IV Novembre, antimilitarismo e democratizzazione dell’esercito
Pubblichiamo alcune pagine tratte da Passare con il semaforo rosso, quasi un romanzo, libro scritto da Giovanna Capelli, dirigente nazionale di Rifondazione Comunista, e su cui troverete, nella prossima sezione, anche la recensione di Sergio Dalmasso. Il libro di Giovanna ricostruisce l’attività del Centro Mao di San Giuliano Milanese, tra il 1968 e il 1976, e i percorsi politici ed esistenziali dei suoi sostenitori e attivisti, e al contempo parla una lingua che va al di là della collocazione temporale e territoriale specifica: è l’idioma della militanza e del tentativo collettivo di costruire l’alternativa….
Giovanna Capelli
l gruppo di maschi operai fondatori del Centro Mao (Angelo, Primo, Gianni, Luciano, Amilcare, Tony 1, Ramon, Tony 2, e altri) hanno tutti un conto sospeso con l’esercito italiano, con cui hanno avuto a che fare sia nella narrazione di vita dei loro padri e parenti, sia personalmente nell’età della leva (dal 1962 al 1965). Per il passato della seconda guerra mondiale parla per tutti l’esempio di zio Angelo di Casalmaiocco, tornato dal campo di prigionia in condizioni di massima denutrizione e che da allora non è più andato in chiesa né voleva sentir parlare dell’esercito. Gianni ha fatto il militare in Piemonte, ha raccontato di essersi rifiutato di andare a messa, di aver in qualche modo comunicato ai superiori la sua collocazione politica e di aver fatto politica fra i suoi compagni. Il risultato era stato molte consegne, pochissimi congedi e, a partire dagli ottimi risultati conseguiti nel corso di addestramento all’uso dei mortai, mesi e mesi in alta quota nel cuneese a fare i vari campi. Di quel periodo aveva conservato una fitta raccolta di corrispondenza delle lettere dei suoi amici da militari, tutte molto efficaci nel tratteggiare il clima soffocante e repressivo della caserma per chi non era inquadrato nell’ideologia dominante, per chi non andava a messa, per chi leggeva i testi marxisti e teneva magari testa alle opinioni politiche degli ufficiali, che in genere esprimevano posizioni conservatrici e reazionarie. Oltre alle lamentele e all’insofferenza per la struttura gerarchica, nelle lettere affiora un dibattito molto primitivo, ma esplicito su come fare il militare perché serva alla rivoluzione. Molti dicono: impariamo bene quello che vi è da imparare (strutture, metodi, funzionamento delle armi, etc.), facciamo cautamente propaganda con le reclute, individuiamo anche gli ufficiali democratici e teniamo poi da conto questi contatti e queste relazioni per quando ci sarà bisogno di loro per la rivoluzione; altri riflettono che l’esercito popolare non può avere una struttura fascista come quella attuale con umiliazioni, soprusi, cose inutili e senza senso, e intraprendono la strada individuale della ribellione, accumulando punizioni e consegne (sapendo che alla fine ci può essere il carcere militare di Gaeta) o tentano la via del digiuno, del darsi malato, per farsi dare il congedo anticipato. In questi atteggiamenti, pur diversificati, non vi è un input “dall’alto”, ma un senso comune diffuso in quella comunità di amici che, in ogni paese in cui mettevano piede, andavano sempre a vedere il monumento ai caduti della prima guerra mondiale, lo rapportavano al numero di abitanti e commentavano il grande massacro di proletari ricordando le parole del canto antimilitarista “O Gorizia tu sei maledetta”. In ogni famiglia vi era un nonno o uno zio o un parente caduto in quella guerra e a volte nei racconti si palesava la tragedia di chi era stato mandato in prima linea per punizione, di chi era sospettato di essersi ferito per andare a riposare nelle seconde linee. Quella guerra per loro non era lontana come per me, ma ancora una ferita aperta da rappresentare e ricordare nei suoi molteplici significati. Nel novembre del 1969 o del 1970 ho il compito di ridurre a volantino una serie di appunti di una riunione per distribuirlo alla cerimonia del IV novembre in paese, quando istituzionalmente si festeggia purtroppo non solo la fine della guerra, ma la vittoria. È uno di quei momenti in cui si manifesta in tutta la sua pervasività la retorica del sacrificio per la patria senza inquadrare mai contesto, cause e conseguenze della guerra; il ricordo dell’esercito regio e della fermata del nemico sul Piave dopo Caporetto viene rappresentata in perfetta continuità e armonia con la Resistenza, con la Costituzione, con il suo famoso (e disatteso) articolo 11.
