Il neoliberismo contro la democrazia
Paolo Ferrero
La crisi della democrazia non è un incidente di percorso, ma il frutto diretto e voluto dell’applicazione dei dettami del neoliberismo negli ultimi 30/40 anni.
Il neoliberismo infatti non è una teoria economica, ma un progetto politico reazionario, antipopolare ed antidemocratico, che utilizza il linguaggio economico per mascherarsi dietro una patina ideologica di presunta “oggettività”. Uno dei principali obiettivi del neoliberismo è stato proprio la “sterilizzazione” della democrazia, mantenendone invariate le apparenze e abolendo la possibilità dei popoli di decidere del proprio futuro.
L’interventismo liberista
Prima di entrare nel merito delle strategie attraverso cui la democrazia è stata svuotata e resa un simulacro, occorre innanzitutto sgombrare il campo da un equivoco. Nella vulgata giornalistica, il neoliberismo viene dipinto come nemico dello stato, come propugnatore di uno stato minimo e del “laissez faire”. Si tratta di una lettura sbagliata, perché i neoliberisti al contrario sono fortemente interventisti sul piano statuale. Come ci dice Friedrich von Hayek – uno dei massimi ideologi neoliberisti – fondatore nel 1947 della Mont Pelerin Society:
“Il problema se lo stato debba o non debba agire o interferire induce a porre un’alternativa del tutto sbagliata, e l’espressione laissez-faire è una descrizione molto ambigua e sviante dei principi sui quali si basa la politica liberale”(1) in quanto “quel che importa è la natura, non il volume delle attività pubbliche.” (2).
La proposta politica neoliberista non consiste dunque nella riduzione del ruolo dello stato, ma in una precisa definizione dell’intervento statale: il compito dello stato è quello di garantire l’ordine di mercato, cioè il massimo della concorrenza, che sta alla base della “Società Aperta”. Per Hayek infatti l’ordine di mercato è il fondamento dell’ordinato svolgersi delle relazioni economiche che costituiscono “il fondamento del legame sociale.” (3). Per i neoliberisti, il mercato è quindi inteso come il regno della concorrenza totale, della guerra economica dispiegata, che viene elevata “a principio centrale della vita sociale e individuale.” (4)
In questa ideologia, a differenza del liberalismo classico, “il mercato non viene più identificato con lo scambio, ma con la concorrenza. Infatti mentre lo scambio funziona secondo un principio di equivalenza, la concorrenza implica necessariamente la diseguaglianza” (5)
Al centro dell’ideologia neoliberista, vi è quindi una precisa opzione politica: costruire una società fondata sulla spietata concorrenza tra gli umani. Il centro del neoliberismo non è l’economia, ma la produzione di gerarchie sociali attraverso una stato permanente di guerra economica esasperata. L’economia è usata come una foglia di fico, come una ideologia di copertura per una proposta politica apertamente reazionaria e inumana, fondata sul darvinismo sociale, sulla gerarchia, sullo sfruttamento e sul dominio dei pochi sui molti. Il neoliberismo è la forma concreta che l’ideologia di destra ha assunto in forma mimetica nel dopoguerra, dopo la sconfitta del nazismo.
Riassumendo, volendo dar vita ad una società fondata sulla piena concorrenza tra i lavoratori – secondo gli ideologi neoliberisti – lo stato deve imporre un ordine di mercato che funzioni secondo i principi del diritto privato: “libertà di contratto, inviolabilità della proprietà e dovere di compensare i terzi per i danni dovuti alle nostre colpe.” (6).
Lo stato deve quindi creare e garantire il funzionamento di un mercato concorrenziale per ogni merce – a partire dalla forza lavoro – attraverso la tendenziale abolizione del diritto pubblico e l’assolutizzazione di quello privato. Da questa impostazione scompare letteralmente il tema degli interessi e dei diritti collettivi che lo stato dovrebbe salvaguardare. I neoliberisti, in preda a un delirio individualista, vogliono ridurre la società alla concorrenza tra le persone, abolendo ogni realtà e prospettiva di pubblica utilità, di bene comune.
