I BRICS e la crisi dell’egemonia statunitense

Piero Pagliani*

Il ciclo sistemico statunitense e la sua crisi

Gli Stati Uniti sono storicamente l’ultimo centro egemonico attorno al quale si è organizzata una economia-mondo o “sistema-mondo”. L’ultimo di una sequenza che ha caratterizzato il modo di procedere del capitalismo occidentale. Il segmento iniziale di questa sequenza, Venezia, Stati Iberici, Province Unite d’Olanda, Inghilterra, era già stato individuato da Marx i cui occhi stavano allora  puntando sugli Stati Uniti. E aveva visto giusto.

Un centro egemonico subentra quando riesce a monopolizzare a livello mondiale il potere economico-finanziario, quello politico e quello militare. Entra in crisi quando questo triplice monopolio inizia a “perdere pezzi”. Il caos sistemico di cui siamo oggi testimoni è prodotto proprio dalla crisi del centro egemonico mondiale statunitense.

Gli Stati Uniti si erano definitivamente sottratti all’egemonia del precedente centro sistemico, la Gran Bretagna, con la vittoria nordista del 1865 nella Guerra di Secessione mentre in Europa la Germania iniziò a farlo dopo l’unificazione nel 1871. Queste due potenze emergenti accelerarono la crisi del ciclo della Gran Bretagna (“intrappolata” nel suo enorme impero, che assorbiva prodotti a basso valore aggiunto, cosa che non stimolava le innovazioni di processo e di prodotto) e si candidarono come suoi successori. Ne nacquero le due guerre mondiali del Novecento dalle quali emersero come vincitori gli Stati Uniti.

I lineamenti organizzativi del loro sistema-mondo furono stabiliti a Bretton Woods nel luglio del 1944 all’insegna dello strapotere finanziario e industriale degli USA che imposero come moneta internazionale la propria moneta nazionale, il Dollaro, agganciata all’oro nella misura di 35 dollari l’oncia. Era il gold-dollar exchange standard, un meccanismo che fece emergere in meno di trent’anni un problema insolubile: il rapporto tra l’oro di Fort Knox e la quantità di dollari circolanti e in deposito nel mondo diventava sempre più esiguo [1]. Nel 1971 Nixon dovette decretare la fine della convertibilità del Dollaro in oro. Era la crisi-spia del ciclo americano. Si faccia però attenzione: il Nixon shock non decretò affatto la fine della capacità egemonica statunitense, nemmeno quando si combinò con la successiva sconfitta in Vietnam.

Dopo il Nixon shock, il persistente monopolio politico-ideologico e militare (armi di distruzione di massa), la leadership tecnologica e l’importanza del mercato statunitense permisero agli Stati Uniti di trasformare il gold-dollar exchange standard in “Treasury-bill standard”: impossibilitati a cambiare in oro i dollari, le banche centrali dei Paesi in surplus avevano una sola possibilità di non vederseli svalutare, ovvero investirli in titoli del Tesoro statunitense [2]. Non solo, ma la posizione predominante  permetteva agli USA di dettare le politiche monetarie, costringendo i vari Paesi a svalutare o rivalutare la propria moneta a vantaggio degli Stati Uniti (si vedano il Plaza Accord e il Reverse Plaza Accord). A testimonianza che i tre monopoli formano un nucleo compatto con una forza superiore a quella della somma delle parti, che è difficile smantellare erodendone singoli pezzi.

Crisi sistemica e BRICS

I BRICS si devono dunque inquadrare nell’ambito della crisi del ciclo sistemico statunitense. In particolare si inseriscono nella crisi del Dollaro come moneta monopolista degli scambi internazionali, sia perché definiscono una grande area commerciale che progressivamente si sta sbarazzando della moneta statunitense come mezzo di pagamento, sia perché spezza la correlazione tra il Dollaro e le risorse fondamentali, come quelle energetiche. Tuttavia occorre chiarire alcune cose.

