Genocidio incrementale

Vera Pegna*

“Genocidio incrementale”: è così che il professor Ilan Pappe, profondo conoscitore dello Stato d’Israele, ha scelto di chiamare il lento e costante sterminio del popolo palestinese ad opera dello Stato ebraico. Dal 7 ottobre, da quando Hamas ha attaccato i kibbutz confinanti con la striscia di Gaza e, in risposta, il governo Netanyahu ha ucciso 15.000 palestinesi (in realtà molti di più se si pensa alle persone disperse sotto le macerie della loro casa, ai malati in terapia intensiva, ai dialitici e ai neonati prematuri  deceduti negli ospedali per i tagli alla energia elettrica), l’uso della  parola genocidio è stato contestato da più parti. Contestazioni comprensibili fintanto che si ragiona in modo episodico come d’uso nelle narrazioni eurocentriche, avulse dalla storia della Palestina dall’inizio del secolo a oggi. 

Una terra senza popolo per un popolo senza terra

Questa storia comincia in Europa in piena epoca coloniale quando, dopo secoli di antisemitismo, di ghetti e di pogrom da parte dei governi europei, alcuni intellettuali ebrei, convinti che la loro sorte è di essere sempre e dovunque perseguitati, presentano il Progetto di uno Stato ebraico in Palestina. Lo presentano alle potenze di allora impegnate a dividersi i territori che concupiscono, per primi quelli del Levante ricco di un futuro per loro promettente. La Gran Bretagna e la Francia accolgono con favore l’idea di uno Stato amico in mezzo al mondo arabo, una sorta di cuneo europeo a guardia dei loro interessi. Però, a mano a mano che l’idea prende forma e che si rivela l’obiettivo finale del Progetto sionista, ovvero non solo il progetto di uno Stato per gli ebrei, ma di uno Stato deprivato dalla popolazione nativa – i palestinesi – le cose si complicano e diventa necessario occultare la realtà. La realtà è costituita appunto dal popolo palestinese, già obliterato dai sionisti con lo slogan “Una terra senza popolo per un popolo senza terra, slogan peraltro buono per gli europei ma non certo per chi, come la mia famiglia, viveva in Egitto e in Palestina ci andava magari per affari, come faceva mio nonno. In quanto alla seconda affermazione dello slogan, “un popolo senza terra”, era ovviamente fallace poiché gli ebrei, lungi dall’essere un popolo, erano sparsi in tutto il mondo e le migliaia o decine di migliaia di comunità ebraiche autonome neanche si conoscevano fra di loro. In comune non avevano né una lingua, né una cultura e, soprattutto, avevano storie diverse non essendo, per fortuna, state perseguitate fuori dall’Europa: non in America, non nel Levante o altrove. Ma allora, questo popolo ebraico per il quale si faceva uno Stato, dov’era, chi era? La questione fu risolta a tavolino dai dirigenti sionisti i quali dichiararono che, d’ora in poi, il popolo eletto della Bibbia, il popolo di Dio, erano tutti gli ebrei viventi, che costituivano un popolo in carne e ossa, con ciò che ne consegue, come prima cosa il diritto ad uno Stato. Non solo, lo Stato ebraico  avrebbe rappresentato tutti gli ebrei del mondo e avrebbe legittimamente parlato in loro nome. Nessuno batté ciglio e, a oggi, quella definizione del termine “popolo ebraico permane, perlomeno per gli europei.  Consiglio la lettura de L’invenzione del popolo ebraico di Shlomo Sand.

La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è proseguita sistematicamente. Nel 1919, al Trattato di Versailles, la delegazione sionista presenta delle mappe della Palestina con la legenda “Pasture land for nomads”, terra a pascolo per nomadi.

Ma il primo atto ufficiale, internazionale che cancella l’esistenza dei palestinesi avviene nel novembre 1947 con la spartizione della Palestina da parte dell’ONU, in violazione del proprio sacro principio di autodeterminazione dei popoli. I palestinesi non vengono invitati alla seduta, ma gliene giunge notizia e mandano una delegazione di alte personalità per perorare la loro causa: all’arrivo viene loro negato il visto d’ingresso negli USA.

Mi soffermo su questi dettagli per dimostrare a che punto tutto era previsto, studiato, messo in atto per assicurare il futuro dello Stato ebraico in Palestina, che andava realizzato a ogni costo, in spregio dei principi di diritto di cui l’Europa si considerava la gelosa custode. 

