La Palestina, la guerra e la post globalizzazione
Fabio Amato
Nelle ore e nei giorni in cui in tutta Europa le immagini della guerra sono tornate prepotenti sugli schermi, con una potenza propagandistica mai vista , accompagnata da un coro unanime di giusta compassione per le vittime ucraine del conflitto, per rifugiati che da anonimi numeri si trasformano in persone in carne e ossa, meritevoli di sostegno e solidarietà a reti unificate, emerge con forza la contraddizione fra la narrazione della guerra in Ucraina e quella invece riservata agli altri conflitti nel mondo. Fra tutti il conflitto palestinese, che diventa cartina al tornasole dell’insopportabile doppiezza degli standard occidentali. Che usano i diritti umani e il diritto internazionale a loro uso e consumo, piegandoli ai loro interessi geopolitici ed imperialisti. Ne ha scritto egregiamente lo storico israeliano Ilan Pappe in un articolo apparso sull’eccellente sito di controinformazione “Palestinian Chronicle”, e poi pubblicato in Italia dal “Manifesto”.
Leggi tutto: La Palestina, la guerra e la post globalizzazioneLe quattro lezioni di cui parla Pappe ci ricordano la doppiezza degli standard occidentali. La prima lezione è che i profughi bianchi sono i benvenuti, gli altri meno; la seconda che si può invadere l’Iraq, ma non l’Ucraina; la terza che in alcuni casi i neonazisti possono essere tollerati; la quarta è che abbattere un grattacielo è un crimine di guerra solo se accade in Europa. Mentre se questo accade a Gaza , in Palestina, non lo è. Come giustamente ricorda Pappe, “i bombardamenti vanno condannati, chiaramente, ma i leader che oggi si dicono sdegnati sono rimasti in silenzio mentre Israele radeva al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e Gaza City in una operazione dopo l’altra, nel corso degli ultimi quindici anni.” E in uguale silenzio sono rimasti per le stragi, le torture e i crimini di guerra in Iraq, Afghanistan, Libia, aggiungiamo noi.
Queste lezioni, ci parlano non solo dell’ipocrisia occidentale, ma anche di come la questione palestinese rimanga oramai dimenticata, derubricata a conflitto regionale, capace di far parlare di sé solo quando i palestinesi provano a rompere il silenzio con azioni disperate, o quando Israele bombarda periodicamente Gaza, in quelle che vengono celebrate dall’Occidente liberale come diritto all’autodifesa. Solo che sono la difesa da parte di una potenza occupante del furto di terra e dell’occupazione coloniale della Palestina.
Nella nuova definizione degli equilibri globali post globalizzazione, quale sarà il posto per questa irrisolta questione eredità del colonialismo europeo, degli accordi di Sykes Picot e della tragedia della seconda guerra mondiale?
Mentre le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale si scontrano in una guerra per procura in Europa che ridefinirà gli equilibri globali, quale sarà il futuro per la questione palestinese?
La solitudine della Palestina
La leadership palestinese aveva potuto contare, nella lotta per veder riconosciuta la sua questiona nazionale, sul sostegno del blocco socialista e sulla solidarietà internazionalista del movimento socialista comunista e anticolonialista a livello mondiale.
Una solidarietà che si accompagnava con la crescita del nazionalismo panarabo e socialista, con l’affermazione di Nasser in Egitto e dei partiti Baath in Siria e Iraq. Un movimento popolare di sostegno non solo da parte degli stati, che con l’esplosione della prima Intifada assume carattere globale, segnando un’intera generazione. Chi scrive ricorda come per la mia generazione fosse normale indossare in quegli anni la kefiah palestinese, in segno di solidarietà con la rivolta delle pietre nei territori occupati; una rivolta che costrinse Israele per la prima volta a ragionare su un negoziato e sul riconoscimento di una controparte palestinese.
