Il fascismo ieri e oggi (editoriale)
Nando Mainardi
Abbiamo deciso di dedicare questo numero di “Su la testa” al fascismo in settimane in cui diversi eventi si intrecciavano richiamandone il presente e il passato: da una parte il centenario della marcia su Roma, e dall’altra la vittoria alle elezioni politiche di Fratelli d’Italia, ovvero della forza politica che – seppure con modalità “mimetiche”, ma neanche più di tanto (avendo nel proprio simbolo la fiamma tricolore del Movimento Sociale, a sua volta evocativa della pagina più tetra e – se possibile – lugubre del fascismo italiano, la Repubblica di Salò) – si richiama a quella storia. Va detto che non ci troviamo in un Paese “fascistizzato”, poiché Fratelli d’Italia è sì risultato il primo partito alle elezioni del 25 settembre, ma con un consenso certamente non maggioritario (percentualmente, il 26%), e la stessa netta vittoria del centrodestra è stata propiziata da una legge elettorale basata sulla distorsione dl voto delle elettrici e degli elettori. Allo stesso tempo, è innegabile ed evidente il carattere “storico” e assolutamente inquietante di tale affermazione, che va inserita nel lungo processo storico, politico, sociale e culturale che a partire dagli Settanta ha ridisegnato i rapporti di forza tra le classi, passando attraverso la sconfitta del movimento operaio, e l’affermarsi progressivo, nel sistema politico-elettorale, di un bipolarismo di fondo, di segno liberista, basato sulla contrapposizione tra un campo centrista/tecnocratico e una destra che ha assunto progressivamente tratti esplicitamente e “orgogliosamente” autoritari e fascistoidi. Certamente l’egemonia e la vittoria di Fratelli d’Italia rappresentano, in tutto questo, un ulteriore salto di qualità non solo nell’azione di affossamento, ma nel vero e proprio ribaltamento – che è un’azione ancora più spinta – dell’idea di Paese così come prospettata dal testo costituzionale, nata dall’enorme slancio rappresentato dalla Resistenza, basata sul ripudio del fascismo e “inverata” in particolare grazie alle lotte politiche, sociali e sindacali che hanno caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta. Essere antifascisti oggi significa perciò opporsi a tale tentativo – purtroppo in gran parte riuscito – di ribaltamento. Il che significa appunto connettere costantemente passato e presente, memoria e lotta politica e sociale.
FASCISMO E RIVOLUZIONE PASSIVA
Negli anni hanno preso piede progressivamente – intrecciate e connesse proprio a quel processo complessivo di cui si diceva, ovvero la lotta di classe condotta vittoriosamente “dall’alto” di cui ha scritto Luciano Gallino – una rivisitazione del fascismo, e una sua “ricollocazione” nella memoria collettiva evidentemente non neutrali . Le varianti su cui poggia tale operazione sono diverse e molteplici, legate alla “vulgata” ora di un fascismo sostanzialmente “buono” ma sporcato da alcuni eccessi (le leggi razziali, il confino, l’entrata in guerra eccetera), ora di un fascismo non “buono” ma comunque equiparabile e in fondo migliore del comunismo. Tali semplificazioni pesantemente distorcenti e antistoriche puntano a cancellare la conoscenza, la consapevolezza e la memoria degli aspetti che strutturalmente lo hanno costituito, e rispetto a cui troverete nelle prossime pagine alcuni approfondimenti autorevoli e assolutamente interessanti.