L’uso strumentale dell’economia
Questa centralità assorbente della concorrenza viene “appoggiata” sulla completa deformazione della scienza economica. I liberisti, infatti, da un lato proclamano che le loro proposte non sono altro che l’applicazione pratica delle leggi economiche oggettive. Rivendicano quindi per le loro folli proposte una sorta di status di natura, inviolabile e inamovibile. Dall’altro, la nozione di economia che utilizzano è completamente deformata e stravolta.
L’economia è infatti la “scienza che studia l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi”. Questa è la definizione scientifica di economia: vale per ogni formazione sociale, e dovrebbe essere la base su cui fondare ogni ragionamento economico. E’ del tutto evidente che, per i neoliberisti, non è così: loro pongono al centro lo sviluppo della massima concorrenza tra i lavoratori, non la ricerca del modo migliore per soddisfare i bisogni sociali in un regime di risorse scarse. Come potete facilmente capire, le due cose non c’entrano nulla: l’economia ha a che vedere con la ricerca del benessere sociale complessivo; il neoliberismo con la costruzione della guerra tra i poveri. I liberisti contrabbandano per economia quella che è una pura scelta politica padronale estremizzata, e al contempo cercano di sostenere che la loro non è una scelta politica, ma la pura applicazione delle “oggettive leggi dell’economia”. In questo modo svincolano il loro progetto politico dalla politica e dalla sua perdita di credibilità, e si presentano come economisti, cioè come presunti portatori di una scienza indiscutibile. I neoliberisti hanno deformato l’economia a loro immagine e somiglianza, per poi utilizzare l’economia per veicolare la loro ricetta politica reazionaria, il pensiero unico. Non a caso, si è prodotta in questi ultimi trent’anni una chiara gerarchia in cui gli economisti – i cosiddetti “tecnici” – sono considerati superiori ai politici. Nello specifico i tecnici hanno la funzione salvifica dei sacerdoti, mentre i politici sono presentati come un inutile intralcio. Da questo punto di vista, la politica neoliberista vede la sua legittimazione a partire dal ruolo dei sacerdoti (Andreatta, Ciampi, Dini, Monti, Draghi) e solo nella fase applicativa può essere delegata ai cosidetti “politici”. Il “Partito liberista” è quindi molto diverso da quelli che caratterizzavano la fase democratica: è normale che i sacerdoti siano “trasversali” a diversi partiti che litigano tra di loro su alcune cose, ma non sui nodi di fondo delle scelte economiche e sociali.
Il colpo di stato “legale”
I neoliberisti, dopo aver piegato la nozione di economia ai loro disegni politici e aver indicato cosa deve fare lo stato e come, si sono quindi posti l’obiettivo di rendere strutturale ed inamovibile questo indirizzo. Si sono posti l’obiettivo di rendere immodificabile, “eterna”, la scelta a favore del “libero mercato”, evitando ogni riproposizione del diritto pubblico e degli interessi collettivi. Un “libero mercato” ove i grandi oligopoli si accordano e si spartiscono il mercato facendo concorrere chi sta in basso, i lavoratori in primo luogo, ma anche il complesso delle piccole e medie imprese.
E’ evidente che l’obiettivo dei neoliberisti è molto ambizioso e di difficile realizzazione in quanto – a meno che non si abolisca la democrazia con un colpo di stato – in un regime democratico i cittadini sono potenzialmente liberi di votare programmi diversi da quelli liberisti.
E’ proprio per risolvere questo “piccolo problema”, e cioè che i cittadini possono votare cose che non piacciono ai capitalisti, che il pensiero liberista compie un vero e proprio salto di qualità con la teorizzazione di un colpo di stato “legale”.