È errato pensare che la fine del Dollaro come mezzo internazionale di pagamento e di conseguenza il crollo del castello di carte finanziario costruito su di esso, sia solo una questione di tempo e di allargamento “spontaneamente economico” dell’area “dollar-free”.

Bisogna invece sottolineare almeno un punto: il mondo non ha ancora pronto un “contrappeso” politico-organizzativo all’enorme peso specifico degli USA. Su questo ritorneremo tra poco.

Potenze come la Cina sono consapevoli che un collasso precipitoso degli Stati Uniti amplierebbe e approfondirebbe il caos sistemico. Cosa che pone un dilemma ai dirigenti cinesi: la crescente aggressività di Washington contro Pechino li spinge a indebolire gli USA ma contemporaneamente devono sperare in un “atterraggio morbido” dei loro nemici, cosa che potrebbe essere impossibile a causa del crescente avvitamento tra finanza (Wall Street) e guerra (Washington).

Infatti, e questo è il secondo punto correlato, l’esaurimento del ruolo del Dollaro segue delle logiche economiche, ma come il Nixon shock ha dimostrato le logiche economiche sono subordinate alle scelte politiche e quindi l’abbandono del Dollaro è necessariamente accompagnato, direi accompagnato implicitamente, anche al di là delle intenzioni, da una sfida al monopolio militare e politico statunitense, dato che i tre monopoli si reggono a vicenda. E’ brutale ma le cose stanno così.

La guerra in Ucraina

E quindi dobbiamo rivedere brevemente sotto questo aspetto la guerra d’Ucraina. Lo farò citando i tre punti iniziali di un articolo che ho pubblicato nel febbraio del 2023, un anno dopo l’inizio della Operazione Militare Speciale russa:

Primo dato di fatto: la guerra della Federazione Russa contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

In Ucraina la Russia è stata costretta a sfidare il monopolio politico-militare degli Stati Uniti e il terzo dato di fatto sopra listato conferma l’enorme errore commesso dalla classe dirigente liberal statunitense quando ha deciso di trascinare la Russia in una guerra che per anni ha cercato in tutti i modi di evitare.

Quando il maresciallo Montgomery disse sarcasticamente in audizione alla Camera dei Lord nel 1962 che l’articolo 1 alla pagina 1 del Manuale di Guerra recitava: “Non marciare mai su Mosca”, sapeva quel che diceva. Anche i dirigenti occidentali erano consapevoli che l’80% della Wehrmacht era stato “sbudellato” dai Sovietici (Churchill) e che gli Alleati avevano combattuto “solo in periferia” (Eisenhower). Con la “vittoria” statunitense nella Guerra Fredda questa consapevolezza si è persa ed è stata formata una generazione di funzionari (che fanno parte del cosiddetto “deep state”) convinti che gli USA siano una potenza inavvicinabile, la “finest fighting force in the history of the world” di Obama. Così l’ampliamento continuo della Nato verso Est non è stato altro che un “marciare su Mosca” sostenuto da una rilettura tanto autocompiaciuta quanto falsificata della Storia. Quel “fateful error” che George Kennan, lo stratega della Guerra Fredda, diceva che non bisognava assolutamente fare (New York Times, 5-2-1997).

Marciare su Mosca non è solo un errore politico e militare. E’ un errore culturale che mette in mostra una sorprendente ignoranza degli avvenimenti storici e un’incapacità di capire la “mentalità” russa. Contro Napoleone i Russi si compattarono attorno ad Alessandro I, contro Hitler si compattarono attorno a Stalin, contro la Nato si compattano attorno a Putin. Parlare di brogli e cose simili per negare l’87% di consensi a Putin è una idiozia infantile (si sapeva perfettamente che il suo consenso era enorme e in crescita). E’ Storia, è logica, è antropologia, è cultura, è storia delle religioni, quel che volete. E’ così. Il risultato è che gli Stati Uniti stanno sfidando la Russia sul terreno più favorevole a Mosca. Un genuino ricorso vichiano.