Certamente, tra questi aspetti, c’è il nesso fondativo e connaturato tra il fascismo e il ricorso alla violenza nelle sue diverse forme (dalla marcia su Roma alle guerre coloniali, dalle spedizione punitive all’ingresso in guerra). In particolare, l’uso sistematico della violenza è stato speso e praticato, dagli albori, in chiave anticomunista e antioperaia, al fine di sconfiggere lo spettro della collettivizzazione socialista e del superamento della proprietà privata, a sostegno e tutela di strati sociali che andavano dalla grande borghesia alla piccola borghesia contadina. Aggiungiamo che il fascismo ha, nell’arco della propria storia, “inquadrato” tale natura violenta in un impianto generale che si è proposto come “eversivo”. Ciò a partire appunto dalla sua fase nascente, avvenuta dentro la temperie della crisi che è seguita, in tutta Europa, alla prima guerra mondiale, ovvero al grande scontro consumatosi tra reazione e rivoluzione. Contrariamente alla debole classe dirigente liberale, il movimento fascista ha evidentemente saputo mettere a fuoco la centralità di una contesa sociale e politica che aveva come “protagoniste” le masse uscite pesantemente impoverite e frustrate dal conflitto.
Ma il fascismo, come dimostrato nel corso del ventennio, non è interpretabile unicamente come semplice risposta reazionaria, ma anche come tentativo di costruire uno stato e una società “nuove”, pur nel mantenimento e a difesa delle strutture capitalistiche e nella soppressione di ogni forma di conflittualità sociale, e conseguentemente di qualsiasi prospettiva di emancipazione e di liberazione politica e collettiva. Nelle sue diverse fasi, ha rappresentato infatti il tentativo di costruire un ordine politico, sociale, economico e culturale basato su “Dio, patria e famiglia”; si è caratterizzato in tutta evidenza come “rivoluzione passiva”, ovvero come cambiamento forgiato sulla passivizzazione e sulla gerarchizzazione delle masse.
TRA DOPPIOPETTI E STRAGI
Tali elementi di fondo, in un contesto totalmente diverso come quello della democrazia repubblicana e costituzionale, generato dalla Resistenza, dal protagonismo del movimento operaio e delle comuniste e dei comunisti, hanno caratterizzato pure il neofascismo del dopoguerra, nelle sue diverse “varianti”: quella “legale” (Msi) e quelle “criminoso-rivoluzionarie” (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale ecc.), apparentemente distanti ma in realtà contigue e decisamente comunicanti tra loro attraverso “porte girevoli”. Aspetti unificanti del campo dell’estrema destra sono stati (anche) in questa fase l’anticomunismo e la reazione antioperaia, che hanno consentito agli stessi neofascisti di stringere alleanze con le classi dominanti italiane e con governi, apparati di sicurezza e ambienti reazionari internazionali (pensiamo ai diversi rapporti tra neofascisti italiani e Stati Uniti/Nato). I neofascisti sono stati perciò un tassello di uno schieramento “plurale” più vasto che, con modalità simili e al contempo rinnovate rispetto al passato, si è posto l’obiettivo di abbattere la Costituzione e i protagonisti collettivi delle lotte e dei movimenti. In tal senso, il sostegno parlamentare missino e monarchico al governo Tambroni, nel 1960, e il golpe Borghese di dieci anni dopo – per fare solo due esempi – hanno rappresentato mezzi diversi, in fasi sociali e politiche differenti, per raggiungere appunto lo stesso obiettivo, o quantomeno obiettivi assai simili. È chiaramente in questo contesto che va inserita la strategia della tensione, che non rappresenta una “parentesi” (generalmente indicata nel periodo 1969-1974), ma che ha attraversato la storia repubblicana in modo molto più ampio (pensiamo al coinvolgimento di figure legate agli ambienti neofascisti nelle stragi del 1992-93 e nella trattativa tra Stato e mafia). All’insieme di tali forze altamente tossiche, che hanno giocato ruoli diversi, non è riuscito né il colpo di stato militare né la nascita di governi autoritari, ma è evidente che una parte significativa degli obiettivi che si ponevano è stata raggiunta, a partire dalla sconfitta del movimento operaio, e da qui è derivata per la destra di derivazione fascista l’apertura di spazi e una legittimazione una volta impensabili.
