Guerra e austerità: il circolo vizioso dell’Europa neoliberale

Michela Arricale*

L’elezione di Donald Trump nel 2024 segna un momento cruciale non solo per gli Stati Uniti, ma per l’intero sistema delle relazioni internazionali. Dopo il primo mandato caratterizzato da politiche sovraniste e conflittuali con gli alleati tradizionali, il ritorno di Trump alla Casa Bianca ripropone interrogativi già emersi tra il 2016 e il 2020, ma in un contesto profondamente mutato.

La reazione europea all’amministrazione Trump è stata, nel primo mandato, di timida resistenza. Leader come Angela Merkel hanno sempre parlato apertamente della necessità di una maggiore autonomia strategica per il continente, concretizzando passi chiave come la costruzione del gasdotto North-Stream 2 o la tessitura dei rapporti economici con altri partner, come la Cina. Tuttavia, l’elezione di Joe Biden nel 2020 ha decisamente cambiato le carte in tavola.

L’amministrazione democratica, infatti, se da una parte ha ripristinando un linguaggio più diplomatico e più collaborativo con l’UE, dall’altra ha impresso una direzione di chiara aderenza e sudditanza alle relazioni transatlantiche, di cui la guerra in Ucraina ha rappresentato un punto centrale. Hanno espresso unità di visione e di intenti da punto di vista della narrazione propagandistica, tutta incentrata su presunti valori democratici e diritti fondamentali, hanno creato un quadro ideologico credibile e unitario, che mascherasse o quantomeno rendesse sopportabile, le conseguenze pratiche di questo ri-allineamento: il gasdotto è stato fatto esplodere dagli ucraini con il supporto democratico USA, ogni rapporto commerciale con la Russia eliminato con conseguenze drammatiche in termini di rincari energetici e inflazione per l’UE, l’identificazione della Cina come nemico esistenziale e il raffreddarsi dei rapporti economici e industriali ha provocato gravi ripercussioni commerciali e sulle catene del valore. Tutto questo è stato sinora giustificato dalla necessità di difendere la democrazia e i diritti fondamentali dagli attacchi delle influenze maligne delle autocrazie illiberali.

Ora, il ritorno di Trump con la sua nuova dottrina di politica estera e la nuova postura, l’Europa si trova in una posizione complicata. Trump infrange l’unità ideologica e impone la ridefinizione dei rapporti sul fondamento della forza bruta, in un gioco in cui l’Europa non solo non può vincere, ma in cui non riesce nemmeno a sembrare un concorrente paritario. D’altra parte non può fare altro che assecondare i desiderata di Washington, ed è così che infatti fa nelle cose importanti: Trump pretende maggiori spese militari? Noi gli diamo il Re-Arm Europe da 800 miliardi, il 65% dei quali finirà in appalti a corporation come Rheinmetall e Leonardo Spa, i cui azionisti includono fondi speculativi come BlackRock e Vanguard. Trump pretende maggiori importazioni di merci? E noi compriamo più merci, a partire da una maggiore richiesta di gas liquefatto che pagheremo 4 volte il prezzo di mercato. Trump vuole la pace in Ucraina? Beh, qui diventa più complicato assecondarlo. La guerra e l’aumento della spesa militare hanno ormai impresso una direzione economico-politica difficile da modificare, ma certamente impossibile da giustificare di in assenza di un nemico esistenziale da cui difendersi, e oggi quel nemico è la Russia. Trump vuole imporre la pace in Ucraina proprio ora che l’Europa è in piena fase di conversione ad una completa economia di guerra?

LA GUERRA, UN GRANDE AFFARE PER LE ELITE ECONOMICHE

La guerra non è solo un fatto geopolitico, ma un meccanismo economico. L’aumento delle spese militari è il modo di riorientare l’economia verso settori ad alto profitto per il capitale. L’industria bellica è uno dei pochi settori che oggi garantisce margini di guadagno elevati, soprattutto in un contesto di stagnazione economica. Tuttavia, questo riorientamento ha un costo sociale enorme: i fondi pubblici vengono dirottati verso armi e apparati militari, mentre sanità, istruzione e welfare vengono ulteriormente smantellati e bisogna trovare il modo di giustificare di fronte ai cittadini queste contrazioni di diritti e dignità.

In questo senso la pace non è funzionale agli interessi del capitale europeo in crisi. La guerra, o la minaccia della guerra, diventa la nuova giustificazione per imporre ulteriori sacrifici alla popolazione: tagli al welfare, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro. In una parola: austerità.

L’austerità, lo sappiamo, non è una risposta “tecnica” alle crisi, ma un dispositivo politico per riaffermare il dominio del capitale. Quello che abbiamo vissuto con i memorandum della Troika, che ha trasferito €2.3 trilioni di risorse pubbliche ai profitti privati tra il 2008 e 2015, oggi lo vediamo all’opera con il progetto di riarmo, che adopera esattamente gli stessi meccanismi: l’aumento delle spese militari europee sarà finanziato attraverso nuovi tagli ai diritti sociali. Ma non solo, e qui viene il bello: la corsa al riarmo delle nazioni europee sarà finanziato da debito degli Stati, che non verrà preso in considerazione ai fini del Patto di Stabilità, facendo così definitivamente crollare il velo di maya della neutralità tecnica delle scelte di politica economica. Le stesse istituzioni che avevano elevato l’austerità a dogma inderogabile, con 189 procedure di infrazione aperte tra il 2012 e il 2019 per debito eccessivo, oggi promuove un indebitamento di 650 miliardi per finanziare un aumento delle spese militari. Questa dicotomia svela come il concetto di “sostenibilità del debito” sia sempre stato niente altro che un costrutto politico: ciò che viene definito “irresponsabile” quando finanzia diritti sociali diventa improvvisamente “strategico” se finalizzato alla produzione d’armi.

