La leadership femminile nella patria del maschilismo
Una donna al comando, ma è un comando maschile
Judith Pinnock
Uno dei commenti più diffusi sull’affermazione elettorale di Giorgia Meloni è stato: ma perché la destra, in tutto il mondo, riesce ad esprimere figure femminili in ruoli di punta e la sinistra no? La domanda è stata posta da voci diverse, molte delle quali femminili, con un approccio non tanto teso a scoprire una risposta ma piuttosto a colpevolizzare la sinistra, che non è capace, è maschiocentrica, è troppo impegnata nel gestire guerre di potere interne per la leadership e così via. Una lettura verosimile. Il patriarcato però è molto abile nel nascondere le proprie strategie e c’è sempre bisogno di smascherarlo. Dunque va subito detto che la presenza delle donne nei ruoli decisionali non è solo una questione di numeri (che rivestono comunque la loro importanza) perché se non si stabiliscono limiti all’onnipresenza maschile non ci sarà mai un equilibrio di potere. Dire che non è questione di numeri non vuole nemmeno dire che quella che conta è la competenza e sfido chiunque a dimostrare che tutti gli uomini che rivestono cariche pubbliche siano con certezza i più competenti. È che un reale cambiamento lo si può avere solo se le donne che possono prendere parte, alla pari, ai processi decisionali nei diversi contesti siano effettivamente rappresentative delle donne. Non abbiano, cioè, fatto proprio il modello maschile e abbiano come obiettivo l’attuazione della parità fra i generi a partire da una profonda revisione del sistema di produzione e riproduzione con riferimento al corpo generativo delle donne e al ruolo sociale della cura.
Questo sintetizza tutta la difficoltà insita nello sfondare il tetto di cristallo: non è impossibile, ma da un lato la preponderanza di uomini ha plasmato la concezione di leadership e i modello di guida e gestione, e troppo poco ci siamo interrogate su come possano essere i modelli femminili, dall’altro lo sfondamento viene sicuramente reso più facile per le donne che di fatto garantiscono una continuità.
Ritengo necessario un approfondimento su cosa significhi, concretamente, dotare la politica di uno sguardo di genere, perché la risposta non è nel perpetuare una visione binaria che affianchi o contrapponga un modello femminile a uno maschile. Troppo alto il rischio che si cada negli stereotipi, chiedendo alle donne gentilezza, pazienza, comprensione, cura, insomma la maternità al potere. Credo che il tema meriti uno spazio dedicato.
Qui invece proviamo a mettere a fuoco le caratteristiche della donna di destra, che ci spieghino come mai quella parte della società che è più misogina, arretrata, maschilista possa esprimere una donna al comando. Proviamo quindi a decodificare Giorgia Meloni, a smascherare gli stereotipi che rappresenta.
Due tranelli cognitivi
Una prima riflessione è sul caratteristico tranello cognitivo messo in campo dalla destra: parlo del binomio paura-rassicurazione che ha la funzione di basare tutta la comunicazione sul tema della sicurezza. È del resto la garanzia perché venga accettata la figura dell’uomo solo al comando, anche quando è una donna; infatti il tema importante è l’essere “Uno” al comando, il genere è secondario, l’importante è che venga accettata l’idea della necessità di un decisionismo veloce, che sarebbe ostacolato da tutto ciò che ha a che fare con la democrazia: confronto, condivisione, partecipazione.
Il secondo tranello cognitivo riguarda l’assertività. Gli psicologi Alberti, Emmons e Smith lanciarono negli anni ’70 il concetto di assertività che definivano come «un comportamento che permette a una persona di agire nel proprio pieno interesse, di difendere il proprio punto di vista senza ansia esagerata, di esprimere con sincerità e disinvoltura i propri sentimenti e di difendere i propri diritti senza ignorare quelli altrui». Quanto più sia presente autostima tanto più si è capaci di scegliere questo codice comunicativo privilegiandolo rispetto agli altri possibili, passività e aggressività. Ma una donna assertiva spesso viene definita aggressiva, perché viene paragonata al modello stereotipato femminile che la vuole remissiva, mansueta, “addomesticata” (destinata cioè alla vita domestica).
Chiara Volpato in Psicosociologia del maschilismo scrive: “le donne potenti disturbano perché mettono in luce una dissonanza tra potere e genere che crea disagio, come risulta dagli epiteti loro applicati, che dipingendole come poco attraenti castratrici – iron lady, rompipalle, arpia, virago – segnalano l’estensione della violazione dello stereotipo di genere e la minaccia che portano alle roccaforti maschili. Questi fenomeni ostili rischiano di cacciare le donne in un vicolo cieco: se si mostrano competenti, ambiziose, aggressive suscitano reazioni negative per lesa femminilità; se si rivelano più discrete e attente alle relazioni, vengono giudicate inadatte ad assumere posizioni di leadership”.
