Italia: la colonizzazione dei cervelli
Paolo Ferrero*
In Italia, negli anni Settanta e Ottanta, esistevano il più grande partito comunista e il più forte movimento operaio dell’occidente. Oggi no.
Nel fare i conti con questo cambiamento, è opportuno sottolineare come, in questi ultimi quarant’anni, l’offensiva neoliberista sia stata diretta contro la forza materiale del movimento operaio e comunista, ma anche volta alla distruzione delle “ragioni” di chi si batteva per l’alternativa. Questa aggressione si è intrecciata in Italia con quella della destra fascistoide, finalizzata a “chiudere un dopoguerra durato troppo a lungo” e con il passaggio di larga parte del gruppo dirigente del PCI “dall’altra parte della barricata”, vale a dire nel campo liberale e anticomunista.
L’obiettivo di questa articolata offensiva è stato la radicale modifica della società italiana, dei rapporti di forza tra le classi, e dell’immaginario popolare: hanno costruito una “nuova narrazione”, funzionale al consolidamento dell’egemonia capitalista.
A scanso di equivoci, questa offensiva non è avvenuta solo sul terreno politico, ma ha aggredito e plasmato le culture, gli stili di vita, il senso comune, l’antropologia del popolo italiano. Essa è stata veicolata da telegiornali e dibattiti politici, e, soprattutto, attraverso i talk show, le pagine culturali dei giornali, gli spettacoli di intrattenimento, “inchieste” pilotate, romanzi e film “storici” che rovesciavano la realtà. Il revisionismo storico è stato spalmato sul complesso della comunicazione mediatica. Una vera e propria colonizzazione dei cervelli e delle vite che si è snodata, intrecciandosi, nel corso di decenni.
Non più ‘destra-sinistra’, ma ‘nuovo-vecchio’
Il primo passo è stata la sostituzione, negli anni Ottanta, della contrapposizione “destra-sinistra” e “alto-basso” con quella “nuovo-vecchio”. Attorno a questa nuova polarità, la classe operaia e il comunismo sono diventati il vecchio, mentre le non meglio definite “nuove figure sociali” e il rampantismo craxiano sono diventate il nuovo. Il vecchio, com’è evidente, non ha bisogno di essere confutato: semplicemente è scomparso ,e, in ogni caso, “è fuori moda”.
Così gli operai, dopo essere stati sconfitti, sono stati fatti scomparire… La ristrutturazione tecnologica e microelettronica è stata raccontata come la sostituzione delle tute blu a favore dei camici bianchi: il lavoro sporco, la fatica e lo sfruttamento scomparivano, “sorpassati” dalla nuova società post fordista. Questa fiaba in larghissima parte infondata è stata ripetuta come un mantra, a reti unificate, ed è, in questo modo, diventata vera. Questa narrazione “sociale” ha supportato quella politica, e così, con gli operai, sono state fatte scomparire anche la lotta di classe e il comunismo. Il comunismo, si badi, da un lato viene attaccato come il male assoluto, e dall’altra viene dipinto come sorpassato in quanto espressione della classe operaia: brutto e fuori moda! Il passo successivo alla sconfitta sociale e politica è stata la sepoltura degli operai e del comunismo. Amen.
L’anticomunismo degli ex comunisti
Il secondo passo è stato lo scioglimento del PCI da parte della maggioranza del suo gruppo dirigente ,che si è fatto cadere addosso il muro di Berlino. Tutta la peggiore propaganda anticomunista è stata di colpo legittimata dai massimi dirigenti comunisti, che, a un certo punto, hanno sostanzialmente detto: “è vero, mangiavamo i bambini”. L’autonomia dall’URSS, gli strappi, la terza via, l’eurocomunismo… tutto cancellato in un minuto: avevano ragione gli altri. Anche in questo caso gli elementi ridicoli non si contano: forse il più incredibile è Valter Veltroni, che a un certo punto ha scoperto di non essere mai stato comunista.
L’elemento devastante di questo spettacolo avvilente – avvenuto in Italia in dimensioni sconosciute in altri paesi – è che il personale politico ex comunista è diventato immediatamente anticomunista sul piano politico, e liberale sul piano sociale.
L’anticomunismo italiano, che è diventato egemone, ha visto Berlusconi nel ruolo di sfondamento, ma ha acquisito efficacia proprio grazie al ruolo degli ex comunisti pentiti: “se lo dicono loro….”
Anche in questo caso, l’abbandono della prospettiva comunista si è associato all’abbandono di ogni lettura classista della società: i diritti dei cittadini contrapposti ai diritti dei lavoratori, gli utenti contrapposti ai lavoratori, l’etichettatura di corporativa per ogni lotta contro lo sfruttamento, sono stati i veicoli di questa offensiva tesa a smobilitare la lotta contro lo sfruttamento.
In questo quadro, il comunismo è divenuto il male assoluto, e, con esso, il capitalismo il bene assoluto, la società “naturale” e insuperabile, se non a prezzo di cadere nella barbarie. Se il comunismo è impossibile significa che il capitalismo è eterno: non resta che adattarsi.
