Il compleanno delle 150 ore

Alessandra Mecozzi*

Le 150 ore compiono 50 anni, dall’inizio della loro applicazione. Vale la pena ripercorrere il senso di questa norma epocale, conquistata con il contratto metalmeccanico FLM del 1973 (successivamente da molte altre categorie). Lo farò partendo dalla mia esperienza diretta, nella Fiom/FLM di Torino,  dove arrivai, dalla Fiom nazionale a Roma nel 1974 e dove il mio primo incarico fu proprio relativo all’applicazione del nuovo articolo del contratto, le 150 ore di permesso retribuito, per il diritto allo studio.

Novità nel contratto nazionale metalmeccanico

Il contratto metalmeccanico era stato ottenuto dopo oltre cinque mesi di trattativa e di scioperi, e comprendeva anche il nuovo istituto dell’inquadramento unico operai-impiegati, basato sull’idea del superamento della divisione del lavoro tra manuale e non, significativo anch’esso del carattere trasformativo dell’azione sindacale della FLM, in un clima culturale e sociale favorevole.

L’articolo contrattuale del 1973 recitava: “I lavoratori che, volendo migliorare la propria cultura, anche in relazione all’attività aziendale, intendano frequentare presso Istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio, hanno diritto, con le precisazioni indicate ai commi successivi, di usufruire di permessi retribuiti a carico di un monte ore triennale a disposizione di tutti i dipendenti…I lavoratori che contemporaneamente potranno assentarsi dall’azienda o dall’unità produttiva per l’esercizio del diritto allo studio non dovranno superare il 2 per cento del totale della forza occupata…I permessi retribuiti potranno essere richiesti per un massimo di 150 ore pro capite per triennio, utilizzabili anche in un solo anno, sempre che il corso al quale il lavoratore intende partecipare si svolga per un numero di ore doppio di quelle richieste come permesso retribuito…” (Prima del contratto la legge 300 prevedeva limitati permessi e diritti solo per i lavoratori studenti n.d.r.).

I primi passi

La sua applicazione iniziò nel 1974.  Fu un’ esperienza straordinaria di partecipazione, di confronto culturale, di apprendimento per tutti: operai/e, insegnanti, sindacalisti/e;  un passo avanti nella democrazia, in fabbrica e nella scuola. Il confronto, talvolta scontro appassionato, tra cultura operaia (particolarmente significativa quella sull’ambiente e la condizione di lavoro) e cultura “accademica”, anche di sinistra, era inevitabile come quello tra esigenze di conoscenze di base da parte di chi aveva dovuto interrompere troppo presto lo studio e quello di impostare i corsi su base completamente diversa dalla scuola tradizionale.

Trentin esprime chiaramente il suo concetto su cosa debba intendersi per 150 ore: “non certo i corsi aziendali ma la scuola in generale, la riconquista nella scuola di un’autonomia del lavoratore; non il lavoratore idoneo Fiat, ma una formazione culturale e professionale costruita nella scuola e con una sua trasformazione” (Ilaria Romeo, 150 ore allo studio e alla lotta). In effetti la novità, anche rispetto a esperienze simili in altri paesi europei, era nell’organizzazione dei contenuti di insegnamento, gestita collettivamente da lavoratori e docenti, non finalizzati a esigenze aziendali ma all’arricchimento culturale dei/delle partecipanti.

Le 150 ore rappresentarono un investimento contrattuale con cui i lavoratori scambiavano salario per un processo di emancipazione individuale e collettivo. Una scommessa sulla rinegoziazione della risorsa “tempo”, che rimetteva in discussione idee e pratiche del lavoro nel pieno del taylorismo imperante, secondo la migliore tradizione di un sindacalismo riformista che sa coniugare conflitto e costruzione creativa. (Bruno Manghi, sempre sul sito collettiva.it)

La trattativa era stata lunga e difficile, segnata anche dal sarcasmo padronale: “ma volete far studiare il clavicembalo ai lavoratori?!”Risposta di Bruno Trentin: “Certo, se lo vogliono…”

Scuola dell’obbligo e università: “suonata per i padroni”

Alla trattativa con Federmeccanica, risoltasi positivamente con la firma e l’approvazione del contratto, doveva seguire l’applicazione che cominciò nel 1974, dovendosi confrontare con diversi soggetti: Ministero della Pubblica istruzione, insegnanti e ovviamente in primo luogo lavoratori e lavoratrici. Fu una sorpresa scoprire che migliaia non avevano il diploma della scuola dell’obbligo che divenne quindi un punto focale, con notevoli problemi organizzativi che consigli di fabbrica e sindacato dovettero affrontare. Si calcolò che, solo nei primi due anni di applicazione, circa 100.000 operai/e avrebbero potuto frequentare i corsi con le 150 ore retribuite, e altrettante del loro tempo libero, per ottenere il titolo della scuola dell’obbligo.