Se la guerra è funzionale al sistema, la pace diventa una minaccia. Una vera pace significherebbe ridurre le spese militari, e non avere più scuse per non investire in infrastrutture sociali e ridistribuire le risorse. Questo metterebbe in discussione il potere delle élite economiche, che hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo. La retorica della “sicurezza nazionale” serve a mascherare il vero obiettivo: mantenere il controllo sulle risorse e garantire profitti. In questo contesto, la pace non è un’opzione, perché li priverebbe di una scusa convincente per imporre l’austerità.

L’EUROPA INTRAPPOLATA NEL NEOLIBERISMO

L’austerità è, in effetti, un elemento di profonda affinità tra Europa ed USA. Anche Trump sta imponendo una spending review capillare, legittimando tagli al welfare e privatizzazioni attraverso un populismo anti-stato, enfatizzando la riduzione del debito come priorità nazionale e promuovendo un individualismo sfrenato. L’UE, invece, ha adottato un paradigma tecnocratico-moralista. Se la narrativa trumpiana ha sfruttato la sfiducia nelle istituzioni, quella europea ha mascherato scelte politiche sotto una presunta neutralità tecnica o la minaccia esistenziale. La differenza è nel packaging, non nella sostanza. Neoliberismo in versione urlata o catechismo tecno-finanziario, il risultato è sempre lo stesso: concentrazione di ricchezza nella mani di pochi ed aumento esponenziale ed inesorabile delle disuguaglianze.

Il vero problema risiede nell’irreversibilità istituzionale del modello europeo, plasmato per sottrarre le politiche economiche al controllo democratico, dove le regole tecniche sostituiscono la deliberazione politica, automatizzando l’austerità in risposta a indicatori quantitativi. L’architettura istituzionale dell’UE rende impossibile invertire la rotta senza un’alterazione dei Trattati, evento politicamente improponibile data la frammentazione intergovernativa. L’indipendenza della BCE, il Semestre Europeo e il Meccanismo Europeo di Stabilità esemplificano un modello di governance in cui le scelte chiave sono affidate a enti immuni alle pressioni democratiche. Tutto questo produce un paradosso sistemico: mentre le istituzioni UE si legittimano attraverso retoriche di “diritti umani” e “valori comuni”, la loro azione concreta erode il fondamento stesso della democrazia. La conseguenza è un circolo vizioso: le crisi (dal debito al riarmo) non inducono riforme, ma consolidano l’esistente.

Alla fine, tutto cambia affinché nulla cambi davvero. L’alternanza tra amministrazioni democratiche e repubblicane negli Stati Uniti, così come i dibattiti sulla “sovranità strategica” dell’Europa, danno l’illusione di un contrasto netto, di una dialettica aperta tra visioni del mondo inconciliabili. Eppure, al di là delle differenze retoriche e dei toni più o meno concilianti, il meccanismo di fondo resta lo stesso: l’austerità come metodo di disciplinamento sociale, la guerra come motore economico, l’accumulazione di capitale come obiettivo supremo.

Se con Biden l’Europa si è allineata nel nome della difesa della democrazia, con Trump si allineerà per necessità, per evitare di essere stritolata in una ridefinizione dei rapporti di forza che non può permettersi di perdere. La sostanza non cambia: il vincolo atlantico resta saldo, e il progetto europeo rimane intrappolato nella propria architettura neoliberale.

ROMPERE IL CIRCOLO VIZIOSO TRA TECNOCRATI E POPULISTI

L’elezione di Trump nel 2024 non è una deviazione, ma il sintomo di un sistema neoliberale che, in crisi, produce fascismi come anticorpi avvelenati. L’Europa, stretta tra la tecnocrazia di Bruxelles e il ricatto di Washington, è già prigioniera dello stesso circolo vizioso: più taglia il welfare per finanziare il riarmo, più alimenta la rabbia che sostiene l’estrema destra. Le Pen, Meloni e AfD sono gemelli europei del trumpismo: usano il malcontento per deregolamentare il lavoro, privatizzare i servizi e garantire profitti alle élite.

La lezione è chiara: senza una sinistra che rompa con l’austerità e proponga un nuovo progetto di società, il futuro sarà un circolo vizioso tra tecnocrati e populisti. L’Europa può ancora scegliere: continuare a essere il laboratorio del neoliberismo in crisi, o rivendicare il ruolo politico delle scelte economiche, liberarsi dai meccanismi di condizionalità e diventare il campo di prova di una nuova pratica di democrazia.


*Avvocata e co-presidente del CRED – Centro di RIcerca ed Elaborazione per la Democrazia, è impegnata sui temi dei diritti umani, dello stato di diritto e delle relazioni internazionali. Contribuisce sia a livello teorico, attraverso articoli e la partecipazione e organizzazione di convegni in Italia e all’estero, sia a livello pratico, partecipando a missioni internazionali di osservazione. È membro del Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista

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