempre in tema di promesse a vanvera – sostenere e barattare la chiusura di un Pronto Soccorso con l’apertura di un CAU, o la chiusura di un Ospedale con l’inaugurazione di una Casa di Comunità, garantendo che la qualità dell’offerta sanitaria non solo non sarebbe cambiata, ma sarebbe addirittura migliorata?
Va detto che siamo arrivati a una situazione ancora più paradossale. Oggi, anche quando vengono immesse nuove risorse economiche (aspetto in sé sacrosanto, dato il definanziamento di questi decenni, la chiusura dei posti letto, dei servizi eccetera), il sistema sanitario pubblico non fa passi in avanti. Questo perché, anche quando cresce la spesa, l’obiettivo rimane il ridimensionamento progressivo – fino alla sua distruzione – del SSN. Non a caso, in questi anni, sono stati fatti investimenti anche corposi nell’ambito dell’edilizia sanitaria (pensiamo alle progettualità del PNRR), ma non c’è stato un pari impegno per sostenere e garantire la presenza di servizi e personale. Nelle settimane scorse, ha invece avuto un certo rilievo mediatico l’annuncio che il governo Meloni starebbe predisponendo, in chiave pre-elettorale, lo stanziamento di nuove risorse per affrontare il problema delle liste di attesa. Peccato che l’intenzione sia mettere i soldi stanziati nel privato convenzionato e per il pagamento degli straordinari del personale del SSN. Perciò, come dicevamo, neppure l’incremento della spesa sanitaria è sinonimo di investimento effettivo nella sanità pubblica. Questo perché non è solo questione di risorse, ma di politiche.
Né angeli né nemici, ma lavoratrici e lavoratori
C’è un episodio di cronaca, avvenuto di recente, che mi ha particolarmente colpito: il medico del Pronto Soccorso di Fermo, nelle Marche, che – dopo aver concluso il proprio turno notturno – si è recato a casa di una ragazza, dimessa poche ore prima dallo stesso servizio, per verificarne lo stato di salute. Agendo in questo modo, le ha salvato la vita. Comprensibilmente e giustamente, il medico è stato elogiato pubblicamente dai familiari della paziente. Eppure, al tempo stesso, l’episodio in questione mostra, su più fronti, gli effetti del processo di distruzione della sanità pubblica. Domanda: perché l’iniziativa individuale del medico, al di fuori dell’orario di lavoro – e non l’intervento del Pronto Soccorso – ha consentito una valutazione approfondita e corretta dello stato di salute della paziente,? Sul “Corriere della Sera” è rintracciabile la risposta: “al pronto soccorso dell’ospedale Murri, affollato come tutti i centri di emergenza, non c’era stato il modo di verificare il caso della ragazza fino in fondo”. Ma non è finita: lo stesso articolo riporta che il medico in questione ha 73 anni, è in pensione e lavora per “una cooperativa di supporto del pronto soccorso”. Mettiamo in fila gli elementi emersi: sovraffollamento del Pronto Soccorso (forse perché i Pronto Soccorso nei territori limitrofi sono stati chiusi o pesantemente ridimensionati?), precarietà del personale, assenza di un investimento di prospettiva su medici e infermieri. Tutto è chiarissimo, purtroppo.
C’è una reazione – tra quelle possibili – totalmente funzionale alle politiche di devastazione e svalorizzazione della sanità pubblica. L’idea che tutto dipenda dal personale sanitario che si trova in prima linea, sempre più spesso sottoposto a operare in condizioni estreme e sovraccaricato di lavoro. In questo modo, se le cose vanno bene (magari grazie a un gesto al di là della prestazione lavorativa, come nel caso citato), il medico di turno diventa l’eroe del giorno. Se invece le cose vanno male – e questo diventa decisamente più probabile nella misura in cui si continua a tagliare risorse, servizi e personale – il medico di turno diventa un nemico da colpire. Non è un caso che le cronache quotidiane ci restituiscano, spesso e volentieri, episodi di aggressione e intolleranza nei confronti del personale degli ospedali. Una personalizzazione distorta e ottusa, che ha a che fare con la colonizzazione neoliberista dei cervelli e che finisce per assolvere i veri responsabili, e soprattutto le politiche che hanno generato tale situazione.