Il volantino vuole rompere provocatoriamente la narrazione militarista della prima guerra mondiale e costruire quella di un popolo sovrano e di una repubblica nata dalla Resistenza e dalla lotta contro il fascismo e fondata sul lavoro. Il testo è di attacco diretto alla cerimonia istituzionale e segue questo filo di ragionamento: IV novembre. La festa di chi? Non vi è oggi nulla da festeggiare, questa è una giornata di lutto per i lavoratori e i contadini italiani che sono stati sacrificati e mandati al macello per ridefinire i rapporti di forza non solo territoriali fra le borghesie europee. L’Italia avrebbe potuto rimanere fuori da questo massacro; volevano la pace e la neutralità la maggioranza degli italiani, le masse cattoliche e socialiste. Si sarebbero ottenuti ugualmente i cosiddetti territori “irredenti” reclamati dalle minoranze interventiste. Scelsero la guerra il Governo, il re, sulla spinta delle forze avide dei capitalisti italiani. Il modo con cui la guerra è stata condotta apre poi un’altra pagina tremenda, parla di una strategia militare che considera nulla la vita degli uomini, costretti in trincea al gelo con equipaggiamento inadatto, mandati all’assalto alla conquista di inutili postazioni. E contro la ribellione, la stanchezza, la desolazione dei soldati la barbarie della decimazione. Fucilati uno su dieci, serva l’esempio per gli altri. Da questa guerra barbara delle borghesie europee del primo novecento la Russia è uscita con la Rivoluzione d’Ottobre. Non permettiamo più che l’avidità del capitale ci porti in altri massacri. Il volantino scatena un putiferio, ma anche molto interesse non solo fra i giovani e ci guadagna molte relazioni con persone incuriosite dalla nostra versione dei fatti, dalla conoscenza di un’altra storia, dalla fondatezza delle nostre argomentazioni…….. Tutti i ragazzi che poi si avvicinano al Centro Mao assorbono questa impostazione antiautoritaria; fra di noi dissertavamo sulla differenza fra l’esercito italiano, le sue regole e le sue funzioni e il significato della leva, e quello che per noi era l’esercito giusto, l’esercito popolare, di uomini e donne e di come avrebbe dovuto funzionare. Leggiamo molto sulla Lunga marcia, sull’Armata rossa, sui nodi “etici” che le Brigate partigiane dovettero affrontare. Non ci risparmiamo nulla nella ricerca né degli eroismi, né delle pagine buie in cui gli eserciti che difendono la rivoluzione usano gli stessi metodi dell’esercito borghese. Scoprirlo di volta in volta era un colpo al cuore, da cui ci risollevavamo con nuove domande, e nuove letture, e nuove pretese per la rivoluzione futura. Questo nel campo astratto delle idee; in concreto tutti i maschi del Centro Mao, che dopo gli anni ’70 andarono alla leva, vengono coinvolti e indirizzati alle lotte per la trasformazione democratica e antifascista della leva e quindi dell’esercito nel suo complesso. Per fortuna, rispetto a quando avevano fatto il militare i “vecchi “del Centro Mao, i tempi sono veramente cambiati: in caserma non arrivano più singoli comunisti che i superiori possono fiaccare o controllare adeguatamente, ma studenti e operai forgiati dall’esperienza delle lotte e che conoscono i tentativi di golpe in Italia, i legami con la Nato e, invece di evitare la leva, vogliono cambiarla. Non solo il Centro Mao, ma tutte le forze a sinistra del PCI agiscono insieme e capillarmente in questo modo. In quell’epoca la leva è un fenomeno di massa, ogni 15 mesi partono 250.000 giovani, interrompendo lo studio o il lavoro per questo periodo di addestramento alla disciplina più che all’uso delle armi. Nel 1970 le prime ribellioni avvengono a Udine, a Casale e a Pinerolo; qui un giovane muore durante un’esercitazione all’uso di esplosivi per responsabilità di un ufficiale che, per il gusto del pericolo e per filmare l’esercitazione, ha superato i limiti di sicurezza. La caserma entra in sciopero e si rifiuta di fare l’adunata per il 2 giugno.
Ad ogni annualità di coscrizione facciamo circolare a San Giuliano un testo di questo genere:
Giovane, studente, lavoratore, poiché siamo venuti a conoscenza che anche tu, come noi sei prossimo alla partenza per il servizio di leva, ti invitiamo a partecipare all’Assemblea che si terrà presso il centro di Cultura popolare di San Giuliano, sabato 30 marzo alle ore 20, 30. Verrà proiettato un filmato sulla condizione dei militari e sulla loro funzione. Contiamo sulla tua partecipazione.
Nelle riunioni si mettono in luce le condizioni dei giovani durante la leva, il carattere fascista e anticostituzionale del Regolamento di disciplina, le cattive condizioni di vita nelle caserme rispetto al vitto, l’alloggio e le cure mediche, l’assenza di informazione libera e di biblioteche etc. Inoltre si denunciano i soprusi del nonnismo, che vengono tollerati rimanendo impuniti: si chiarisce che il nonnismo e la sua carica di violenza sono un fenomeno funzionale all’educazione all’asservimento, al crumiraggio, al qualunquismo patriottardo. Si creano nelle varie caserme di destinazione relazioni sicure e riservate per non rimanere isolati, e per aderire attivamente all’organizzazione di lotta dei soldati. In archivio ho decine di volantini dalle molte caserme dove i compagni hanno operato e organizzato lotte, comizi, sit-in. (…)