La partnership richiesta dalla Russia all’Occidente (persino con la Nato) è stata rifiutata perché incompatibile col mondo unipolare che gli Stati Uniti vogliono mantenere con le unghie e con i denti.

Oggi la Russia sta quindi combattendo una “guerra patriottica” che è contemporaneamente una guerra sistemica: per i Russi la guerra in Ucraina è una guerra per difendere i loro confini dato che il tentativo liberal e neo-conservatore degli Stati Uniti di succedere a se stessi (cosa mai riuscita a nessun centro egemone) passa attraverso una sottomissione della Russia o addirittura un suo smembramento.

I BRICS: cosa sono e cosa non sono

I numeri

Attualmente i BRICS (o BRICS+) vantano il seguente PIL (per parità di potere d’acquisto, PPA, espresso in milioni dollari internazionali):

47.249.340 (Paesi fondatori: Brasile, India, Cina, Russia Sudafrica)+3.848.435 (nuovi membri 2003: Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti)+1.898.511 (Arabia Saudita, in attesa di ratifica). Totale:  52.996.286. Ovvero il 37,36% del PIL mondiale. La quota USA è del 15% e quella UE del 16%.

Infine le proiezioni a 10 anni descrivono un sorpasso stupefacente dei BRICS sull’Occidente. Tuttavia mi permetto di non dar molto credito alle proiezioni a 10 anni calcolate contando i fagioli e sempre “ceteris paribus” quando invece tutto cambia in continuazione.

Per quanto riguarda la popolazione rappresentata, i numeri sono questi:

3.236.945.818 (Paesi fondatori) + 292.785.239 (nuovi membri) + 36.410.000 (Arabia Saudita) per un totale di oltre tre miliardi e mezzo di persone, il 44,85% della popolazione mondiale su una superficie complessiva di oltre 45 milioni di kmq, più del 30% delle terre emerse.

I BRICS producono il 41% del petrolio mondiale, hanno le maggiori riserve di gas naturale, producono il 70% dell’acciaio mondiale (la sola Cina quasi il 54% da confrontarsi col 4,2% degli USA e il 7,5% dell’Europa e il 3,7% della Russia). E’ un dato curiosamente tenuto poco in considerazione. Eppure con che materiale si fanno i carri armati e gli obici? Le guerre, si fanno con queste cose, non spostando i soldatini su un tavolo. Similmente è interessante il dato sulla produzione di alluminio: la Cina da sola ne copre quasi il 60%, seguita (a un ordine di grandezza inferiore) dall’India e dalla Russia. Con cosa si fanno le fusoliere degli aerei e le strutture esterne dei missili? Credo con leghe di alluminio.

Per ultimo occorre citare il dato sui brevetti: La Cina al 2021 (ultimo dato mondiale disponibile) deteneva il 37,8% dei nuovi brevetti surclassando il 17,8% degli Stati Uniti.

Dato che i tre monopoli sistemici hanno bisogno del monopolio tecnologico e di quello sulle risorse sono evidenti le incrinature e le erosioni che il centro egemonico statunitense sta subendo.

Non solo. E’ anche evidente la dislocazione strategica di questi Paesi, l’equilibrata distribuzione geografica dei nuovi membri (si pensi all’ingresso dell’Etiopia che nessuno prevedeva) così come è evidente la tessitura geopolitica dei BRICS, basti considerare il preliminare accordo di pace tra Arabia Saudita e Iran sponsorizzato dalla Cina.

E l’allargamento dei BRICS è avvenuto in piena guerra d’Ucraina quando in Occidente si spergiurava che la Russia era isolata. La realtà era ovviamente un’altra: al 15º vertice del BRICS, tenutosi a Johannesburg il 22-24 agosto 2023, 22 Paesi hanno formalmente fatto domanda di adesione. Se si combina il fenomeno BRICS con la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) e una rinascita dei movimento dei Paesi non allineati, è innegabile che le spinte verso un modo multipolare si fanno sempre più decise.