Alcuni anni fa un’indagine giornalistica rivelò che la maggioranza delle persone, sia uomini che donne, dichiarava di preferire un capo ad una capa. Un manager, al quale venne chiesto come mai a suo parere c’era stato questo risultato, affermò che “l’aspetto del controllo nella donna è più forte, e dal controllo scaturisce un’analisi della performance che toglie olio alle relazioni. Un capo uomo è più disposto ad accettare una performance non ottimale”. Non si trattava di una ricerca scientifica purtuttavia è interessante questa opinione e anche il fatto che non sia stato chiesto se davvero le donne esercitino più controllo o se il controllo attuato da una donna risulti meno tollerabile. Direi però che quel “toglie olio alle relazioni” sia molto indicativo, evoca quell’atmosfera da spogliatoio maschile dove tutto si può superare con una strizzata d’occhio e magari una bevuta insieme, tanto per restare negli stereotipi.
Tra scogliere di vetro e ritocchi di facciata
Non dimentichiamo poi che oltre al soffitto di cristallo esiste un altro ostacolo altrettanto trasparente: il glass cliff, la “scogliera di vetro”, termine coniato nel 2004 da Michelle Ryan e Alex Haslam, professori dell’Università di Exeter in Inghilterra, che descrive la pratica di designare una donna ai vertici di un’azienda o un’istituzione in un momento di particolare difficoltà e alto rischio, mascherandola come gesto anti-discriminatorio e di inclusione. Si tratta quindi, come sempre, di oggettivazione della donna messa al servizio del logos maschile.
La destra ha un grande bisogno di disinnescare il collegamento con il fascismo. L’operazione di “pink washing” nel suo caso ha la funzione di un restyling defascistizzante, quindi è strumentale il ricorso ad una donna come volto gentile. Nello stesso tempo la scelta cade su una donna che aderisce perfettamente al temperamento fascista: sa alzare la voce, essere assertiva e anche aggressiva. Sa farlo e può farlo, perché coerente col modello che rappresenta.
Il marketing della maternità
Merita attenzione anche il fortunato mantra meloniano “sono Giorgia, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, che riassume l’analisi precedente.
L’uso del nome proprio crea vicinanza, familiarità ed è una delle tecniche base nella negoziazione e gestione delle crisi.
La declinazione al femminile, non scontata per una che è a capo di un partito che si chiama Fratelli d’Italia (le sorelle non sono previste) sottolinea, nella ripetitività di quello che è un vero e proprio jingle commerciale, la capacità riformatrice e innovativa di una destra che promette rottura con il passato.
La maternità è il grande bluff, la si esalta riconoscendo alle donne (ma solo se madri) un ruolo sociale da protagonista, ma nel momento in cui la si esalta di fatto le donne vengono ancora addomesticate, chiuse nei confini della casa e della famiglia che resta patriarcale, se alle donne è limitata la presenza nella scena pubblica; inoltre è necessaria alla retorica della madre patria, per sancire un nazionalismo confermato dal punto seguente. Molto interessante a questo proposito ciò che scrive Graziella Priulla in “La libertà difficile delle donne. Ragionando di corpi e poteri”: descrivendo la differenza esistente tra dei e dee nella cultura classica, nota come alle seconde venga associata la caratteristica di pericolosità (per gli uomini) “tutte dotate di poteri arcani con venature funebri, nessuna legata alla maternità”. Del resto anche Maria è vergine, per assicurare distanza tra maternità (connessa al sacrificio) e sesso.
L’italianità, ingentilita dalla confidenza e dalla maternità, garantisce quella chiusura dei confini che non riguarda solo quelli geografici, ma piuttosto quelli dell’Io che si atrofizza, si irrigidisce, nella illusoria ricerca di una sicurezza intesa come impermeabilità invece che come fiducia nella propria capacità di confrontarsi con il mondo. Così si perde la strada, e la prima persona che ci prende per un braccio e ci trascina ci sembra autorevole e salvifica invece che invasiva e infantilizzante.
Perché, infine, cristiana e non cattolica? Certamente perché così si sottolinea la contrapposizione con il mondo ebraico e musulmano. Ma c’è un secondo aspetto: c’è un ambito nel quale muri e confini non sono funzionali. È quello di agenda Europa, europea sì ma finanziata con fondi internazionali, l’agenda che sta favorendo il radicamento dei movimenti neonazisti e neofascisti a partire da quel Dio, Patria e Famiglia che non è solo uno slogan ma un vero programma reazionario e dall’essenza colonialista che vede come primo territorio da invadere e occupare il corpo delle donne.
Un’ultima amara considerazione: in una fase in cui i femminismi sono divisi e spesso antagonisti, la prima premier italiana è un premietto, come i bocconcini che si danno a un cane mentre viene addestrato, dopo avergli detto “good boy”.
Judith Pinnock, femminista intersezionale, è vicepresidente di AGEDO Bologna; ha ideato e condotto numerosi laboratori per il contrasto degli stereotipi di genere, descrivendoli nei volumi Bellezza femminile e verità (Lupetti), A tavola con Platone (Ferrari Sinibaldi), Bella CostituZIOne (Ferrari Sinibaldi) scritti con Serena Ballista. Psicologa e psicoterapeuta, ha lavorato in ambito pubblico e privato nella gestione del personale.