“L’UOMO FORTE” E “L’UOMO NERO”
Va anche detto che, in particolare a partire dagli anni Ottanta, hanno preso progressivamente piede, nel dibattito pubblico, alcune “idee guida” che, per quanto collocabili decisamente a destra, non sono state portate avanti necessariamente o soltanto dalle forze fasciste e più tipicamente reazionarie. Certamente, la loro fortuna e presa è andata a braccetto con la crisi del sistema politico e sociale, con il tentativo di soffocare i diversi spazi democratici e del conflitto sociale strutturati nelle fasi precedenti, con la crescente difficoltà a rispondere ai bisogni sociali diffusi e con l’affermazione delle politiche neoliberiste.
Una è certamente l’invocazione del presidenzialismo come soluzione alla frattura apertasi tra istituzioni e popolo, e che nei decenni successivi si è ulteriormente allargata fino a diventare una vera e propria voragine (pensiamo all’incremento esponenziale dell’astensionismo). E’ il ritorno del mito “dell’uomo forte” che, pur declinato in un contesto democratico, si alimenta della sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni – sempre più portatrici ed esecutrici di politiche economicamente e socialmente penalizzanti, sempre meno in grado di farsi spazio e luogo di mediazione tra interessi collettivi di segno diverso – e della frustrazione diffusa verso la politica come spazio possibile di trasformazione (frustrazione propiziata, nuovamente, dalla sconfitta del movimento operaio e anche dai “tradimenti” da parte delle forze riformiste e di centrosinistra). In tal senso, il mito fascistoide “dell’uomo forte” echeggia e “richiama” paradossalmente la suggestione iper-liberista del “pilota automatico” invocata da Mario Draghi qualche anno fa: due opzioni apparentemente opposte (la personalizzazione e la spersonalizzazione decisionali portate all’estremo), ma in realtà entrambe fondate sullo svuotamento dei processi democratici e collettivi.
L’altra “idea guida” è “la paura dell’uomo nero”, ovvero il razzismo nei confronti dei migranti e di chiunque venga individuata/o come “portatore” di diversità. Esattamente come nel caso precedente, il razzismo è strettamente funzionale allo smontaggio della lotta di classe e all’accettazione delle politiche liberiste, proprio perché punta a ribaltare il terreno del conflitto e a indicare come nemici i più deboli sul piano economico e sociale.
Se le forze tipicamente neo e post-fasciste non sono state depositarie esclusive di tali posizioni (pensiamo alle posizioni razziste della Lega), certamente sono state dei “laboratori” e degli avamposti, e altrettanto certamente ne hanno fruito sul terreno del consenso e della capacità di connettersi al senso comune.
LA MEMORIA RIBALTATA
E’ nel contesto qui tratteggiato – quello della “rivoluzione conservatrice”, avvenuta a partire dagli anni Settanta/Ottanta – che ha potuto prendere piede una riscrittura revisionistica della storia del Paese, anche grazie alla complicità attiva di forze collocate nel campo democratico e riformista. Del resto, l’obiettivo dei fascisti, e di un campo più ampio di matrice reazionaria, è stato ed è – come dicevamo – quello di rimuovere i grandi spazi politici, sociali e culturali aperti dalla Costituzione nata dalla Resistenza; di trasformarli beffardamente in una “parentesi”; di estinguerne il senso. Possiamo considerare come esempio significativo il caso della “Giornata del ricordo”, istituita dal Parlamento per commemorare le vittime delle foibe. La “Giornata del ricordo”, sostenuta anche dal Partito Democratico, si basa sulla legittimazione e assunzione integrale delle posizioni politiche portate avanti storicamente dai neofascisti, a proposito della rimozione degli orrori e dei crimini commessi dai fascisti italiani in Istria, dell’identificazione tra italiani e fascisti, della ridefinizione dell’identità italiana in senso nazionalistico e anticomunista. Si tratta di una sorta di “25 aprile al contrario”, che non c’entra nulla con la ricostruzione storica di quanto avvenuto, ma che è funzionale a definire una precisa narrazione della storia e dell’identità del nostro Paese. Va detto che ora Fratelli d’Italia potrà provare ad alzare ulteriormente il tiro, mettere le mani direttamente sul “vero” 25 aprile, ricollocarne il senso e farne un’occasione di riappacificazione e riconciliazione, accostando fascisti e antifascisti senza grandi distinzioni…
E ORA?