Vediamo meglio. I neoliberisti teorizzano uno stravolgimento della democrazia proponendo che l’azione dello stato democratico (legislativo ed esecutivo), espressione della sovranità popolare, venga subordinato a un livello superiore che i liberisti chiamano “meta-legale” o di “Stato di diritto”. Questo livello di comando, non eletto da nessuno, è quello che secondo i neoliberisti deve fissare le regole al cui interno si deve muovere l’attività legislativa, cioè il potere democratico. Come dice esplicitamente von Hayek, “poiché costituisce una limitazione imposta a tutta la legislazione, il governo della legge non può essere esso stesso una legge nel medesimo senso delle leggi approvate dal legislatore” (7)
In pratica, per von Hayek, lo stato si deve dotare di una “super legge”, gerarchicamente superiore all’attività legislativa dei parlamenti e non votata dai parlamenti medesimi.
Van Hayek propone infatti in modo esplicito di avere una regola generale che determini
“una limitazione dei poteri dello Stato, inclusi i poteri del legislativo”. (8)
Sia detto per inciso che il concetto di “stato di diritto” di von Hayek coincide perfettamente con quella che gli ordoliberisti Euken ed Erhard chiamano “decisione di base” o “decisione fondamentale”. Non vi è infatti alcuna differenza di fondo tra i neoliberisti austo-statunitensi e gli ordoliberisti tedeschi che hanno forgiato l’Unione Europea.
Il ritorno all’ancien regime
Spero che risulti chiaro l’enormità che viene qui proposta da von Hayek: al di sopra della volontà del popolo vi deve essere una norma non decisa in alcun modo dal popolo. Nelle teocrazie, si dice che sopra alla volontà del popolo c’è la legge divina; nelle monarchie si dice che sopra la volontà del popolo vi è quella del sovrano. Per i liberisti, al di sopra della volontà del popolo vi deve essere la ferrea legge della massima concorrenza tra i lavoratori, della guerra tra i poveri.
A tutti gli effetti il neoliberismo propugna la sterilizzazione della sovranità popolare, un ritorno in forme diverse all’ancien regime. Quella descritta è infatti lo svuotamento della democrazia mantenendone in piedi la facciata, l’aspetto teatrale. E’ infatti del tutto evidente che – in democrazia – la funzione sovraordinatrice a tutte le leggi, che determina il quadro di azione del legislatore e le forme di esercizio della sovranità popolare, è data dalla Costituzione. La Costituzione fissa i confini al cui interno il legislatore si deve muovere, e non a caso ha procedure di modifica assai più rigide di una legge ordinaria. Il punto fondamentale è che negli stati democratici la Costituzione è essa stessa un prodotto del libero dispiegarsi della sovranità popolare. La Costituzione di uno stato democratico, dalla Rivoluzione Francese in avanti, non è imposta da qualche entità superiore: è l’atto fondativo – costituente – deciso dal popolo sovrano per regolare il proprio vivere civile.
Ai neoliberisti questo non piace e – pur mantenendo gli elementi formali di uno stato democratico – propongono di dotare gli stati di una norma ulteriore, superiore gerarchicamente all’attività legislativa dei parlamenti – e quindi anche delle Costituzioni – che contenga i vincoli entro cui deve muoversi l’attività legislativa e quindi la democrazia. Per i neoliberisti è necessario fissare una norma inamovibile, sottratta al volere dei cittadini che prescriva l’intangibilità del libero mercato, della concorrenza, e fissi il limite del diritto privato come limite entro cui deve muoversi il legislatore. Per i liberisti il voto deve essere libero, ma non può mettere in discussione le scelte fondamentali: è il partito unico del capitale.
Il ruolo dei trattati internazionali
L’operazione pensata dai neoliberisti nel secondo dopoguerra non era per nulla facile da realizzare, e la strada concreta su cui si sono mossi è stata quella di dar vita a trattati internazionali che contenessero i principi liberisti. Accordi sovranazionali che costringano l’azione legislativa dei parlamenti all’interno di una gabbia immodificabile: questa è stata la forma concreta utilizzata per realizzare questo vero e proprio colpo di stato.