I problemi

A fianco dei notevoli punti a loro vantaggio che potrebbero far supporre che i BRICS possano celermente diventare il famoso contrappeso agli USA di cui sopra, si oppongono diverse debolezze che discuterò brevemente.

Le istituzioni finanziarie di area BRICS, come la New Development Bank (NDB), sono ancora deboli (e uno dei  motivi è che la NDB è stata architettata attorno al Dollaro). Sono invece in crescita gli accordi bilaterali di scambi di valute che fanno capo alla Banca Cinese del Popolo così come gli accordi di compensazione del Chinese Cross-Border Interbank Payment System (CIPS). Bisogna poi distinguere tra Dollaro come mezzo internazionale di pagamento e Dollaro (o titoli denominati in dollari) come valuta di riserva, ancorché correlati. Se nel primo caso ci sono chiari progressi dell’utilizzo di mezzi di pagamento alternativi al Dollaro, nel secondo caso non è in vista nessuna singola valuta di riserva alternativa. Per vari ordini di motivi. Per prima cosa una singola valuta di riserva avrebbe bisogno di un centro politico, di una autorità fiscale, di un sistema legale e di un’economia omogenea a suo sostegno. Condizioni chiaramente non esistenti nei BRICS. In secondo luogo occorrerebbe la volontà di sostituire il Dollaro con un’altra valuta. A molti sembra naturale che sia quella cinese, l’economia più forte del pianeta. Ma le autorità di Pechino hanno più volte chiarito che non hanno nessuna intenzione di sostituire il Renminbi al Dollaro nemmeno in linea teorica. E giustamente dati i paradossi che ciò creerebbe (si veda la Nota 1) e dato il fatto che il Renminbi per essere appetibile sul mercato dovrebbe entrare in concorrenza col Dollaro a suon di rialzi dei tassi d’interesse con effetti devastanti sull’economia reale cinese, le finanze pubbliche e i rapporti politici ed economici con gli altri Paesi, così come sta succedendo oggi negli USA.

Infine occorre tener presente i fattori organizzativi, le relazioni finanziarie internazionali e la capacità di acquisire ed elaborare informazioni.

Ad oggi non è in vista una Bretton Woods 2.0 che sostituisca il sistema di Bretton Woods 1.0 ancora in vigore ancorché obsoleto e zoppicante e con i suoi due pilastri di sostegno, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, ormai disfunzionali per la gran parte del mondo [3].

In definitiva sul lato finanziario i BRICS stanno sviluppando un sistema di prestiti, compensazioni e pagamenti attraente per un grande numero di Paesi, sganciato dalla finanziarizzazione delle economie occidentali e che tendenzialmente dovrebbe evitare una polarizzazione tra Paesi debitori e Paesi creditori. Oltre a questo non vogliono né verosimilmente per ora possono andare. Tuttavia anche questo percorso non ha un esito prestabilito per la complessità dell’intreccio delle catene del valore internazionali [4]. Non solo, ma lo scambio di valute e i meccanismi attuali di compensazione all’interno dei BRICS sono ancora distanti dal rappresentare un vero sistema di ribilanciamento tra creditori e debitori. Infatti la creazione di una moneta unica di regolazione è proprio un obiettivo su cui la Russia    insiste.

A ciò si aggiungono debolezze squisitamente “di classe”. Si pensi al fatto che la maggior parte del debito pubblico brasiliano è in mano a un ristretto numero di oligarchi collegati agli Stati Uniti (lo stesso problema che ha l’Argentina, un Paese candidato).