La denigrazione della Resistenza
Il terzo passo sono state la dilatazione parossistica del dramma delle foibe e l’attacco al valore morale della Resistenza. Sulle foibe abbiamo assistito a una falsificazione storica clamorosa in cui un numero limitato di vendette e assassinii commessi a cavallo della fine della guerra sono stati gonfiati a dismisura e presentati come valore paradigmatico della brutalità comunista anti-italiana. Anche qui, il ruolo degli ex dirigenti del PCI è stato decisivo, da Violante a Napolitano. Il clou è stata l’istituzione della “Giornata del ricordo”, – voluta dalla destra ma pienamente approvata dai Democratici di Sinistra – che ha permesso di equiparare sul piano simbolico l’olocausto con la vicenda delle foibe. In questo modo carnefici e vittime sono stati volutamente confusi: non è infatti un mistero che il confine orientale fu teatro di una barbarica aggressione anti-slovena sia da parte delle milizie fasciste che del regime nazista, che dopo l’8 settembre ‘43, governava direttamente il territorio del cosiddetto “litorale adriatico”.
La narrazione costruita attorno alla vicenda delle foibe si è intrecciata, facilitandola, con una più generale azione di attacco al valore morale e simbolico della Resistenza. Da mito fondatore della Repubblica che ha permesso di riscattare “l’onore della Patria” dopo il vergognoso regime fascista alleato alla Germania nazista, la Resistenza è stata dipinta come inutile sul piano della liberazione del paese e dannosa sul piano dei possibili esiti. “Meno male che non hanno vinto i partigiani”; “meno male che non abbiamo vinto”, ha detto più di un dirigente ex comunista, a suggellare il rischio che l’Italia aveva corso in virtù della lotta partigiana… Parallelamente è stato anche reso pressoché irrilevante il decisivo contributo militare e umano dell’Unione Sovietica nella sconfitta del Terzo Reich. La decisiva battaglia di Stalingrado scompare, e anche i campi di concentramento vengono scoperti e “liberati” dall’esercito statunitense, come abbiamo appreso dal film di Benigni La vita è bella, che, non a caso, ha ricevuto l’Oscar…
La riscrittura della storia dello stato italiano
Il quarto passo, parallelo a quello precedente ma molto più sottile, riguarda direttamente la storia dello stato italiano. Fino agli anni Ottanta, la storia dello stato italiano era la storia della Repubblica, fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza. La Resistenza era il vero e proprio mito fondatore della nostra civile convivenza, l’antifascismo la nostra religione civile, e la Costituzione repubblicana la nostra bibbia. Questo era fondato anche sul fatto che lo stato italiano si era letteralmente dissolto dopo l’8 settembre, e al nord gli organi statuali rispondevano all’occupante nazista. La Repubblica era quindi a tutti gli effetti un nuovo inizio, una nuova pagina nella storia del paese dopo la barbarie della guerra e del nazifascismo. Nel corso di questi ultimi decenni, con un grande protagonismo dei massoni e del “Corriere della Sera”, di Ciampi e Napolitano, si è artificialmente ricostruita una “continuità” dello stato italiano, dipingendo la Repubblica come prosecuzione dello stato sabaudo che – guardacaso – ha anche avuto la parentesi fascista… L’insistenza sui soldati italiani caduti in battaglia a Cefalonia negli scontri con le truppe naziste, ha svolto il ruolo di conferma simbolica della continuità dello stato italiano. Così come i contenuti delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità hanno sottolineato che la Repubblica non è più un nuovo inizio della storia dello stato italiano ma è una parentesi – per ora ancora aperta – alla stessa stregua della dittatura fascista. Si può pensare che questa sia una sottigliezza, ma invece è un punto decisivo nella costruzione dell’autocoscienza della nazione. In Francia, nei monumenti pubblici, la repubblica collaborazionista di Vichy non esiste, è considerata un’interruzione della storia della repubblica francese che parte dalla rivoluzione del 1789. In Italia oggi no: Mussolini risulta presidente del Consiglio tanto quanto Prodi e così via, in un raccapricciante quanto esibito continuismo istituzionale.
L’abolizione delle parole che esprimono la divisione in classi
Il quinto passo è stato principalmente linguistico, ed è consistito nella cancellazione di tutte le parole che fotografano ed esprimono il carattere classista della società.
