Dal lavoro a domicilio allo smart working: qualche riflessione femminista

Imma Barbarossa*

Quando Federico Engels arrivò in Inghilterra, trovò una situazione lavorativa che lo impressionò: il lavoro ridotto a fatica umiliante e, soprattutto, connesso a situazioni di malattia, di invalidità, di morte. Engels descrisse tutto questo con emotiva partecipazione nel suo notissimo libro1. Ma ancora oggi il lavoro è la più grande fonte di discriminazione sociale: c’è chi si arricchisce, c’è chi si ammala, c’è chi muore. Un secolo fa le donne lavoravano ancora in casa per evitare il lavoro pericoloso in fabbrica; per non contendere il lavoro ai loro uomini; per conciliare il lavoro pagato con il lavoro, non pagato, di cura, che “naturalmente” veniva delegato alle donne.

Sicché il lavoro a domicilio era l’emblema della condizione lavorativa femminile, una sorta di “fabbrica invisibile”2.

Ed è davvero sintomatico che oggi, nella situazione pandemica in cui ci siamo trovati e ci troviamo, abbia trovato espansione una sorta di modalità di lavoro per donne e uomini, il cosiddetto “lavoro agile” (smart working), che per insegnanti e scolari assume la figura denominata Dad, didattica a distanza.

Su quest’ultima ritornerò, giacché importanti associazioni di psicologi e psichiatri hanno messo in evidenza i gravi danni mentali e fisici arrecati alle e agli studenti dalla Dad in questi ultimi due anni.

Il lavoro agile

Mi soffermo sul cosiddetto lavoro agile, già diffuso prima della situazione pandemica, ma generalizzato durante la pandemia e i cosiddetti lock down. Com’è noto, si attribuisce al lavoro agile il merito di aver interrotto il carattere fordista del lavoro dipendente e di aver ‘donato’ ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti una sorta di libera espansione fisica e mentale di sé.

Si tratta, a mio avviso, di una libertà illusoria, direi ‘condizionata’. Nonostante lo smart working sia stato ‘ufficialmente’ pensato come strumento di ‘sicurezza’ contro la pandemia, per le imprese si è trattato di riscoprire dei vantaggi in questa trasformazione del lavoro, sia con l’attacco alla contrattazione collettiva, sia per l’innegabile prevalere degli interessi aziendali e della produttività sulla soggettività del lavoratore e della lavoratrice.

Infine c’è il rischio che questo tipo di lavoro diventi una vera e propria trappola per le donne, una vera e propria forma di lavoro a domicilio sofisticato e tecnicizzato. Insomma dall’ago e filo alla digitalizzazione3. Come nella didattica a distanza, infatti, si evidenziano vere e proprie differenze sociali tra chi, isolato, può lavorare in ambienti confortevoli e chi, invece, convive con familiari, figli e figlie piccole e in età scolare e/o persone da accudire: e qui entra in gioco il ruolo delle donne e la discriminazione di genere. Il rischio è, insomma, che si metta in opera uno sfruttamento più sofisticato da parte del capitale attraverso l’uso di uno strumento, il lavoro a distanza, apparentemente e illusoriamente ‘agile’, ma faticosamente compromissorio4. È innegabile il rapporto che intercorre tra lo smart working e la flessibilità, con notevole influsso sulla soggettivazione o desoggettivazione del lavoratore e della lavoratrice.

Da remoto, da lontano

Si pensi ai processi educativi, formativi che richiedono vicinanza, relazioni duali, individuali, collettive, direi contaminazioni. Abbiamo visto in televisione una scena orrenda, di una allieva a cui la docente aveva imposto di parlare con una benda sugli occhi, a garanzia che non leggesse da qualche libro durante quella che una volta si chiamava ‘interrogazione’, oggi si chiama ‘verifica’ con un termine ipocritamente edulcorato, che di fatto rivela l’assenza dell’elemento di fondo che dovrebbe esserci tra docente e allievi, cioè la fiducia, quella che comporta una lucida forma di ‘affidamento’ da parte dell’allievo/a, una altrettanto lucida forma di consegna di stima da parte del/della docente.

Ma torniamo al lavoro da “remoto”, cioè da lontano, che, come dicevo, lungi dal permettere autonomia e autorganizzazione del lavoratore e della lavoratrice, accelerate dai processi digitali, in realtà si trasforma in un lavoro a cottimo. Introdotto dai dirigenti, finisce con l’aumentare il potere dei datori di lavoro, stabilendo un nesso obbligato e forzato, tra gli obiettivi, non concordati con il soggetto che lavora, e i risultati richiesti, con forme di auto-sfruttamento a causa del nesso tra compensi e prestazioni fortemente competitive. Il lavoro da casa, come si può immaginare facilmente, con i carichi di cura sulle donne, accresce così le disuguaglianze di genere, non solo tra uomini e donne, ma anche tra donne con prole e senza prole, visto che la cura è ancora riservata per tradizione e per ‘natura’ alle donne.

Il lavoro come condanna

E per riprendere il discorso sulla discriminazione di genere dobbiamo tornare molto indietro nella storia e nella preistoria, dobbiamo andare alle origini del genere umano, al Libro che ha segnato il corso della religione ebraico-cristiana, alla Bibbia, alla Genesi. Quando Dio decide di uscire dalla sua perfezione solitaria e crea gli elementi dell’Universo, crea “l’uomo” a sua immagine e somiglianza e gli affida il privilegio di dare un nome a tutti gli elementi creati; secondo la versione più diffusa del testo, dopo crea la donna dalla famosa costola.