Euro-Palestina 

La spartizione attribuì ai sionisti il 56% della  Palestina, però il Progetto dello  Stato ebraico prevedeva il possesso dell’intera Palestina storica; allora, massacrando ed espellendone gli abitanti, i sionisti si appropriarono  di altri 22% del territorio palestinese e poi celebrarono la loro Dichiarazione d’indipendenza. I presenti erano 37 di cui, 13 erano nati in Russia, 11 in Polonia, 2 in Romania, 2 in Germania, 2 in Lituania, 1 in Austria, 1 in Ungheria, 1 in Danimarca, 1 in Yemen.

Il milione e mezzo di palestinesi presenti erano tutti nati in Palestina ma per i sionisti  europei intrisi di quella cultura coloniale che li considerava popoli inferiori non contavano. Ciò che importava erano gli interessi economici delle potenze di allora, mascherati dai discorsi strumentali sulle sofferenze degli ebrei e quanto fosse giusto  dare loro una patria dopo i secoli di patimenti e dopo la Shoah.

Se tale versione dei fatti fosse accettabile per gli ebrei europei, certo non lo era per gli ebrei levantini; lo dimostrano le parole lungimiranti del noto studioso ed esponente dell’ebraismo egiziano, il gran rabbino di Alessandria Moise Ventura il quale, nel sermone di capodanno del 1942, dichiarava: “Dopo il deplorevole fallimento della civiltà occidentale, tocca di nuovo all’Oriente assumere una parte importante nella vita culturale della nazioni. L’oriente significa Egitto, Palestina, Siria, Iraq; più precisamente, i semiti – ebrei e arabi – sono di nuovo chiamati insieme a svolgere un ruolo vitale sulla scena della storia…Qualsiasi persona sana di mente deve riconoscere che oggi i nemici degli ebrei sono anche i nemici degli arabi – cioè i nemici della civiltà”1.

Ho voluto ripercorrere le prime tappe dell’impresa sionista perché l’opinione pubblica europea – e ancor di più quella italiana – è tenuta all’oscuro di fatti che hanno segnato e continuano a segnare la storia della Palestina. Il primo è che lo Stato d’Israele è una imposizione europea realizzata con un colonialismo d’insediamento brutale, in violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario e resa possibile dalla complicità attiva anche dell’Italia. Lo si loda come l’unica democrazia del Medio Oriente, ma ci vuole una buona dosa di eurocentrismo per considerarlo tale considerando che la stragrande maggioranza della sua popolazione accetta che occupi territori altrui da 70 anni e commetta crimini contro l’umanità.

L’antisionismo non è antisemitismo

Un altro fatto fondamentale di cui non si parla, anzi che viene sistematicamente negato è l’opposizione al sionismo espressa da ebrei e da non ebrei sia negli USA che in numerosi paesi europei. Poco si sa delle critiche e della contrarietà dichiarate da numerosi rabbini e comunità israelitiche dopo la pubblicazione della Dichiarazione Balfour. Allora, anche fra le comunità israelitiche italiane non mancarono le voci di dissenso al progetto sionista. Il giornale piemontese “Il Vessillo israelitico”, portavoce dell’ebraismo emancipato, prendeva posizione contro il sionismo e il rabbino Flaminio Servi, alla guida dei rabbini italiani contrari al sionismo, affermò che il sionismo favorisce l’antisemitismo, perché accredita l’accusa mossa agli ebrei di dover dividere la loro fedeltà e di essere inassimilabili. Mi piace ricordare le riflessioni di queste persone impegnate e sincere che contrastano, eccome, con le accuse di antisemitismo profferite da chi osa criticare sia il Progetto sionista, sia i crimini commessi dai governi israeliani per la sua realizzazione.

Fin qui l’Europa. Eppure esiste un’altra realtà che va conosciuta non fosse che per il peso che potrà avere nel futuro della regione, quella  delle comunità ebraiche levantine. La loro reazione all’idea di uno Stato ebraico fu di indifferenza quando non di rifiuto. Da secoli vivevano in armonia con i loro concittadini musulmani, magari con qualche alto e basso, ma rispettati secondo la tradizione levantina di accoglienza e convivenza. Vi erano arabi di religione ebraica come vi erano arabi di religione cristiana ortodossa ma si consideravano arabi a tutti gli effetti. Nel 1500 a questi si aggiunsero gli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna dall’Inquisizione e la storia di entrambe queste comunità è stata ben diversa da quella vissuta dagli ebrei europei, tant’ è vero che  le parole che raccontano i patimenti da questi subiti – antisemitismo, ghetto e pogrom – non esistono in arabo. Negli anni Cinquanta, quando l’immigrazione europea verso lo Stato d’Israele si stava esaurendo e servivano uomini per lavorare la terra e per mandare in guerra, i governi israeliani decisero di far immigrare gli arabi di religione ebraica, nonostante i capi sionisti li disprezzassero come disprezzavano tutto ciò che non era europeo: chiamavano gli ebrei arabi “human dust”, polvere di uomini, alla stessa stregua dei palestinesi.

