Conoscenza e beni comuni immateriali
Valentina Bazzarin*
“Il bene comune è la grande catena che lega insieme gli uomini nella società.”
Tito Livio, Libro XXI dell’Ab Urbe Condita
In questi giorni di didattica a distanza e di lunghissime sessioni di lavoro davanti a uno schermo, abbiamo lasciato tantissime tracce digitali, e probabilmente abbiamo fruito delle tracce e dei percorsi, a volte fuorvianti, lasciati da qualcun altro. Se abbiamo consultato Wikipedia, per esempio, abbiamo fruito di un contenuto che, secondo una parte della comunità di internet, rappresenta un bene comune digitale. Andrea Zanni, archivista e in passato presidente della Fondazione Wikimedia Italia, in un’intervista1 descrive così i beni comuni digitali: “sono luoghi di costruzione collettiva del sapere: sono gestiti da una comunità, che se ne prende cura e che rilascia le informazioni, solitamente, con una licenza libera tipo Creative Commons.”
In un mondo in cui la produzione materiale si affianca (spesso ne è predeterminata) sempre più frequentemente ai sistemi di intelligenza artificiale basati sull’elaborazione e alimentati dai dati raccolti da un manipolo di aziende private (GAFAM Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), diventa urgente interrogarsi sulla competenza e sull’agibilità degli attori politici; sulla qualità del dibattito pubblico e politico; sulle possibili risposte collettive alle attività predatorie messe in atto sui nostri corpi che minacciano i nostri diritti individuali e col- lettivi. I dati raccolti e elaborati da questi sog- getti provengono da varie fonti e sono di vario tipo: dati pubblici, privati, personali, sensibili e anche dati come bene comune.
Prima di passare a questi temi, facciamo però un passo indietro per capire se il concetto di “beni comuni” si possa applicare a risorse immateriali come la connettività e i dati, o se sia necessario codificare un nuovo vocabolario per categorizzare le risorse digitali. Teniamo conto che, comunque, si tratta di risorse che nascono grazie all’impiego di risorse materiali. Il dizionario Treccani definisce i “beni comuni” come “l’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità (in ingl. commons). Si tratta generalmente di risorse che non presentano restrizioni nell’accesso e sono indispensabili alla sopravvivenza umana e/o oggetto di accrescimento con l’uso. In quanto risorse collettive, tutte le specie esercitano un uguale diritto su di esse e rappresentano uno dei fondamenti del benessere e della ricchezza reale”2.
Internet e il WWW (la ragnatela mondiale,) nelle intenzioni del suo creatore Berners Lee, che per primo mise a disposizione di tutti il protocollo TCP/IP, avevano questi requisiti.
I dati come risorsa
Dall’inizio del millennio è evidente come i dati siano il nuovo petrolio, il “core business” di aziende cresciute tanto da diventare, in molti casi, i veri fornitori di servizi essenziali per i cittadini; in grado di condizionare le scelte elettorali o di minacciare la democrazia in molti paesi. Come hanno fatto a ridisegnare rapidamente gli assetti di potere, in un mondo in cui gli equilibri storicamente richiedono tempi lunghi, rivoluzioni e guerre per cambiare? Come sono riuscite a trovare il minimo comune denominatore tra cittadini, istituzioni, decisori politici, attori economici con culture così diverse? La risposta breve è: offrendo agli utenti servizi gratuiti ed estremamente efficienti. È importante sottolineare come la gratuità sia solo apparente, perché la ricchezza economica è crescente in modo direttamente proporzionale alla mole di dati che le aziende prima estraggono dagli utenti e poi trattano.
Statistiche descrittive e predittive
Ma come si trasformano i nostri dati in ricchezza economica? Semplificando, i dati raccolti attraverso le nostre tracce digitali individuali, quelli condivisi dagli oggetti in rete (internet delle cose) o i flussi di dati condivisi da soggetti pubblici e privati permettono essenzialmente di compiere tre azioni:
- Tracciare e descrivere con accuratezza i movimenti di persone e merci;
- Elaborare raffinate statistiche predittive sui comportamenti individuali, collettivi o le dinamiche dei sistemi, anche quelli più complessi;
- Alimentare o addestrare i sistemi di apprendimento automatici e di intelligenza artificiale.