Excursus: Economia finanziarizzata ed economia reale nello scenario geopolitico

L’odierna finanziarizzazione delle economie occidentali è stata lo sbocco capitalisticamente “naturale” delle masse di capitale che sono state sovraccumulate durante il trentennio d’oro fordista-keynesiano trainato da Stati sviluppisti nella Ricostruzione postbellica. I giochi speculativi, con accumulazione smisurata di capitale fittizio (Marx), come sbocchi di investimento si sono accompagnati alla progressiva privatizzazione del dominio pubblico, altro sbocco d’investimento, compreso il debito pubblico (si pensi al “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro del 1981) e alla cosiddetta “globalizzazione”, cioè all’intercettazione del valore prodotto in economie relativamente non capitalizzate, le cosiddette “economie emergenti”, tramite  investimenti diretti all’estero, esternalizzazioni e delocalizzazioni. La crescita dei grandi “competitor” degli Stati Uniti è stato un esito inintenzionale proprio della globalizzazione, che invece doveva solo essere «un altro termine per il ruolo dominante degli Stati Uniti» come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999.

Infine, punto chiave, la finanziarizzazione, che si contrappone allo sviluppo materiale, è sempre stata segnale di crisi sistemica (si veda la Belle Époque edoardiana – di cui da noi la “Milano da bere” di epoca reaganiana è stata una replica). Lo scontro tra Est (o Sud) e Ovest è quindi uno scontro tra blocchi che sono posizionati in modo antitetico nell’odierna crisi sistemica: a grandi linee un mondo “fittizio” a Ovest e un mondo “reale” a Est [5].

Fine dell’excursus

La debolezza dei BRICS è quindi l’altro aspetto della loro forza: l’eterogeneità del mondo non occidentale rispetto al blocco statunitense.

In essa spiccano: 1) L’eterogeneità di comando. Pur dato per scontato il peso di Russia e Cina, l’architettura dei BRICS è un’architettura tra pari, nettamente diversa da quella occidentale dove gli Stati Uniti dettano legge anche tramite una enorme rete di basi militari. Inoltre né Cina né Russia hanno alcuna intenzione di sostituirsi agli Stati Uniti come nuovi centri egemonici. Comprensibilmente: la complessità e la dimensione del mondo attuale obbligherebbero all’utilizzo di risorse al di là della disponibilità di ogni singola nazione (è infatti sconcertante che gli USA pensino di poter mantenere la supremazia – c’è da domandarsi se ci credano veramente o si siano infilati in un cul-de-sac). 2) L’eterogeneità culturale, un altro fattore importante da non sottovalutare, che si contrappone all’omogeneità culturale dell’Occidente ancorché minata da un degrado in parte dovuto proprio alla finanziarizzazione delle nostre società che ha riflessi negativi su tutto il sistema educativo-scientifico-culturale-professionale e anche concettuale, in parte guidato politicamente (si pensi alla “cancel culture” e al “politicamente corretto”, un modo collaudato del potere di disinnescare le contraddizioni indirizzandole verso falsi obiettivi). 3) Infine l’eterogeneità dei sistemi politici.

In altri termini le debolezze del nascente mondo multipolare nascono proprio dalla sua multipolarità che si contrappone all’omogeneità occidentale e a una lunghissima e consolidata storia politico-organizzativa. In relazione a ciò è da tener presente che la Nato è l’unica alleanza militare esistente al mondo (tutte le altre sono sue succursali).

Occorre poi tenere presente le spinte centrifughe all’interno dei vari Paesi. Se la “guerra patriottica” russa contro la Nato in Ucraina ha reso irrilevanti le tendenze filo atlantiche e convinto l’élite economica russa che ha tutto l’interesse a voltare le spalle all’Occidente, la Cina si può dividere in un’area meridionale che è interessata all’Occidente e in una settentrionale che lo vuole tenere a distanza. La differenza tra Russia e Cina si può esemplificare con le loro industrie aeronautiche civili: la Russia ormai costruisce aerei passeggeri in modo totalmente autonomo mentre l’industria aeronautica cinese si basa ancora su componenti fondamentali occidentali (è il motivo principale per cui non si è concretizzata la collaborazione tra questi due Paesi  nel campo dell’aviazione civile).