Il melting-pot israeliano

Durante i primi decenni, lungi dal dissolversi per poi ricompattarsi nel melting-pot euro-israeliano, la diversità di origine degli abitanti dello Stato ebraico si è congelata in  stratificazioni sociali esclusive e di classe, complice l’uso di alcuni assiomi sottendenti il discorso sionista ufficiale, primo dei quali è il continuo opporre arabo a ebreo, arretratezza a  modernità, selvaggi a civili, est a ovest. Il fatto che la cultura degli israeliani di origine mediorientale sia affine a quella dei vicini arabi e non a quella dei loro concittadini di origine europea viene vissuta dai dirigenti israeliani come una minaccia all’identità europea di Israele: a conferma di ciò, quando, alla fine degli anni Sessanta, gli israeliani di provenienza araba chiesero con insistenza di partecipare alle trattative di pace con i palestinesi per fare da ponte fra le due popolazioni, la loro richiesta fu  sistematicamente negata. Non solo: per allontanare lo spettro della levantinizzazione del paese, venne accelerata l’immigrazione di un milione di russi, di cui 200.000 non ebrei (indicavano madri ebree finte), a riguardo dei quali si preferì chiudere un occhio poiché, in quanto bianchi ed europei, servivano allo scopo. E, con l’arrivo dei russi – e della carne suina fino ad allora vietata in Israele – sono salite le statistiche relative a reati di mafia. Poi, col passare degli anni e con uno studiato indottrinamento dei giovani cittadini sia nelle scuole che nell’esercito, le fratture sociali e identitarie si sono in parte attenuate.

Simili scelte smaccatamente filoeuropee, da parte della classe politica al potere, fanno sì che gli israeliani originari dei paesi arabi – ovvero la parte più consistente del  paese – poco si riconoscono nell’unica identità ammessa e rispettata, quella euro-israeliana; e, a peggiorare le cose, è il disprezzo ostentato per il loro vissuto nei paesi islamici, i loro valori e le loro consuetudini nonché il loro apporto, nei secoli, alla cultura araba, aramaica, farsi, ladina e turca. La loro storia è rimasta sotto traccia per decenni, alla stessa stregua dei crimini delle bande sioniste denunciati dai palestinesi nonché della pulizia etnica portata avanti nei loro confronti dallo stato d’Israele;  ci sono volute le ricerche dei nuovi storici israeliani per legittimare – anche agli occhi europei e americani – la versione palestinese di quegli eventi dolorosi, mentre la conoscenza delle vicissitudini degli arabi ebrei trasferiti in Israele ci è data dalla ormai fiorente letteratura da essi stessi prodotta in ebraico e in gran parte tradotta in inglese e francese.

Onore alla resistenza

Negli ultimi decenni sono nate nuove generazioni, il mondo intero e i rapporti di forza sono cambiati e il Progetto di uno Stato ebraico in Palestina è stato portato quasi a compimento. Manca ancora un residuale 17% di territorio palestinese per completare l’appropriazione, da parte dello Stato d’Israele dell’intera Palestina storica, diventata nei fatti un unico Stato con un unico governo, quello israeliano, il quale impone regimi diversi ai palestinesi. I cittadini d’Israele (il 22% della popolazione) chiamati “arabi d’Israele, beduini, drusi, cristiani” per evitare la parola “palestinesi” sono privati per legge di alcuni diritti, per primo quello all’autodeterminazione, i palestinesi della Cisgiordania vivono in regime di apartheid, e quelli di Gaza, ghettizzati dal 2007 vivono in una prigione a cielo aperto mentre ai profughi viene negato il diritto al ritorno. Il tutto nell’indifferenza del mondo. Eppure la resistenza palestinese continua, soprattutto nella Striscia di Gaza dove gli abitanti non hanno mai cessato di battersi nonostante l’infamia delle aggressioni israeliane, le guerre e le devastazioni. Una resistenza che va riconosciuta e celebrata mentre la risposta genocidaria di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre mi auguro apra finalmente gli occhi sulla natura criminogena del Progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina.


1 Ammiel Alcalay, After Jews and Arabs, remaking Levantine Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1993


* Vera Pegna è attivista e scrittrice, vive come se le sorti del mondo dipendessero da lei, pur sapendo che non conta nulla.

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