Questa evoluzione appare inarrestabile e orientata a creare delle sovrastrutture capaci di determinare le nostre scelte future sia individuali che collettive.
L’altra caratteristica del mondo descritto e prescritto dai dati è la quasi totale assenza di dibattito di metodo e di merito e di un discorso che ponga in premessa una riflessione sull’etica dei dati. In alcuni casi si valutano le ricadute etiche e sociali dei sistemi di estrazione della conoscenza attraverso i dati, ma l’esercizio politico di cui si sente la mancanza è quello di orientare le tecnologie e le azioni riflettendo sul sistema di valori in cui insistono e che vanno a modificare.
Etica dei dati
Nonostante l’assenza di un dibattito adeguato e di adeguate premesse sull’etica dei dati, gli organismi dell’Unione Europea (Parlamento, Consiglio e Commissione) e altri paesi come gli Stati Uniti o la Cina, negli anni si sono dotati dicomitati di esperti e di set di istruzioni minime, magari ridotte in check-list, per valutare l’eticità dei dati e delle tecnologie, ovvero garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali.
Un set minimo di requisiti prevede che siano garantite trasparenza (transparency), responsabilità (accountability), equità (fairness), autorevolezza (trustability), diversità, qualità dei dati e protezione dei dati3.
Questo set di requisiti ovviamente non rappresenta una soluzione al problema della mancanza di legislazione adeguata a limitare o a bilanciare o a redistribuire la ricchezza dei GAFAM e delle altre compagnie che sfruttano le risorse di dati da noi prodotte, ma concede qualche appiglio giuridico e amministrativo alle istituzioni e ha consentito ai movimenti di cittadini di costruire alcune coraggiose campagne di advocacy dei diritti individuali e collettivi.
In particolare, avviandomi alla conclusione, descriverò brevemente due campagne di advocacy poco conosciute, ma interessanti per il dibattito. La prima è la campagna “Dati Bene Comune”, promossa dagli attivisti e dalle attiviste del mondo dei dati aperti e del governo trasparente, che ha come obiettivo quello di monitorare le informazioni durante la pandemia di COVID19. La seconda campagna è “Dati Per Contare”4, promossa da Period, un Think Tank Femminista nato a marzo 2021. La campagna adotta l’approccio del Data Feminism, una evoluzione dei movimenti femministi intersezionali, che incrociano le campagne sui dati insistendo sui requisiti della “diversità” e della “qualità dei dati” per costruire azioni di advocacy contro la discriminazione algoritmica.
Campagna dati bene comune monitoraggio civico
Come si legge nella pagina principale del sito della campagna “Dati Bene Comune”5, l’obiettivo è chiedere al Governo Italiano “dati aperti e machine readable sull’emergenza Covid-19 per monitorare realmente la situazione e poterla gestire al meglio. Siamo 48.973 firmatari e 188 organizzazioni promotrici.”
La campagna, che ha già ottenuto qualche timido risultato, nasce da una richiesta di “trasparenza” contenuta in una lettera che va oltre il lato tecnico del dato, ma pone l’accento sull’esasperazione nel non aver accesso alle informazioni per monitorare i processi o per porre le giuste domande ai decisori politici: “La cittadinanza, stremata, chiede risposte mirate, meno gravose di tutti in lockdown”. Elaborarle richiede dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili a ricercatori, decisori, media e cittadini. Il nuovo sistema di classificazione del territorio nazionale in tre aree di rischio rappresenta, in questo senso, un’opportunità, perché comporta un sofisticato sistema di monitoraggio nazionale e quindi genererà, si presume, molti dati di qualità.
