Finis Europae?

Riccardo Cavallo*

1. Il ritorno della storia

Sono decorsi oltre trent’anni dalla profezia di Francis Fukuyama che teorizzava la fine della storia e il trionfo dell’ideologia liberale quasi come una sorta di inevitabile destino non solo per l’Europa e l’Occidente, ma anche per l’intero pianeta. A smentire, per l’ennesima volta, il politologo nippo-americano (il quale pensava che, dopo la caduta del Muro di Berlino e il tramonto dell’URSS, tale ideologia non solo avrebbe portato progresso e benessere ovunque, ma avrebbe espunto, una volta per tutte, qualsiasi conflitto dal nostro orizzonte esistenziale), sovviene l’irrompere della Storia, il cui incedere – diversamente da quanto scritto da Robert Musil – non somiglia a quello di «una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare», bensì al movimento di «una palla di biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria». In effetti, nel caso del conflitto russo-ucraino, la Storia non inizia, contrariamente al pensiero mainstream, il 24 febbraio 2022, con l’invasione russa, ma se vogliamo limitarci all’ultimo decennio, già diversi anni prima nell’Ucraina sud-orientale e, in particolare, nel Donbass, dove da anni nel silenzio e nell’indifferenza generale, si combatte una guerra civile che ha lasciato finora dietro di sé migliaia di morti e feriti. Al di là delle possibili interferenze politiche degli Stati Uniti nel Donbass, occorre rimarcare come questi ultimi, dalla fine della guerra fredda e malgrado la dissoluzione del Patto di Varsavia, hanno ignorato l’ammonimento lanciato nel lontano 1997 dal diplomatico e storico americano George Kennan, che, dalle colonne del New York Times, avvertiva non solo che l’allargamento a Est dell’Alleanza atlantica potesse essere un errore fatale della politica estera americana, poiché una siffatta decisione avrebbe, da un lato, esasperato le tendenze nazionaliste, anti-occidentali e militariste nell’opinione pubblica russa con effetti negativi sullo sviluppo della democrazia in Russia e, dall’altro, «ripristinato l’atmosfera della Guerra Fredda nelle relazioni Est-Ovest spingendo la politica estera russa in direzioni a noi decisamente gradite». Peraltro, già la guerra che infiamma i Balcani all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, un’area strategica nel cuore dell’Europa, costituisce una rilevante novità, in quanto: «per la prima volta si affaccia sullo scenario balcanico una potenza occidentale, ma non europea: gli Stati Uniti d’America». La guerra umanitaria che quest’ultimi intraprendono contro la Repubblica Jugoslava senza autorizzazione dell’ONU violando così le principali regole del diritto internazionale rappresenta un vero e proprio spartiacque in quanto segna il passaggio dalla guerra moderna a quella post-moderna o costituente, la cui «innovazione più eclatante è sembrato il distacco della guerra dal territorio. […] Nella purezza degli alti cieli si cancellano anche le passioni visibili dello scontro di terra: i volti dei morenti, e le lacrime, le vittime innocenti, e anche l’umanità delle strade, dei quartieri, i segni accumulati dalla vita di secoli. Nella purezza dei cieli non c’è, non si vede il nemico: e per colpire il nemico basta premere un pulsante». L’attacco militare della Nato (sotto l’egida statunitense e con l’avallo dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea) contro la Federazione Jugoslava, segue un preciso e macabro registro: ai continui bombardamenti dal cielo si accompagnano le cupe vampe che avvolgono i luoghi-simboli della cultura jugoslava, come la biblioteca di Sarajevo divorata dalle fiamme o il crollo dello Stari Most, da cui prende il nome la città di Mostar. Ma ovviamente tutto ciò veniva oscurato dalla martellante propaganda dei media occidentali e l’intervento umanitario in Kosovo diviene un nobile pretesto per attaccare la Serbia rea di incarnare nella persona di Slobodan Milosevic il male assoluto e giustificare così il diritto di ingerenza da parte di uno Stato elevando di fatto la NATO a unico soggetto depositario dello jus ad bellum. Del resto, il veicolo principale dell’egemonia degli Stati Uniti nell’epoca della globalizzazione capitalistica è – per l’appunto – l’ideologia dei diritti umani e si pone in perfetta continuità con la sua tradizione missionaria e colonizzatrice. Il reale obiettivo era quello di occupare militarmente un territorio strategico come il Kosovo in modo da farne un avamposto americano in Europa ridisegnando così le nuove cartografie del potere imperiale. Tanto più, se agli occhi degli statunitensi (e degli stessi occidentali) i Balcani rappresentavano un territorio immerso nelle ombre di un passato contrassegnato da guerre etniche o da furori nazionalistici; una sorta di Europa minore abitata da popoli primitivi e da civilizzare anche grazie alla forza militare. L’intenzione degli USA è stata, in definitiva, quella di creare una frattura tra l’Europa e il mondo slavo-ortodosso proprio in prossimità delle «linee di faglia lungo le quali l’Occidente si sfrega con la Russia e con l’Islam». Più o meno, nella stessa direzione, si sono mossi gli Stati Uniti, dopo la caduta del Muro, nei confronti dei Paesi dell’Est al fine di creare un ulteriore distaccamento americano alle frontiere dell’Europa acuendo, ancor di più, la frattura tra il mondo capitalistico occidentale e quello socialista slavo-orientale. 