Già all’inizio, aprile 1974, i corsi di scuola media erano 872, in 51 provincie, per un totale di 17500 lavoratori, e i seminari all’Università 25, in 14 provincie, per un totale di 1400 lavoratori circa.

I corsi monografici all’Università, sebbene con una partecipazione quantitativamente ridotta, furono un’occasione unica di approfondimento di temi, primo tra tutti quello dell’economia. Centinaia di lavoratori entrarono per la prima volta nell’università, e rimane memorabile, anche grazie alla rivista “Inchiesta”, che già prima aveva pubblicato un numero speciale dal titolo: “le 150 ore, suonata per i padroni”, il corso di economia tenutosi presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Bologna da un gruppo di importanti economisti (Bosi, Brusco, Cavazzuti, D’Adda, Ginzburg, Onofri, Vianello) sull’analisi di concetti e strumenti per comprendere la crisi economica e l’uso padronale di essa contro le lotte e le conquiste operaie (“Inchiesta”, n.16, 1974)

Incontro tra le 150 ore e la cultura femminista

Un salto di qualità e quantità venne fatto nell’incontro tra le 150 ore e la cultura femminista, ideato e gestito dai gruppi/coordinamenti di donne nel sindacato. La partecipazione era aperta a tutte: operaie, impiegate, casalinghe, disoccupate… Un esempio clamoroso fu il corso sulla “Salute della donna” di Torino, nel 1978, a cui parteciparono oltre 1300 donne, gestito dall’Intercategoriale donne Cgil Cisl Uil, uno dei primi gruppi del femminismo sindacale, attivo nei posti di lavoro e nel sindacato.

Testimonia Domenica Airaudo, delegata Fiat, tra le organizzatrici del corso:  “Io ho partecipato con un gruppo che andava nel Consultorio di Via Passo Buole. C’erano impiegate come me, operaie e anche donne casalinghe della zona. Raccontavamo di noi, delle nostre esperienze rispetto al parto, agli anticoncezionali, alla sessualità… Parlavano liberamente, con molto coraggio… È stata una esperienza molto bella che mi ha dato l’idea di fare una cosa del genere anche nel territorio in cui abitavo, a Moncalieri. Facevamo dei volantinaggi nelle case per informare le donne dell’esistenza del consultorio. Facevamo delle riunioni, con le donne utenti, per informarle sui contraccettivi a partire dall’esperienza e dalle conoscenze che avevo acquisito al Corso Salute della donna. (Intervista del 15 novembre 2005, in Fare la differenza – l’esperienza dell’intercategoriale donne di Torino 1975-1986, a cura di Nicoletta Giorda. Anche in Mirafiori-accordielotte.org)

Il corso a Torino venne riconosciuto dalla Facoltà universitaria di Medicina ed ebbe l’appoggio e i contributi di medici, ginecologhe, tecniche della salute.

I corsi si estesero in tutta Italia, trattando molti argomenti diversi .

Si andava dalla conoscenza della fisiologia all’ analisi del rapporto con medici, medicina e strutture sanitarie,  dalle letture di materiali alternativi prodotti dal Movimento delle donne alle condizioni di lavoro. In altri corsi si affrontavano i temi dell’identità femminile, del nesso tra produzione e riproduzione, donne e lavoro/lavori, e, in minor misura, alla questione della rappresentanza di genere all’interno di strutture essenzialmente maschili: temi centrali nel movimento di quegli anni, tutti legati alla questione principale, l’autodeterminazione.

Adele Pesce, sindacalista, ricercatrice, scrittrice, per un periodo responsabile delle 150 ore a Bologna, scrive: “due sono stati, a nostro parere, i percorsi più interessanti di riflessione sul rapporto tra donne e lavoro nella seconda metà degli anni Settanta: l’esperienza del femminismo sindacale e delle 150 ore; l’esperienza del gruppo milanese del GRIFF e di numerose singole studiose. ….I corsi 150 ore per sole donne hanno costituito un luogo di intersezione e di circolazione delle idee ed esperienze tra ricercatrici, sindacaliste e lavoratrici” (v. Fare cose con le parole, Lavoro sindacato politica femminismo. A cura di Vittorio Capecchi e Donata Meneghelli. Ed Dedalo 2012)

Negli anni Ottanta, dopo la sconfitta alla Fiat, la rottura sindacale del 1984, nel generale arretramento difensivo del sindacato, anche la carica trasformatrice delle 150 ore venne meno. Nello stesso tempo, anche l’impresa si trasformava profondamente, con una tendenza al decentramento produttivo (dunque una riduzione delle dimensioni aziendali e delle grandi concentrazioni operaie), alla delocalizzazione e alla precarizzazione del lavoro.