Il governo è consapevole di tutto questo. Un recente documento di indirizzo pone “la trasparenza e l’accessibilità dei dati al centro della strategia di gestione del rischio pandemico”. Pandemia a parte, l’Italia si impegna da tempo per la trasparenza amministrativa. In sede internazionale, per esempio, siede nel board dell’Open Government Partnership. Purtroppo, adottare un indirizzo, non è sufficiente: bisogna anche tradurlo in pratica. E questo significa lavoro duro: misure attuative, integrazione di flussi informativi, data stores. Come sempre, la differenza tra il dire e il fare è… il fare.
Etica dei dati e femminismo dei dati
Il tema della qualità dei dati e della necessità di una loro maggiore diversità è invece al centro delle campagne promosse dalle realtà che in Europa o nel continente americano operano nel mondo del femminismo dei dati. Fin dalla premessa di un articolo scritto da Alice Corona6, viene spiegato bene come il femminismo dei dati porti un contributo al discorso politico, poiché, come scrive l’autrice, “lavorare con i dati attraverso un approccio femminista non vuol dire necessariamente occuparsi di donne o di questioni di genere: vuol dire occuparsi del potere. In particolare, di chi lo detiene e di chi no”.
Conclusione: un’integrazione ai piani per l’equità
I dati vengono spesso usati dalle istituzioni come elementi apparentemente neutrali. Le analisi di questi dati giustificano, quando non determinano, scelte politiche che impattano enormemente sulla coesione del tessuto sociale e sulla fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Ma i dati non sono neutrali o basi di conoscenza oggettiva, e i cittadini vogliono credere ancora che i rappresentanti politici eletti, soprattutto in situazioni di emergenza e crisi sanitaria, tutelino gli interessi collettivi e non quelli privati o corporativi.
I dati devono essere difesi come “beni comuni” come avvenuto, per esempio, con le risorse idriche, anche se sono beni immateriali. Non possono essere detenuti o trattenuti nell’indifferenza o nell’impotenza dei Governi da poche grandi compagnie che non restituiscono alla collettività nemmeno una minima parte della ricchezza generata dal possesso di questi e dal lavoro inconsapevole, gratuito e volontario da parte degli attori che li generano.
Note
1 Intervista disponibile nel sito della fondazione Wikimedia Italia https://www.wikimedia.it/news/filiera-dellopen-beni-comuni-digitali-la-rivoluzione-culturale-passa/ (ultimo accesso marzo 2021). Nella stessa intervista Zanni ci aiuta a considerare la cosiddetta “filiera dell’open”, e la descrive come “il processo con cui si passa dal produttore o custode della conoscenza (la biblioteca) e si arriva per vari passaggi alla pubblicazione di questa conoscenza in un posto molto visitato di internet come Wikipedia. Pensare a questo in termini di filiera secondo me aiuta a vederlo come un processo, sempre diverso, sempre adattabile, modulare, fatto di diversi step e difficoltà.”
2 La voce riportata è disponibile in forma integrale al link https://www.treccani.it/enciclopedia/beni-comuni_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/ (ultimo accesso marzo 2021)
3 Un articolo esaustivo su checklist per il monitoraggio etico dei dati è disponibile al link https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/data-management/etica-e-big-data-sette-principi-per-proteggere-i-diritti-umani-fondamentali/ (ultimo accesso marzo 2021)
4 Informazioni sulla campagna Dati per Contare sono disponibili al link thinktankperiod.org (ultimo accesso marzo 2021)
5 Informazioni sulla campagna Dati Bene Comune sono disponibili al link www.datibenecomune.it (ultimo accesso marzo 2021)
6 L’articolo è disponibile al link https://magazine.dataninja.it/2020/06/25/data-feminism/ (ultimo accesso marzo 2021)
* Valentina Bazzarin è ricercatrice indipendente, esperta di etica dei dati per ONG e istituzioni, consulente, formatrice in Data Literacy e Business Intelligence, professoressa di Cognitive Psychology nel programma USAC Reggio Emilia e cofondatrice dell’associazione Period Think Tank, che si occupa di Data Feminism in Italia, e del nodo Italiano nella rete internazionale che promuove l’educazione aperta e l’uso di risorse aperte nella formazione e nell’educazione (educazioneaperta.eu/).
Foto in apertura articolo di Manuel Molina Martagon, da wikimedia.org