Ovviamente il controllo centralizzato del Partito Comunista Cinese conta e lo vediamo all’opera nelle industrie strategiche e nella volontà del governo di Pechino di non compromettere la finanza cinese con la finanza speculativa occidentale. Altro motivo di debolezza può essere proprio l’enormità e la complessità sociale di alcuni BRICS come, evidentemente, la Cina e l’India.

Le debolezze occidentali

Con questo non bisogna credere che il blocco occidentale sia più monolitico di quanto sembri. Da una parte i vari interessi nazionali stanno prendendo vie diverse, tra USA ed Europa e all’interno della stessa UE, anche se l’obbedienza a Washington e in subordine a Bruxelles non è per ora messa in discussione.

La guerra degli USA contro la Russia è una guerra contro l’Europa condotta con l’entusiastico sostegno dei dirigenti di Bruxelles. L’esempio di ciò più evidente, perché clamoroso e precoce, è stato l’attentato al Nord Stream 2 (un evento “promesso” da Victoria Nuland; il più grande attacco terroristico industriale della Storia, secondo l’accademico statunitense Jeffrey Sachs) coperto dalla Germania nonostante fosse la potenza più direttamente e inesorabilmente danneggiata.

Il declino della produzione industriale di area UE ed Euro è una conseguenza della guerra statunitense all’Europa [6]. Così come lo sarà l’impoverimento delle nazioni europee dovuto alla migrazione di industrie verso gli USA, alla perdita di mercati, alla privatizzazione dei servizi e all’aumento delle spese militari per allinearsi ai desideri di Washington. In realtà tutto segnala che sia in vista una pesante “austerità da guerra”, dove ogni Paese europeo cercherà di scaricare sugli altri quanti più costi possibili (ad esempio riesumando la questione “debito pubblico” che sembrava quasi sparita). Quando la Russia afferma che non ha nessuna intenzione di attaccare l’Europa, dice il vero. E non è solo una questione militare: siamo un blocco in rapida decadenza che la Russia ha già cancellato dai suoi interessi economici strategici. Quando ce ne renderemo conto non sarà mai troppo presto.

La volontà di Washington di separare l’Europa dalla massa eurasiatica e dall’Africa e farne un’entità incistata agli USA era chiara da tempo. Le “primavere arabe” e l’attacco alla Libia e poi alla Siria avevano iniziato a circondare l’Europa con una cortina di caos e instabilità, gettando nella tragedia jihadista due nazioni laiche ed evolute. La guerra in Ucraina l’ha infine serrata ad Est con una nuova cortina di ferro superando agevolmente le iniziali ritrosie di Francia e Germania mentre gli UK  “prae-videntes” si erano già posizionati al di fuori dell’Europa con la Brexit [7].

Ma gli stessi Stati Uniti sono percorsi da fremiti da “guerra civile”. Si pensi alla scia di miseria della Rust Belt lasciata dalla deindustrializzazione e al risentimento sociale che ha generato (base di massa nel 2016 del consenso a Trump). Si pensi all’ammutinamento delle autorità del Texas al governo federale sulla questione degli immigrati o alla vicenda di Capitol Hill che è seguita a quattro anni continui di inchieste (senza esito) contro il Presidente in carica (una cosa inaudita) per i suoi presunti collegamenti col Cremlino. Ed è preoccupante quando una superpotenza atomica dice di se stessa di essere una repubblica delle banane il cui presidente è deciso altrove.