Abbiamo visto che, in un primo tempo, gli operai son scomparsi. Poi, vista la loro pervicace perseveranza nel continuare a lavorare per i padroni, li hanno semplicemente cambiati di ruolo nel nuovo capitalismo: sono diventati “collaboratori”, “risorse umane”. Parallelamente è scomparso lo “sfruttamento”, perché, se le relazioni lavorative sono improntate alla “collaborazione”, certo non può esistere lo sfruttamento. In questo contesto, chiaramente, sono scomparse le “classi sociali”, perché il ruolo ricoperto nel ciclo produttivo non è gerarchicamente funzionale a una organizzazione dello sfruttamento, ma è dovuto alle capacità del singolo: se sei bravo avrai un buon stipendio, se non sei capace avrai un pessimo stipendio e un pessimo lavoro. In questo modo, scomparsi gli sfruttati, sono emersi gli “sfigati”: se non arrivi da nessuna parte non incolpare la società, sei tu che potresti essere ricco come Berlusconi e invece sei un morto di fame. La colpa è tua! Scomparse le classi sociali e gli sfruttati, ovviamente sono scomparsi anche gli sfruttatori e i “padroni”, che proprio non esistono più perché sono diventati “datori di lavoro”, “imprenditori”. Questi ultimi non sfruttano i lavoratori per aumentare i loro profitti, ma “creano posti di lavoro” e “resistono”, non solo alla concorrenza sleale dei cinesi ma anche all’aggressione dello stato che li salassa con tasse ingiuste. I datori di lavoro sono quindi degli eroi che continuano a impegnarsi col solo fine che i loro collaboratori possano mantenere la famiglia. Non esistono più sfruttamento o lotta di classe, solo la competizione con altri lavoratori in altre parti del mondo. l lavoratori sono quindi sulla stessa barca dell’imprenditore, e solo se l’impresa funziona può esistere salvezza. Non a caso Marchionne considerava traditori coloro che scioperavano, perché indebolivano l’azienda proprio mentre era impegnata nella guerra per la sopravvivenza sui mercati mondiali. Che poi la famiglia Agnelli abbia barattato la FCA con i francesi ottenendo soldi per loro in cambio di potere – e di disoccupazione in Italia – questo è un’altro discorso….
Non proseguo oltre. Il punto è che, in una situazione in cui le differenze di classe (reddito, potere, impossibile mobilità sociale), non sono mai state così nette e feroci, i nostri nemici cercano di abolire addirittura le parole che permettono di fotografare una società divisa in classi e di esprimere la volontà di cambiare.
La trasformazione dell’economia in una religione indiscutibile
Un ulteriore passo è stato l’occultamento delle politiche antipopolari proprie dell’impostazione neoliberista sotto la presunta “oggettività” e “naturalità” dell’economia. Ci spiegano che il mondo, grande e terribile, è dominato dai mercati internazionali. I mercati internazionali sono nervosi e possono punire chi si comporta male. Per questo, bisogna dimostrare di essere virtuosi facendo sacrifici. Avendo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, abbiamo rubato il futuro ai nostri nipoti, li abbiamo indebitati e per questa via resi schiavi di un debito che passeranno tutta la vita a cercare di pagare. Per uscire da questa situazione di colpa non basta fare i sacrifici: occorre affidarsi a chi conosce i mercati, parla la loro stessa lingua ed è in grado di non farli innervosire. I Monti e i Draghi traggono il loro prestigio dalla funzione sacerdotale che ricoprono, di intermediari con i mercati, cioè le divinità a cui dobbiamo piegarci per non essere puniti. Così come i preti recitavano la messa in latino e i fedeli – che non capivano – non potevano che affidarsi al loro potere di intermediazione, così oggi le spiegazioni sull’economia – che ha assunto un vero e proprio ruolo di legittimazione religiosa – avvengono in una “neolingua” derivata dall’inglese e incomprensibile ai più. Questa “naturalizzazione” dell’economia ha un enorme effetto sedativo perché qualunque politica antipopolare non è più espressione di una volontà reazionaria ma l’adesione necessitata alle indiscutibili leggi dei mercati, che debbono essere rispettate pena il trovarsi in una situazione di “default”. Ci viene spiegato che è inutile ribellarsi al destino, al fato: i mercati non possono essere modificati ma solo assecondati, e tutti coloro che si situano tra il lavoratore e il mercato (padroni, dirigenti, governanti, etc.) non sono altro che utili esecutori delle scelte necessarie per non essere puniti dai mercati. Si tratta di una vera e propria educazione di massa all’impotenza, individuale e collettiva, nell’impossibilità di modificare la situazione concreta. Fine della storia.
In conclusione
Potrei proseguire portando anche altri esempi ma non ne abbiamo lo spazio. Il punto fondamentale è cogliere la rilevanza dell’offensiva posta in essere in questi anni per distruggere l’immaginario delle classi subalterne e la loro possibilità di emancipazione. Ovviamente, come abbiamo detto, si tratta solo di una parte della più generale guerra ideologica contro il comunismo e la lotta di classe, ma spero che risulti chiara la sua portata. Il conflitto di classe e la radicalizzazione politica a sinistra non nascono solo perché aumenta lo sfruttamento, ma perché il conflitto diventa “pensabile”, auspicabile. In questi anni hanno lavorato a convincerci della nostra impotenza e dell’impossibilità di cambiare il mondo. A convincerci che possiamo solo cercare di consumare di più, non cambiare la nostra vita..
A partire dall’analisi di quanto è successo, dalla comprensione dei passaggi che hanno reso inefficaci larga parte delle nostre parole d’ordine, dobbiamo reimpostare la nostra lotta politica, per ricostruire la nostra forza e le nostre ragioni, trovare le “parole per dirlo”, costruire un nuovo immaginario del comunismo e della trasformazione sociale. E’ la prosecuzione del lavoro impostato con questo numero della rivista.