Con la fine della guerra fredda ed il collasso dell’Unione Sovietica, la Palestina e l’OLP si trovano senza più un sostegno internazionale. L’opposizione di Arafat alla prima guerra del Golfo rende l’OLP ancora più isolata, dato che l’Unione Sovietica indebolita dal crollo del Muro di Berlino fu incapace di fermare l’azione bellica unilaterale da parte degli Usa e della Nato in Medio Oriente, e da lì a poco imploderà su se stessa.
È in questo quadro che maturano gli accordi di pace, i negoziati che iniziati a Madrid sfoceranno nella firma degli accordi di Oslo.
Con la firma di questi accordi, la leadership palestinese aveva puntato tutto nella mediazione statunitense, sperando che questa potesse garantire la soluzione dei due popoli per i due stati di cui si era fatta garante.
Inutile dire come a quasi trent’anni da quegli accordi, mai speranza fu più vana. L’illusione che gli Stati Uniti potessero essere garanti o arbitri imparziali di accordi di pace si rivelo presto come tale appunto, una pia illusione. Che l’Europa potesse giocare un ruolo diverso da quella di vassallo degli Usa, anche.
Profetiche furono le parole di Edward Said, a proposito di quegli accordi. Rilette oggi assumono ancora più valore, per la capacità di vedere come di fatto quegli accordi assomigliassero molto più a una resa che ad una vittoria.
Nel suo articolo del 1993 “Oslo, il giorno dopo” , Said scriveva:
“ Lungi dall’essere visti come vittime del sionismo, i palestinesi sono stati presentati agli occhi del mondo come i suoi aggressori pentiti: come se le migliaia di vittime dei bombardamenti israeliani sui campi profughi, gli ospedali e le scuole in Libano; l’espulsione da Israele di 800.000 persone nel 1948 (i cui discendenti ora sono circa tre milioni, molti dei quali privi di nazionalità); la conquista della loro terra e della loro proprietà; la distruzione di oltre quattrocento villaggi palestinesi; l’invasione del Libano; le devastazioni di 26 anni di brutale occupazione militare – come se tutte queste sofferenze fossero state riassunte nell’essere un popolo di terroristi e violenti, rinunciando a rivendicarle e facendole passare sotto silenzio. Israele ha sempre descritto la resistenza palestinese come terrorismo e violenza, e quindi anche nella formulazione dell’accordo ha ricevuto uno storico dono morale.
E in cambio, cosa si è ottenuto esattamente? Il riconoscimento israeliano dell’OLP – indubbiamente un significativo passo avanti. Oltre a ciò, anche accettando che le questioni sulla terra e la sovranità vengano rimandate ai ‘negoziati sullo status finale’, i palestinesi hanno in effetti rinunciato alla loro rivendicazione unilaterale e internazionalmente riconosciuta sulla Cisgiordania e su Gaza: questi sono ora diventati ‘territori contesi’. Così, con l’assistenza palestinese, a Israele è stata riconosciuta almeno una rivendicazione alla pari su questi territori. Il calcolo israeliano sembra puntare sul fatto che accettando di fare i poliziotti a Gaza – un lavoro che Begin cercò già di far fare a Sadat quindici anni fa – l’OLP cadrà presto in disgrazia in favore dei concorrenti locali, Hamas fra gli altri. E inoltre, piuttosto che diventare più forti durante il periodo provvisorio, i palestinesi potrebbero indebolirsi, diventare più succubi di Israele, e quindi essere meno in grado di opporsi alle rivendicazioni israeliane quando inizierà l’ultima serie di trattative. Ma sulla questione di come, con quale specifico meccanismo, passare dallo stato provvisorio ad uno successivo, il documento è intenzionalmente reticente. Questo significa, minacciosamente, che lo stato provvisorio potrebbe essere quello definitivo? “
A quasi trent’anni da allora, occorre riconoscere come Said avesse pienamente ragione. Lo stato provvisorio si è trasformato in definitivo, in apartheid e occupazione permanente.