2. La hybris americana, l’Europa e la guerra

La volontà di potenza americana, lungi dal rimanere confinata nel teatro balcanico, si è estesa ben al di là di tale territorio, divenendo una sorta di monito nei confronti degli Stati che, a seconda degli interessi americani, sono apostrofati come Stati canaglia e dunque additati al pubblico ludibrio, attraverso campagne ben orchestrate dai mass-media e dalla rete grazie alla manipolazione della realtà anche attraverso la produzione e l’uso delle emozioni. In questo modo, vengono riscritte sui campi di battaglia le regole giuridiche che stanno alla base del diritto internazionale e la loro sistematica violazione non solo non comporta alcuna sanzione ma diventa paradossalmente quasi una specie di precedente vincolante per le future azioni. Di lì a poco, infatti, la storia sembra nuovamente ripetersi con la guerra tecnologica del Golfo (1991) che, con i suoi effetti speciali ben più spettacolari di quelli dell’ex-Jugoslavia, segna, per molti versi, il trionfo della vocazione imperiale dell’America e del capitalismo a stelle e strisce e da ultimo con il conflitto tra Russia e Ucraina. 

Per uno strano scherzo del destino, è emblematico che quella parte del nostro continente, già luogo-simbolo dello scontro titanico tra l’Armata rossa e la Wehrmacht decisivo per le sorti della Seconda guerra mondiale e dell’Europa, sia, anche oggi, lo scenario in cui la guerra nuovamente infuria. Sembra quasi che il treno della storia sia ritornato al capolinea come documentato da Vasilij Grossman, insolito reporter di guerra che, in qualità di corrispondente del giornale dell’Armata rossa Krasnaja Zvezda, nel suo libro intitolato Stalingrado, nel ricostruire con dovizia di particolari quei tragici accadimenti, riesce in alcune pagine di rara intensità e bellezza, a tratteggiate il forte contrasto tra il fuoco dei combattimenti e la calma irreale di una natura muta di fronte allo scempio della guerra: «Lo spettacolo di una notte tersa, di un fiume maestoso, di terre possenti, basse, ondulate e luminose anche nell’ora più buia si accompagna di solito a una sensazione di calma somma, di silenzio, di un avanzare fluido, lento. La notte russa sul Volga, invece, era tutto meno che silenziosa. Sulle colline di Stalingrado, sui palazzi bianchi di luna che si stendevano per decine di chilometri lungo la riva del fiume, si accendeva tremulo il riverbero incandescente del fuoco della battaglia […] Il blu di quella notte d’autunno era intessuto di migliaia di fili rossi […] I bombardieri rombavano sordi, pesanti, disegnando i loro cerchi sopra Stalingrado […] Dall’Oltrevolga si alzarono allora centinaia di parabole di fiamme e faville, che si levarono in fronte unito e ampio dal bosco scuro e puntarono verso il Volga, su cui disegnarono un grande arco rosso».

