Il complotto al potere
Dmitrij Palagi
Donatella DI CESARE, Il complotto al potere, Einaudi, Torino, 2021
I tempi in cui viviamo, almeno in Occidente, sono caratterizzanti da una forte perdita di senso: alle grandi narrazioni si sono sostituite le comunicazioni frammentate sui social, con un consumo delle storie che toglie spazio alla complessità.
Secondo Donatella Di Cesare (Il complotto del potere, Einaudi, 2021) la ricerca di trame nascoste è una scorciatoia che risponde a un’esigenza diffusa, condivisa: stigmatizzare il dubbio non aiuta a comprendere le ragioni di fondo di chi scorge macchinazioni tra le ‘verità ufficiali’. Il complotto è un “problema politico. Non riguarda tanto la verità, quanto il potere”, scrive l’autrice.
Comprendere questo non vuol dire mostrarsi disponibili ad accettare teorie cospirazioniste, ma piuttosto può portare a leggere alcuni fenomeni come parte di un processo opposto alla democrazia. Il complotto come maschera del potere.
Incertezze, opacità (mancanza di trasparenza), luoghi della rappresentanza simili a vuoti simulacri, angoscia per un futuro associato a prospettive catastrofiche (ambientali, sanitarie, sociali), assenza di strumenti interpretativi del presente (come un Teseo privato del filo donato da Arianna): tutto concorre a svuotare la storia di ogni possibile significato.
Il complotto è una cosa diversa dalla congiura (fondata sul giuramento) e dalla cospirazione (basata su un ‘afflato comune’, da cui può scaturire una rivolta): si tratta di un “groviglio oscuro”, indistinto, da cui “indovinare a stento la filigrana di una trama”. Impossibile da definire, deve essere letto nella concretezza del suo sviluppo sui territori: diventa un dispositivo per chi è interessato al mantenimento dello stato di cose presenti, una risposta a un’esigenza umana arcaica, per cui si preferisce una spiegazione semplice e immediata rispetto all’effettivo funzionamento dell’ordinamento (istituzionale, economico e di ogni altro genere).
La casualità è bandita dalla quotidianità e lo spazio pubblico in cui il popolo dovrebbe esercitare la sua sovranità viene abbandonato, rinunciando a praticare una pratica del governo dove si tiene aperta la dimensione della relazionalità e l’identità della società.
Il rapporto con l’alterità e il perturbante fanno parte di qualsiasi teoria del complotto, che risponde a pulsioni associate al sentimento della paura, rifiutando l’esistenza di zone d’ombra nelle nostre vite.
Il mito serve alle persone, per definire griglie interpretative usate ogni giorno, ma quando il mondo in cui si vive viene ridotto a una macchinazione siamo di fronte a un’apparenza narrativa, da cui scaturisce una “gravità mortifera” da cui la vita democratica finisce per essere minacciata. Si tratta di “un diversivo che impedisce la realtà”, scavalcando il confine della coscienza di una condizione di sfruttamento e rinchiudendosi nell’inevitabilità di essere vittime di un potere inarrivabile: la domanda si fa risposta, non spinge a trovare soluzioni. Il risentimento e la disillusione portano ad abdicare a ogni pretesa di giustizia.
L’attuale governo italiano attesta l’autocancellazione della politica e arriva a seguito di esecutivi in cui la “tecnica” e i “contratti” hanno sostituito quanto nato all’ombra della Costituzione repubblicana: a questo processo è funzionale ogni lettura che disconosce la complessità e individua il potere in un luogo inarrivabile. Di Cesare sostiene la necessità di abbandonare le ‘maniere’ dell’anti-complottismo e riacquistare un rapporto con il bisogno di assoluto che appartiene a ogni persona: ricostruire comunità interpretative del reale vuol dire far fronte alla disgregazione politica in cui siamo immerse e immersi.
Costruire una misura del sospetto, con cui rifiutare la neutralità della verità ed evitare l’assolutizzazione del dubbio (come affermazione di una verità altra, altrettanto assoluta), è una processualità da rinnovare costantemente: occorre praticare il sospetto senza reificarlo, scrive esplicitamente l’autrice.