La Costituzione per salvare l’Italia
Paolo Maddalena*
L’economia italiana è da tempo sotto attacco a causa del prevalere del sistema economico, predatorio e patologico, neoliberista, fortemente voluto dalla BCE e dalla Commissione Europea, nonché dalle Istituzioni finanziarie internazionali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale per gli investimenti, il WTO (il Trattato per il commercio), cui hanno fatto seguito altri “accordi”, internazionali (TTIP, CETA), o Europei (Patto di stabilità, Six Act, Mes, ecc.).
L’emergenza del coronavirus ha aggravato enormemente i problemi preesistenti, poiché, con le restrizioni delle attività economiche, resesi necessarie per contenere i contagi, si è prodotto un calo molto forte della produzione e il conseguente ricorso all’indebitamento europeo per 209 miliardi di euro, oltre fortissimi scostamenti di bilancio, anch’essi produttivi di un alto incremento del debito pubblico.
La situazione, sia sotto il profilo sanitario, che appare sempre più fuori controllo, sia sotto il profilo economico finanziario, è senza dubbio drammatica. Occorre, dunque, correre ai ripari. E, prima di pensare ai rimedi, è indispensabile rendersi conto del “contesto” economico finanziario nel quale ci troviamo1.
I danni provocato dalla globalizzazione e dai neoliberisti
Il primo punto da porre in evidenza è che viviamo in un mondo che è profondamente cambiato negli ultimi decenni, e che è caratterizzato dal fenomeno della “globalizzazione”. Globalizzazione delle informazioni, che arrivano in tutto il mondo in tempo reale. Globalizzazione delle comunicazioni. Globalizzazione nello spostamento delle merci (ma non dei lavoratori). Tutto frutto dello sviluppo tecnologico (che ha creato la “tecnocrazia” di coloro che dispongono dei mezzi telematici), nonché delle trasformazioni della stessa finanza, la quale, utilizzando i mezzi tecnologici in questione, è diventata velocissima e imperscrutabile, e, per di più, è riuscita a far approvare dai Parlamenti leggi assolutamente irrazionali e costituzionalmente illegittime, capaci di trasformare, ad esempio, delle semplici “scommesse”, quali sono i ben noti “derivati”, in “danaro contante”.
E, a tal proposito, è da porre in evidenza che i politici neoliberisti hanno capito, per prima cosa, che chi crea danaro dal nulla è padrone del mondo, e, quindi, il primo passo che è stato compiuto ai danni del Popolo italiano è stato quello di eliminare qualsiasi legame tra la Banca d’Italia e il Tesoro (lettera di Andreatta a Ciampi del 12 febbraio 1981), rendendola assolutamente indipendente, in modo che il Tesoro stesso dovesse chiedere “in prestito” il danaro da quella stampato. E non si deve dimenticare che nel 1990 le banche pubbliche sono state tutte “privatizzate”, con la conseguenza della pratica privatizzazione della stessa Banca d’Italia, la cui assemblea è finita per essere costituita, tranne due casi insignificanti, interamente da banche private.
Finché, poi, a seguito della firma dei Trattati di Maastricht e di Lisbona, che sono trattati apertamente incostituzionali, siamo finiti per dipendere essenzialmente dalla BCE, anch’essa una banca privata in quanto proprietà delle banche centrali private dei vari Stati membri dell’eurozona. Un vero e proprio spostamento della ricchezza nazionale dalla “proprietà pubblica” del Popolo alla “proprietà privata” della finanza nazionale e soprattutto internazionale. Il dato più impressionante, dal quale normalmente si prescinde, è che lo Stato italiano, privato del potere della “creazione del danaro dal nulla”, ha dovuto chiedere “a prestito” il danaro di cui aveva bisogno, in un primo tempo, come si è visto, dalla Banca d’Italia, e poi dalle banche private in genere o dalla BCE, con la conseguenza di un indebitamento senza limiti, che ha portato alla”svendita” del territorio e di quasi tutte le “fonti di produzione della ricchezza” che sul territorio insistono.
E non si può fare a meno, a questo proposito, di osservare che quasi tutto il debito pubblico che è venuto a crearsi è stato formato dall’innalzamento senza limiti, da parte del mercato generale, dei tassi di interesse2, imposti per lo più da “speculazioni”, le quali, come è noto, non sono inidonee a far sorgere diritti di credito, o da “scommesse”, come i derivati, le quali non hanno altro effetto che la soluti retentio, cioè non hanno nessuna tutela giuridica. Si tratta insomma di un debito da definire “ingiusto”, produttivo, lo si tenga ben presente, della “svendita” del nostro “patrimonio pubblico” e di enormi danni per la Collettività.