A dispetto delle roboanti dichiarazioni dei leader europei che, a più riprese, hanno sostenuto l’inesistenza di fratture o spaccature a volte insanabili tra i Paesi dell’Unione, quest’ultimi, in realtà, con non pochi e difficili equilibrismi, hanno proceduto, il più delle volte in ordine sparso piuttosto che secondo un idem sentire politico, ricorrendo, tra l’altro, all’arma spuntata delle sanzioni economiche che vanno dal blocco dell’accesso Swift verso alcune banche russe e bielorusse, al divieto di importazione di carbone e petrolio dalla Russia, fino al varo di misure restrittive riguardanti lo stesso Putin, i membri della Duma e gli oligarchi russi che rischiano di essere non affatto efficaci finendo, prima o poi, per produrre un effetto boomerang con innumerevoli danni sia sotto il profilo economico (la sospensione degli innumerevoli rapporti commerciali intrattenuti dall’Europa nonché dall’Italia con la Russia), sia sotto il profilo ambientale (il paventato ritorno al consumo di carbone). A sclerotizzare ulteriormente la già non facile situazione, sovviene l’uso strumentale delle notizie da parte dei mezzi di informazione occidentali (così come di quelli filo-russi), di cui sono rimasti vittima gli intellettuali e gli stessi giuristi che si dimostrano del tutto accondiscendenti e remissivi a un sistema di comunicazione, come le anime belle di hegeliana memoria, evitando non solo qualsiasi forma di pensiero critico, ma ricorrendo altresì ad un usurato lessico fatto di buone intenzioni e scegliendo la più agevole via della conservazione dei rapporti di forza. Tali aspetti erano stati lucidamente preconizzati da un grande giurista e filosofo, oggi ingiustamente dimenticato, come Pietro Barcellona che, all’incirca venti anni fa, scriveva: «Quando il potere è saldamente in mano alle potenti lobby degli affari e della finanza, dei circoli mediatici e della manipolazione delle informazioni, i giuristi si abbandonano al cosmopolitismo umanitario e si arruolano nel grande esercito delle buone intenzioni e delle buone maniere, magari fornendo un’inconsapevole legittimazione ideologica al mantenimento dello stato di cose esistenti: un’Europa inconsistente, un’America lanciata all’assalto di ogni possibile avversario politico, una guerra infinita che nessuno osa criticare perché ormai chi esce dal coro è bollato come anti-americano, antioccidentale e anti liberale».

Oggi più che mai, tali parole acquistano una loro pregnanza se si pensa che prima la crisi finanziaria, poi la pandemia e da ultimo i venti di guerra, che continuano a soffiare impetuosamente nel cuore dell’Europa, hanno dimostrato che essa non riesce a tagliare il cordone ombelicale che la lega agli States. Anche per questi motivi, il conflitto odierno rischia di non rimanere relegato nei soli confini ucraini, ma addirittura come fuoco che cova sotto la cenere potrebbe propagare i suoi effetti su scala globale ridisegnando, di conseguenza, sulla base dei rapporti di forza, l’intricato sistema di pesi e contrappesi politico-istituzionali su cui si regge l’Europa e da cui derivano anche i suoi legami con gli Stati Uniti da una parte e resto del mondo dall’altra. 