L’origine dell’umanità peccatrice e obbediente si manifesta prima con la consapevolezza della nudità (il corpo nudo vissuto come vergogna) e poi con la condanna per la donna al parto con dolore e all’obbedienza all’uomo, per l’uomo con la condanna a mangiare il pane con il sudore della fronte, appunto con il lavoro. Ebbene, dopo tanti millenni il lavoro, se da una parte è strumento di autonomia, di crescita del senso di sé, dall’altra rimane una condanna, legata alla malattia (come nell’Inghilterra di Engels) e anche alla morte.

Oggi, nonostante gli enormi progressi della scienza e della tecnica, ogni giorno muoiono lavoratori e lavoratrici, sui cantieri, per le strade, risucchiate da micidiali ventilatori. Spesso per insufficienti misure di sicurezza, perché l’organizzazione capitalistica del lavoro richiede maggiori profitti a scapito dei corpi di chi quei guadagni produce. D’altronde ce l’ha insegnato Marx.

Il femminismo come rivoluzione generale

Dentro questa organizzazione capitalistica, ma storicamente prima del suo formarsi e consolidarsi, tutte e tutti abbiamo studiato che c’era una formazione che faceva leva sul dominio “naturale” (e, appunto, biblico) del genere maschile sul genere femminile, il patriarcato, che si è nutrito di sopraffazione, di uccisione, di norme, di linguaggi, di dominio simbolico, persino di cancellazione pubblica delle donne.

In questi giorni assistiamo con dolore alle manifestazioni pubbliche delle donne afghane, che vogliono lavorare, studiare, liberarsi non dalla religione, ma dall’uso fondamentalista, identitario, misogino che gli studenti coranici fanno della religione islamica. Le donne afghane resistono perché sanno di doversi togliere di dosso l’oppressione di secoli. Ma anche noi qui nel liberismo occidentale abbiamo da agire i nostriconflitti contro il patriarcato. A cominciare dalle discriminazioni nell’occupazione. Nel 2020, ad esempio, gli occupati maschi in Italia erano il 67,2%, le donne il 49%, nel Mezzogiorno i maschi il 56,3%, le donne il 32,5% (dati Istat). E a partire dalle discriminazioni mi permetto di aprire un discorso quasi conclusivo.

I movimenti femministi dall’Ottocento in poi si sono strutturati per chiedere la fine delle discriminazioni nei compensi e nelle condizioni, ma non hanno lottato solo per l’uguaglianza, hanno lottato per la liberazione, consapevoli che bisognasse combattere l’idea che agli uomini toccava lo spazio pubblico, la storia e alle donne il privato, la casa, la cura vissuta come obbligo subalterno. A questo si sono, ci siamo ribellate, consapevoli che la fine del patriarcato sarebbe stata la liberazione di tutto il genere umano, attivando il conflitto anche dentro il movimento operaio, che non era stato capace di analisi sessuate del patriarcato e che, nei più grandi dirigenti, aveva parlato di ‘questione femminile come questione sociale’.

Oggi, come scrive il movimento femminista internazionale e intersezionale Non Una di Meno5, la violenza di genere viene praticata anche attraverso la dismissione del welfare in nome del risanamento del debito, attraverso il modello patriarcale di divisione sessuale del lavoro, che assegna ‘naturalmente’ alle donne le attività riproduttive e di cura, costringendole di fatto tra le mura domestiche e caricandole del doppio lavoro, dentro e fuori casa, assegnando le donne migranti ad alcuni lavori subalterni, consegnando tutte a molestie e violenze.

Il lavoro è stato fatto coincidere anche, dal patriarcato, con la cittadinanza: pensiamo alla condizione dei migranti. È cittadino chi ha un lavoro, storicamente gli uomini. Non gli stranieri, non lo erano le donne. E certamente di qui nasce la tenace volontà di emancipazione dei primi movimenti di donne: il lavoro dava autonomia, dignità, soggettivazione. E oggi la proposta del reddito di autodeterminazione serve a costruire un percorso di liberazione dalla sudditanza alla famiglia, non condizionato alla ‘inclusione lavorativa’ che spesso è usata come manodopera sfruttata a basso costo.

C’è bisogno di un welfare universale e laico, che riconosca garanzie e diritti sociali anche alle persone migranti, alle soggettività lesbiche, gay, trans, queer e intersex. Per concludere, la questione delle migrazioni deve diventare centrale. Come scriveva Virginia Woolf, le donne non hanno patria, i confini e le frontiere sono state inventate dal patriarcato in armi. Non deve essere un reato attraversare un confine territoriale, così come non dev’essere un reato attraversare il confine della eteronormatività.

I confini identitari del patriarcato e della cittadinanza in armi devono essere abbattuti in nome della liberazione sociale, sessuale, simbolica. Il femminismo è nato per questo.


1 Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, trad. it .di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1992 (orig.1845).

2 Tania Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Ombre Corte, Verona, 2016.

3 Daniele Di Nunzio, Forme organizzative e soggettività del lavoratore, in Smart working ,tutele e condizioni di lavoro, 4° Seminario della Consulta Giuridica della CGIL, Roma, 12 febbraio 2021, pp.35/57.

4 Ibidem

5 Non Una di Meno. Abbiamo un piano


* Imma Barbarossa, già deputata del PCI, ha partecipato alla nascita di Rifondazione comunista; ha seguito il percorso dei Forum mondiali e delle “Donne in nero” in Palestina e nella ex Jugoslavia. Attualmente fa parte del movimento femminista “Non Una di Meno”


Foto di Camela.boban, da wikimedia.org

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