In questo confuso “mondo globalizzato e privatizzato”, l’istinto di predominio che è nella natura degli uomini ha trovato terreno fertile per prosperare. Il tutto è stato fondato su un ben preciso pensiero: il pensiero unico, divenuto dominante, del neoliberismo. Il che ha sconvolto il “sistema economico fisiologico e produttivo” sancito in Costituzione: quello Keynesiano. Il quale prevede la distribuzione dei beni alla base della piramide sociale (in modo che i lavoratori vadano ai negozi, questi chiedano merci alle imprese e queste ultime producano e assumano altri lavoratori), e soprattutto l’intervento dello Stato, cioè del Popolo, nell’economia, in modo che si possa disporre di un ampio patrimonio per far fronte agli investimenti, alle riconversioni industriali, al soddisfacimento dei bisogni di tutti, attuando così l’articolo 41, comma 2, della Costituzione, il quale prevede che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Contro questo “sistema economico” ha prevalso, come si è accennato, il “sistema economico predatorio e patologico” del neoliberismo, il quale prevede che la ricchezza sia nelle mani di pochi, che tra questi pochi ci sia una forte concorrenza, e che lo Stato sia tenuto fuori dall’economia. È stato creato così un “meccanismo” che prevede “privatizzazioni”, “liberalizzazioni”, “delocalizzazioni” e “svendite”, ed è tutto rivolto alla distruzione dello Stato comunità, alla riduzione dell’individuo a singolo soggetto agevolmente manovrabile dai poteri forti, alla distruzione del diritto, che è fondato sull’eguaglianza, e al prevalere della forza bruta. In ultima analisi, un sistema creato al fine preciso di porre fine allo Stato comunità di carattere nazionale o federale.
E tutto è stato preparato per tempo, adottando il duplice sistema della “menzogna” e dell’“attendismo”. Si può affermare che dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso e, più precisamente, dall’assassinio di Aldo Moro in poi, l’ultimo vero difensore dell’Italia e dell’economia italiana, questo gruppo di cinici destabilizzatori del nostro Paese, purtroppo con la collusione dei nostri governi, hanno sempre colto l’occasione propizia per “destrutturare” la “Comunità politica” italiana. Per esempio, una circostanza a loro favorevole è stata la diffusa opinione dell’inefficienza della pubblica amministrazione, contro la quale le espressioni più usate sono state “privato è bello”, “più mercato e meno Stato” e via dicendo. Ma la cosa più grave è che questi “poteri”, subito battezzati “poteri occulti”, si sono presto impadroniti dell’“informazione”, specie televisiva, in modo da bombardare le menti di tutti, riempiendole di falsità, che presto, per effetto della continua ripetizione (tecnicamente si dice “accumulo”), sono diventate verità assolute.
L’attacco alla proprietà pubblica
In più si è fatto sparire dall’immaginario col- lettivo il concetto stesso della “proprietà pubblica”, peraltro espressamente riconosciuta e garantita dall’art. 42, comma 1 della Costituzione (“La proprietà è pubblica e privata”), e interpretata da Massimo Severo Giannini, illustre giurista del secolo scorso, come “proprietà collettiva demaniale” del Popolo, e cioè come una proprietà “inalienabile, inusucapibile e inespropriabile”, e quindi “fuori commercio”.
Ed è da precisare in proposito che la “privatizzazione” dei beni e servizi “in proprietà pubblica” è un “atto fraudolento”, poiché, avvenendo con la trasformazione dell’Ente pubblico in una SPA, essa sottrae furtivamente al Popolo la sua ricchezza per farla finire nelle mani di pochi “proprietari privati”, per l’appunto i “soci” della SPA, quasi sempre multinazionali straniere o singoli speculatori privati.
In questa prospettiva, si è passati da una “economia dello scambio” (cioè dello scambio dei beni ritenuti commerciabili), all’economia della “concorrenza”, nel senso che nulla si può opporre al singolo privato per impadronirsi di qualsiasi bene.
Rotti così gli argini, è avvenuto che, in un mondo globalizzato, non ci sono stati limiti alla più sfrenata “competitività internazionale”, la quale è stata vincente anche all’interno dell’Unione Europea, dove, a dispetto del “principio dell’eguaglianza” tra gli Stati e del principio della “coesione economica e sociale”, Paesi come l’Olanda, il Lussemburgo e altri sono diventati “paradisi fiscali”, addirittura con il beneplacito della Corte di Giustizia, la quale ha sentenziato che il “paradiso fiscale” si giustifica per il principio della “concorrenza”.
Nella descritta situazione è evidente che occorre innanzitutto proteggersi dagli assalti del mercato generale, facendo ridiventare “fuori commercio” il patrimonio del Popolo. E ciò è perseguibile se si “rinazionalizzano” le “fonti di produzione di ricchezza nazionale”, e cioè, come precisa l’art. 43 della Costituzione, “le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio”. Infatti, in una visione moderna, il “demanio” non dovrebbe limitarsi ai beni del cosiddetto demanio “naturale”, ma dovrebbe riguardare anche le fonti di produzione di ricchezza e tutte le altre cose materiali o immateriali da considerare “beni comuni” (in primis, la possibilità di “creare moneta dal nulla”), cioè beni essenziali per soddisfare i bisogni e i diritti fondamentali.