3. Tramonto o rinascita dell’Europa?

Secondo la mitologia greca, Zeus, in una delle sue seduttive trasformazioni, assunte le sembianze di un toro bianco, rapisce la principessa Europa come immortalato, con un drammatismo senza precedenti, da Tiziano nel suo Ratto d’Europa e nella scena clou del rapimento: la giovane fanciulla, nella sua opulenta bellezza, urla disperata mentre si trova, contro la sua volontà, sul dorso dell’animale, si dimena mentre dei putti, altrettanto allarmati, sembrano volerla salvare da un destino che è, purtroppo, ineluttabile. Il toro, prima mansueto, ha lasciato le sponde sicure della patria di Europa, sta attraversando il Mediterraneo per approdare infine a Creta. Fuor di metafora non è arduo intravedere nei panni del toro-Zeus l’impero statunitense che dopo aver sedotto Europa, cerca di trascinarla sistematicamente non più verso le tranquille sponde del Mediterraneo, ma verso gli ostili lidi dell’oceano Atlantico coinvolgendola, suo malgrado, nell’ennesimo conflitto le cui conseguenze, oltre ad essere del tutto imprevedibili, potrebbero ritorcersi contro l’Europa stessa condannandola, tra l’altro, alla marginalità nell’attuale contesto geopolitico. A ben vedere, però, il destino dell’Europa non sembra essere definitivamente segnato come quello degli eroi nelle tragedie greche, ma la sua storia è ancora tutta da scrivere. Basti pensare al recente coup de théâtre di Donald Trump, da poco rieletto alla presidenza degli Usa, che decide di riaprire le trattative diplomatiche interpellando direttamente Putin e senza consultare i vertici europei. Tale decisione potrebbe rappresentare un primo ma importante passo per porre fine alle ostilità tra Russia e Ucraina, seppur essa si ponga in linea di continuità con l’imperialismo che ha sempre contraddistinto la leadership americana e il suo intento rimanga, pur sempre, lo sfruttamento delle ricchezze minerarie dell’Ucraina. Ma l’umiliazione in diretta mondiale di Zelensky da parte del tycoon, in spregio alle più elementari regole della diplomazia politica, è stata utilizzata, però, dai mandarini del capitale europeo (non più a guida USA) come una sorta di pretesto per procedere alla folle corsa verso il riarmo del vecchio continente. A sostegno di ciò sovvengono non solo le limpide parole di Ursula von der Leyen: «si apre un’era di riarmo; questo è il momento dell’Europa», ma anche l’altrettanto inequivocabile nome (ReArm Europe) che sta alla base dell’ambizioso quanto inquietante piano di riarmo europeo che prevede il sostegno militare all’Ucraina giustificato da un’ipotetica invasione russa e da attuare mediante il trasferimento di ingenti risorse della spesa pubblica a favore di quella militare. Oltre a trattarsi di una scelta che risulta, a dir poco, paradossale, se si pensa che a scandalizzarsi oggi sono gli stessi che ieri avevano avallato un comportamento analogo, dando spazio in talk show e trasmissioni televisive di qualsiasi tipo, alle ragioni dell’ex comico ucraino che, ricorrendo a un linguaggio intriso di un mix letale di vittimismo e di patriottismo, voleva convincere l’intero globo a sostenere senza se e senza ma la causa ucraina, essa appare del tutto scellerata in quanto rischia di condurre l’Europa in un vicolo cieco e forse di trascinare l’intero pianeta sull’orlo di una terza guerra mondiale. Il diktat di Trump, però, se da un lato, potrebbe provocare una pericolosa deriva bellicistica di questa Europa dominata dalle élite economico-finanziarie, dall’altro, invece, potrebbe rappresentare, paradossalmente, un’ancora di salvezza per costruire una diversa idea di Europa che sia finalmente in grado di fronteggiare lo strapotere planetario degli States. A prescindere dalla contingenza non bisogna, comunque, dimenticare che il processo di integrazione europea, per quanto sia stato segnato dalle politiche neoliberiste e dalla guerra, si è sviluppando in maniera alquanto contraddittoria favorendo sacche di resistenza che lasciano presagire l’esistenza di scenari ben diversi e inedite alleanze rispetto al passato. In altre parole, se l’Europa vuole davvero rendersi autonoma e indipendente e assurgere al ruolo di protagonista in una scena globale dovrebbe innanzitutto liberarsi dal fardello atlantico e dalla funzione di sudditanza (economica, culturale e psicologica) nei confronti degli Stati Uniti cercando, per un verso, di affermarsi come un unico grande spazio politico in un mondo proteso sempre più verso il multipolarismo, per l’altro, di instaurare un fecondo e costante dialogo con le principali potenze (in primis la Russia), anche per scongiurare il pericolo incombente di nuove guerre che possano, in un modo o nell’altro, lambire o interessare il territorio europeo. Se così stanno le cose, forse il nuovo Nomos della Terra sembrerebbe essere racchiuso nei versi tratti da una poesia di Mao: «se il cielo mi fosse patria sguainerei la mia spada e ti taglierei in tre pezzi: uno in regalo all’Europa, uno all’America, ma uno lo terrei per la Cina, e sarebbe la pace a dominare il mondo».


*insegna Didattica del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania; è autore delle seguenti monografie: Hermann Heller (DeriveApprodi, 2024), L’Europa tra nomos e polemos (Utet, 2020), L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del Moderno (Bonanno, 2007).

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