Si modificò la composizione dei partecipanti ai corsi,  con una sempre maggior inclusione di casalinghe, disoccupati, migranti, lavoratori precari, e un incremento degli impiegati del settore pubblico.

L’esperienza delle 150 ore delle donne sollecitò d’altra parte la creazione di autonomi Centri culturali femministi, libere università, come il Virginia Woolf di Roma e la Libera Università delle donne di Milano.

Mentre l’impegno sindacale si riduceva, o virava verso la formazione professionale, tra gli anni Ottanta e Novanta cresceva l’iniziativa delle regioni e degli enti locali, a fianco o in collaborazione, ad esempio, con le università popolari.

Verso la fine degli anni Novanta, vennero istituiti i Centri territoriali permanenti per l’educazione degli adulti (CTP), soppiantati dopo qualche anno dai nuovi Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA): istituzioni statali forse utili, ma in cui nulla rimaneva della partecipazione critica delle 150 ore.

Quale futuro per le 150 ore?

Le 150 ore avevano favorito una crescita culturale individuale, ed era questa che dava loro cittadinanza piena, che permetteva loro evoluzioni molteplici. Si tratta dunque di un’esperienza di grande valore, da ripensare, anche oggi, in una società della conoscenza più proclamata che realizzata e in un paese, come l’Italia, dove l’analfabetismo di ritorno è uno dei problemi più sottovalutati, mentre da anni progredisce una regressione culturale a tutti i livelli.

Il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini ha affermato, in una recente intervista: “La formazione sia un diritto permanente”, richiamando la necessità, dentro ai tanti cambiamenti avvenuti, sia tecnologici che organizzativi che produttivi, di rilanciare lo spirito delle 150 ore, con la sua visione trasformativa dell’organizzazione del lavoro, economica e sociale. La contrattazione dovrebbe affermare il diritto alla formazione nel corso di tutta la vita, non subordinata alla azienda, con ore disponibili per l’accrescimento culturale collegate alla riduzione dell’orario di lavoro.

Una risposta, idealmente, a quanto, già nel 2015 dichiarava Vittorio Capecchi, recentemente scomparso, direttore della rivista “Inchiesta”, strumento di valorizzazione dell’esperienza delle 150 ore: “Oggi, un’esperienza delle 150 ore la vedo ancora più drammaticamente utile. Si è infatti di fronte a una caduta dell’identità collettiva sindacale, con gravissimi rischi per lavoratrici e lavoratori di accedere a una visione tutta individuale dei conflitti e delle lotte…Oggi, l’individuale si percepisce solo nei sentimenti di razzismo, di rabbia, di opportunismo ecc. Come se la cultura fosse un costo superfluo e non un bene su cui investire…Ma uno spazio aperto di quel tipo è oggi possibile, dati i rapporti di forza tra capitale e lavoro, e data la scarsa sensibilità delle forze politiche verso il mondo del lavoro e della cultura? E il sindacato può ritrovare il coraggio di pensare in grande? (rivista “Venetica”, 31/2015, intervista di Valeria Podrini)


Per saperne di più:

Francesco Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale, Roma, Edizioni Lavoro, 2012. Terza edizione 2023

Ricostruire ideali e percorsi di questa straordinaria esperienza – che ha coinvolto un milione e mezzo di persone e inciso fortemente sulle loro vite, sul movimento sindacale e sulla scuola – ci permette di riflettere sull’educazione degli adulti come leva di cambiamento e inclusione. La nuova edizione 2023 contiene ulteriori documenti e un inedito saggio introduttivo sul tema delle «150 ore del futuro».

Monica Dati, Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo – L’esperienza delle 150 ore, Aracne 2022.

È una ricerca che ripercorre l’evoluzione dell’istituto delle 150 ore dalla dimensione contrattuale alle trasformazioni nella composizione dei corsi con un focus particolare su aspetti didattici e sulle “storie di vita”, ponendo anche l’attenzione su alcune peculiari esperienze toscane e locali.


* Dalla fine del 1970 alla Fiom nazionale, poi Torino/Piemonte. Nel 1975, con il gruppo dell’Intercategoriale donne Cgil Cisl Uil di Torino, conosce e pratica il femminismo. 1983: primo convegno internazionale su donne e lavoro “Produrre e riprodurre”. Nel 1989, eletta nella Segreteria Nazionale della Fiom, 1996, responsabile dell’Ufficio internazionale e, successivamente, anche della rivista della Fiom “Notizie Internazionali”. Contribuisce alla nascita di “Action for Peace” (2001), un progetto di molte associazioni, per la presenza di missioni civili in Palestina/Israele; Partecipa dal 2001, nel Genoa Social Forum, al processo del Forum sociale mondiale e del Forum sociale europeo.


Foto da www.uilscuolarualombardia.it

Print Friendly, PDF & Email