L’applicazione di questo disegno è particolarmente evidente per quanto riguarda l’Unione Europea, i cui trattati sono formulati al fine di obbligare sia i parlamenti nazionali che quello europeo all’interno delle regole della concorrenza e dell’austerity. Quante volte ci siamo sentiti dire: “ce lo chiede l’Europa”?. Negli ultimi decenni, la discussione politica non ha più riguardato il benessere del popolo italiano ma unicamente il rispetto di parametri europei. Attraverso i trattati europei è stato posto un vincolo esterno all’attività del legislatore italiano – e di tutti gli altri paesi – e non a caso è cominciata l’epoca dei “tagli”, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. I trattati europei hanno quindi la caratteristica di un “vincolo esterno”, di una “superlegge” che obbliga ogni paese – e il parlamento europeo – a legiferare all’interno dei vincoli imposti dai trattati e scritti dai tecnocrati liberisti.
Questo non è accaduto a caso. I trattati europei sono stati costruiti attorno al principio proposto ed imposto dagli ordoliberisti tedeschi. Per dirla con le parole del loro esponente politico di punta come Ludwig Erhard, la cooperazione europea doveva aver luogo in un sistema di economie libere, e i soli organi sovranazionali concepibili dovevano essere: “organi di sorveglianza destinati a garantire che gli Stati nazionali rispettassero le regole del gioco stabilite in precedenza”. (9)
I trattati europei svolgono quindi la funzione di quello “Stato di diritto” che sta sopra ai parlamenti che von Hayek invocava al fine di rendere immodificabili le politiche liberiste.
Gli stessi trattati internazionali che regolamentano il commercio e gli investimenti hanno questa caratteristica di fissare regole “sovraordinatrici” alle Costituzioni e alle leggi degli stati democratici.
La democrazia ridotta a simulacro
Credo che, a questo punto, sia chiaro come la rivoluzione conservatrice neoliberista abbia operato per trasformare la democrazia in un puro simulacro: le scelte fondamentali vengono scritte e prescritte in trattati posti fuori dalla portata della sovranità popolare, in modo da diventare indiscutibili ed inamovibili. La funzione delle democrazia non è più quella di permettere al popolo di scegliere sulle opzioni di fondo, ma semplicemente quella di scegliere il personale politico che amministrerà le opzioni già decise e non discutibili. E’ questa la base materiale su cui è cresciuta la crisi della democrazia e della politica, che diventa una specie di teatrino in cui tutti litigano sostenendo nei fatti ricette identiche: le scelte sono già fatte e già accettate, si tratta solo di “concorrere” per chi andrà ad amministrare quelle scelte. Avendo posto fuori gioco le opzioni effettivamente alternative, emerge unicamente la concorrenza – rappresentata nella forma dello scontro teatralizzato – tra le persone. In questo modo, i talk show hanno preso il posto delle telenovele e abituato la gente all’idea che la politica sia un mestiere per furbacchioni che di lavoro fanno un’infinita discussione a puntate senza cambiare mai nulla. Almeno in meglio. La distruzione della democrazia porta quindi con sé la distruzione e la perdita di credibilità della politica fondata sull’assenza di alternative reali e percepite come possibili.
Non è una estremizzazione affermare che gran parte delle principali forze politiche italiane ed europee condividono le stesse politiche neoliberiste, sono finanziate dalle imprese multinazionali, ma litigano continuamente in modo da occupare per intero la scena televisiva e dar corso a quell’enorme rappresentazione teatrale a cui è stata ridotta la politica dell’alternanza. A queste dobbiamo costruire l’alternativa.
note:
1) P.Dardot e C.Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi ed., Roma, 2013, pag. 257
2) F. von Hayek, La via della schiavitù, p.132
3) F. von Hayek, La società libera, edizioni SEAM, Formello 1998, p. 290
4) Dardot, p. 262
5) Dardot p. 164
6) Von Hayek, Legge, legislazione e libertà, pag. 233
7) Von Hayek, La società libera, p. 272
8) Von Hayek, La società libera, p. 271
9) Dardot, p. 359