Conclusioni

A mio avviso la domanda chiave è la seguente. L’accumulazione capitalistica si basa su differenziali: differenziali di sviluppo, di reddito (più propriamente di classe), di risorse, di conoscenze, eccetera, in fin dei conti differenziali di potere. Finora il capitalismo è proceduto per centri egemonici che garantivano questi differenziali e li distribuivano lungo una gerarchia ramificata. Cosa succederà quindi in un mondo policentrico? Si concretizzerà? E se si concretizzerà, sopravviverà o, per usare le parole di Giovanni Arrighi, caposcuola della “World-Systems Theory”, si ritornerà al caos sistemico stabile, a una società mondiale di mercato postcapitalistica? Quanto può essere “stabile” il  caos in un mondo super-armato?

Ho cercato di analizzare i motivi “strutturali” del conflitto tra Occidente e Oriente in “La caduta” [8]. Un’analisi, incompleta, che sfociava in una domanda correlata: è realmente possibile un mondo multipolare date le immense contraddizioni dell’accumulazione capitalistica generate dai differenziali?

«Infine, per parafrasare Schumpeter, prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere.»

Questo era il commento conclusivo di Giovanni Arrighi al suo capolavoro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”. Parole scritte nella prima metà degli anni Novanta quando tutto l’Occidente era ubriaco di “globalizzazione” e a sinistra ci si dilettava con lo “spazio liscio”. Arrighi invece avvertiva: stiamo andando incontro a grandi crisi finanziarie e a grandi guerre.

E’ superfluo oggi sottolineare chi aveva ragione.


[1] Secondo il paradosso di Triffin, elaborato nel 1960, per continuare a rifornire di valuta-chiave il mercato internazionale, la nazione che la emette deve obbligatoriamente passare da surplus dei pagamenti a deficit. Ma ciò vuol dire contrarre un debito che non si può ripagare se non al prezzo di impoverire le proprie riserve auree. Questo giro vizioso si accentuò per le spese militari statunitensi all’estero.

[2] M. Hudson, “Super Imperialism. The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance”. Pluto Press,  2003.https://geopoliticaleconomy.com/2023/10/10/brics-bank-currency-economist-michael-hudson/

[3] Su questi temi si veda di M. Hudson “How could a BRICS+ bank and settlement currency work?”

[4] Si veda R. Sciortino, “Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze”. Asterios, 2022.

[5] Secondo Brancaccio, Giammetti e Lucarelli si tratta di uno scontro interimperialistico tra i debitori in declino e i creditori in ascesa. Secondo me si tratta di altro (si veda la mia recensione a “Guerra e rivoluzione” di Carlo Formenti: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/25626-piero-pagliani-guerra-e-rivoluzione-di-carlo-formenti-appunti-di-lettura.html). Si noti che l’Est “reale” avrà presumibilmente delle caratteristiche “keynesiane”, a partire dal ruolo dello Stato per finire, se si concretizzerà, col “Bancor BRICS” come moneta di regolazione (il “Bancor” era la moneta “orientata ai Paesi debitori” che Keynes aveva proposto a  Bretton Woods al posto del Dollaro).

[6] https://www.euractiv.com/section/economy-jobs/news/very-worrying-trade-unions-alarmed-by-eus-industrial-collapse/

[7] L’ex presidente francese Hollande e l’ex cancelliera tedesca Merkel hanno affermato che gli accordi di Minsk, che dovevano porre fine alla crisi d’Ucraina e dei quali Francia e Germania erano garanti, in realtà erano solo un espediente per dar tempo a Kiev di riarmarsi e combattere la Russia per riprendersi il Donbass e la Crimea. Io sono invece convinto che quella sia stata una dichiarazione dettata da pressioni o da opportunismo perché  all’epoca la Francia e la Germania, come anche l’Italia, speravano veramente che gli accordi di Minsk avrebbero fermato la costruzione della nuova cortina di ferro.

[8] “La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro”, 19 ottobre 2022.


*Piero Pagliani, da sempre militante di sinistra, laureato in Filosofia si occupa di Logica Matematica. Autore di libri e articoli scientifici, collabora con istituti di ricerca internazionali nel campo del machine learning e del data mining.

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