La necessità dell’iniziativa politica e sociale
In conclusione, noi di “Su la testa” riteniamo che sia fondamentale proseguire, stimolare e rafforzare l’iniziativa politica e sociale sul fronte della sanità. Mi soffermo, in tal senso, su alcuni punti schematici e senza pretesa di esaustività:
certamente, dopo i tagli brutali di questi decenni, la sanità deve tornare a essere finanziata in modo appropriato rispetto ai bisogni di salute, con l’obiettivo di dare piena attuazione all’art.32 della Costituzione. Ma la questione delle risorse, come dicevamo, non è sufficiente. Si tratta di provare a costruire un dibattito e una mobilitazione a sinistra sull’urgenza di una riorganizzazione strutturale della sanità che metta al centro il diritto alla salute per tutte e tutti, e non la privatizzazione progressiva del sistema sanitario;
un aspetto fondamentale di tale riorganizzazione deve essere il superamento dell’aziendalizzazione della sanità e della figura del direttore generale. Vanno definite modalità nuove e diverse di gestione e governo, che siano aperte alla partecipazione delle cittadine e dei cittadini, e dei territori;
il diritto della salute può essere perseguito solo investendo sul personale della sanità pubblica: assumendo, stabilizzando, valorizzando, motivando;
al fine di evitare l’estinzione definitiva di ciò che rimane della L.833/1978, e mantenere aperta la possibilità di una sanità pubblica degna di questo nome, è necessario sconfiggere il progetto delirante di Autonomia Differenziata portato avanti dal governo Meloni, e qualsiasi altro tipo di Autonomia Differenziata, riproponendo il tema forte di un sistema sanitario su base nazionale, e superando l’impianto che già oggi, senza bisogno del Ddl Calderoli, permette l’esistenza di 21 sistemi sanitari regionali;
stanno crescendo le iniziative dal basso connesse al diritto alla salute, come sportelli sui Lea, di cui leggerete nelle pagine che seguono, anche grazie al ruolo svolto dalle compagne e dai compagni di Rifondazione Comunista. Dobbiamo proseguire e insistere in questa direzione, sia perché tali iniziative, nel deserto politico attuale, sono un aiuto concreto per tante e tanti, sia perché possono diventare un volano efficace per far crescere una consapevolezza diffusa sulle vere cause dell’attuale disastro sanitario, creare senso comune e mobilitazione. Come scrive bene nel suo intervento Chiara Giorgi, la sanità e il diritto alla salute non sono materia da lasciare agli esperti, ma chiamano in causa tutte e tutti noi;
il diritto alla salute non può essere perseguito solo tramite le politiche sanitarie. Pensiamo, per esempio, a quanto le politiche territoriali, ambientali e legate alla mobilità, possano incidere – positivamente o negativamente – sulla salute delle persone. Va perciò costruito un approccio politico complesso e multidisciplinare al perseguimento della salute collettiva e individuale, alternativo alle politiche disastrose di questi decenni che, da una parte, hanno “sanitarizzato” il diritto alla salute, e dall’altra hanno tagliato e compresso la stessa sanità;
aspetti come la prevenzione, l’alimentazione e gli stili di vita hanno a loro volta un’incidenza fondamentale sulla salute delle persone. È evidente che una sanità strutturata su obiettivi, logiche e interessi privati non si muove su questo terreno, poiché mette al centro di tutto le prestazioni sanitarie da vendere ai clienti. Sta qui, appunto, la differenza sostanziale tra la sanità pubblica e la sanità privata: da una parte il perseguimento della salute delle persone, dall’altra le prestazioni sanitarie da vendere alle persone; da una parte, il soddisfacimento dei bisogni della popolazione, dall’altra, la trasformazione dei disagi della popolazione in merci da acquistare.
Noi sappiamo da che parte stare.