L’individuazione dei nodi caratterizzanti il campo dell’identità dei fascisti di ieri e oggi potrebbe andare avanti, ma queste poche righe non vanno intese come un tentativo di fornire un quadro esaustivo in proposito (un semplice editoriale non sarebbe, del resto, sufficiente), quanto piuttosto un’introduzione alla discussione e alle diverse riflessioni che troverete nelle prossime pagine. Trattandosi di una rivista non solo culturale, ma che punta a contribuire alla concretizzazione di un orizzonte politico – quello della rifondazione comunista – concludo, anche alla luce delle considerazioni precedenti, con un passaggio sul tempo presente. Il “mimetismo”, la doppiezza, sono aspetti, come abbiamo visto, che hanno caratterizzato il fascismo nella storia passata e nelle sue diverse declinazioni, presentatosi come “eversivo” quando in realtà serviva le classi sociali più agiate, “antisistema” quando invece manganellava per conto dei padroni e a sostegno della Nato, “rivoluzionario” quando al contrario agiva agli ordini di apparati e strutture reazionarie nazionali e internazionali. Mutatis mutandis, possiamo ritrovare tracce evidenti di questo mimetismo anche nell’attuale destra “post-fascista” di governo. Non solo nel suo “DNA” identitario, ma anche nel suo modo di stare nell’attualità, nella narrazione che sa fornire efficacemente di sé, nella modalità di costruzione del proprio consenso. Da una parte, infatti, Fratelli d’Italia si propone come forza politica in grado di proteggere e garantire il “popolo” nel suo complesso ( a partire dai settori sociali impoveriti e massacrati dalle politiche di questi anni), attraverso un’abile fabbricazione del nemico di turno (i migranti, le ONG, i percettori del reddito di cittadinanza…), e di esercitare una sovranità a piena tutela degli interessi nazionali, in contrapposizione agli altri stati e popoli; dall’altra, si muove in realtà dentro il campo delle politiche neo-liberiste (si potrebbe parlare di una declinazione paternalistica del neo-liberismo, che lascia intatte disuguaglianze sociali sempre più profonde) e in totale subalternità alla Nato e agli Stati Uniti. Da una parte c’è quindi ciò che appare e ciò su cui si raccolgono i voti; dall’altra ciò che effettivamente è. Emblematico, su questo fronte, l’avvicinamento, resosi pienamente evidente nei giorni successivi al voto, tra la futura (ora attuale) premier e Mario Draghi, il premier uscente. Non si è trattato di semplice “bon ton” istituzionale, ma di un disvelamento, da parte del partito che si era dipinto fino a poco prima come “unica opposizione al governo Draghi”, delle proprie reali opzioni politiche e programmatiche, evidentemente molto più vicine a quelle dell’esecutivo precedente di quanto sbandierato. Se tutto questo è vero, allora il punto centrale non è solo contrastare i fascisti di oggi sul fronte culturale e della memoria, per quanto si tratti di aspetti ovviamente importantissimi, e per quanto “tutto si tenga”. Il punto centrale è anche e soprattutto puntare a rendere evidente la contraddizione qui evidenziata tra la narrazione che Giorgia Meloni dà delle proprie proposte e dei propri riferimenti sociali, e le politiche che concretamente, giunta al governo, ha cominciato a fare. I primi atti sono, su questo fronte, solo un assaggio. Si tratta di un compito che può essere svolto soltanto da una sinistra di alternativa in grado di lavorare sul terreno sociale, di investire nella costruzione dei conflitti e di muoversi non “nel cielo della politica” ma di “scendere” sul terreno della quotidianità, della materialità e di sensibilità che si muovono sempre più al di fuori degli schemi di un discorso pubblico che procede a senso unico. Noi di “Su la testa” lavoriamo in questa direzione.