In questa prospettiva, non è chi non lo veda, è possibile ricostruire un “mercato interno” per il quale non ci sarebbe bisogno dell’euro, ma basterebbe una moneta nazionale parallela, garantita, magari, dalle somme di euro avute in prestito con il Recovery Fund. In tal modo, si eviterebbe di gravare sulle generazioni future, e si potrebbero agevolmente restituire i prestiti, onerosi o non, alla loro scadenza.
È da sottolineare, d’altro canto, che, se si riesce a far rivivere lo Stato comunità, nel quale Sovrano è il Popolo, una nuova strada si apre ai singoli cittadini per far valere quello che Dossetti chiamava il diritto di “resistenza”, rinvenibile nelle norme costituzionali che assicurano la “partecipazione” dei cittadini al governo della cosa pubblica.
I cittadini e la Costituzione
Il discorso, dunque, si sposta sull’iniziativa dei singoli cittadini.
E, a questo riguardo, è da sottolineare che l’articolo 2 della Costituzione sancisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Dunque l’azione del cittadino, qualora si tratti della tutela di diritti inviolabili, riconosciuti peraltro come fondamentali dalla Costituzione, incide, per così dire, su due “spazi” diversi: quello che riguarda il suo diritto come persona singola, e quello che riguarda il diritto che gli deriva dall’essere “parte di una Comunità”, senza alcun bisogno di ricorrere al concetto di “rappresentanza”.
Di qui, diremmo, una vera e propria chiamata alle armi per difendere la Patria (che è dovere sacro del cittadino: art. 52 Cost.) dalla guerra economica scatenata dalla finanza e dalle multinazionali, le quali, come si diceva poco sopra, sono riuscite addirittura a creare un “sistema economico patologico e predatorio neoliberista”, che distrugge i diritti fondamentali di tutti e protegge i peggiori individui, cioè gli speculatori che vivono sulle spalle degli altri. E non si dimentichi che è per la tutela dei diritti fondamentali di tutti che il citato articolo 2 della Costituzione impone “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Si tratta di un “inderogabile dovere” che rientra nel più ampio concetto del dirittodovere di “partecipazione”, più volte ricordato in Costituzione. Lo troviamo nell’articolo 3, comma 2, nel quale si legge: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori al’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, nonché nell’articolo 43, dove è scritto che “a fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire […] allo Stato, a enti pubblici o privati, o a Comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale”.
Tale munus è inoltre palesemente sancito nell’articolo 49 della Costituzione, dove si legge: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Infine, molto importante dal punto dell’attuazione pratica è l’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione, il quale sancisce che: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Ed è da porre in risalto che proprio da quest’ultima disposizione emerge con sufficiente chiarezza che i cittadini, singoli o associati, possono agire nell’interesse pubblico con “azioni popolari”, facendo valere i diritti di tutti. Questa azione è esercitabile soprattutto a proposito delle “privatizzazioni”, delle “liberalizzazioni”, delle “delocalizzazioni” e delle “svendite”, poiché dette operazioni contravvengono palesemente alla nota disposizione di carattere precettivo e imperativo di cui al primo comma dell’articolo 41 della Costituzione, il quale prescrive che “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il carattere imperativo di questa norma, peraltro di rango superiore alla legge ordinaria, consente di far annullare dal giudice i contratti, le concessioni, le svendite, che sono in contrasto con “l’utilità sociale” e la “sicurezza” dei cittadini, poiché, com’è noto, l’art. 1418 del codice civile sancisce che i negozi contrari a norme imperative devono essere dichiarati nulli dal giudice ordinario senza limiti di tempo.
Insomma, come si diceva, il rimedio è a portata di mano: è nella nostra Costituzione, che ha dato vita a uno “Stato comunità”, dotato di un “patrimonio pubblico” appartenente al Popolo a titolo di sovranità.
Note
1 Per l’approfondimento del tema e per le note bibliografiche, rinviamo al nostro recente volume edito da Diarkos e distribuito da Mondadori, dal titolo La rivoluzione costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica.
2 Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi, Roma, 2014.
* Paolo Maddalena è libero docente di Istituzioni di diritto romano presso l’Università Federico II di Napoli. Entrato nel 1971 nella Magistratura della Corte dei Conti. Nominato giudice della Corte Costituzionale nel 2002, ha lasciato l’incarico nel 2011 per fine mandato. Ha scritto diversi saggi sulla tutela della collettività e dell’ambiente.
Foto di Stefano Petroni, da www.flickr.com