Le sue fosche previsioni si sono drammaticamente avverate. A questo, al fallimento degli accordi, all’indebolimento drammatico e alla divisione della leadership, si aggiunge la progressiva perdita di rilevanza internazionale della questione palestinese. A ciò si aggiunga come le deboli istituzioni palestinesi siano oramai totalmente dipendenti dai donatori internazionali, intrappolate in un meccanismo in cui sono facilmente ricattabili e manovrabili da diversi attori esterni.
La Palestina è ad oggi dimenticata. Lasciata sola anche nell’emergenza del Covid-19.
Amnesty International ha pubblicato un recente dossier denunciando l’apartheid brutale di cui sono vittima i palestinesi. Un fatto storico, ma totalmente ignorato naturalmente da parte dell’ipocrita Occidente, altro segnale della condizione di solitudine e impotenza in cui si trova oggi la Palestina.
Come può rinascere la lotta palestinese?
La leadership palestinese, dopo averle quasi completamente abbandonate in favore di un legame privilegiato con Usa e Ue, ha ripreso negli ultimi anni a intessere relazioni diplomatiche con il blocco dei paesi non allineati, con i paesi che furono tradizionalmente vicini alla sua causa. Da un altro lato, fra i paesi arabi, gli accordi di Abramo firmati dai paesi del Golfo e altri paesi arabi con Israele segnalano l’isolamento e l’indebolimento della rilevanza internazionale della questione palestinese.
Un cambiamento negli equilibri internazionali può forse determinare scenari diversi.
Se si rafforzeranno forze anti colonialiste, capaci di riconoscere la palestinese per quello che realmente è, cioè un conflitto che nasce da un’occupazione di tipo coloniale da parte di Israele e del sionismo, allora si potrebbero aprire degli spazi.
Ma la causa palestinese per potersi rilanciare deve innanzitutto contare su se stessa, fare un bilancio realistico sul fallimento di Oslo. Prendere atto che non sarà attraverso il richiamo al rispetto di accordi feticci e squilibrati, o a risoluzioni del diritto internazionale di un ordine globale oramai in disfacimento, che si potrà ridare forza alle rivendicazioni per il diritto all’autodeterminazione e alla propria terra del popolo palestinese.
Credo che occorra un cambio totale di paradigma, rispetto a quello dei due stati. Questa danza immobile che da trenta anni ha favorito solo la continuazione dell’occupazione e la brutale violazione dei diritti umani dei palestinesi, il furto di terra e il cambiamento di fatto di status di Gerusalemme, ormai annessa totalmente ad Israele e separata dalla Cisgiordania.
Questo cambio di paradigma significa la ripresa della battaglia storica per uno stato democratico, laico e non confessionale che superi il carattere etnocratico di Israele. Quella che veniva definita la soluzione di uno stato per due popoli.
Per fare questo occorre iniziare una lotta congiunta contro le discriminazioni e l’apartheid, per il riconoscimento dei diritti umani tanto celebrati dall’ipocrita occidente complice del sionismo, e che sono quotidianamente negati ai palestinesi.
L’impraticabilità della soluzione dei due Stati, è oramai un dato di fatto, evidenziato non solo da un dato fisico, dall’attuale estrema frammentazione della Cisgiordania, aggravata dalla progressiva costruzione del Muro, ma anche dalla oramai evidente strategia politico-militare israeliana che prosegue implacabilmente nella trasformazione dei territori palestinesi in entità territoriali satellite, circondate dallo Stato di Israele e da esso completamente dipendenti sotto ogni profilo. La soluzione di un unico Stato democratico e pluralista capace di ospitare tutti e di difendere i diritti di tutti risulta oggi paradossalmente meno utopica che risollevare accordi morti e sepolti. Sicuramente non è un obiettivo praticabile a breve, ma quello su cui può ricostruirsi un movimento nazionale ed internazionale di solidarietà con la causa palestinese.
Certo è che la decisione su come proseguire la propria lotta spetti innanzitutto al popolo palestinese. A noi però rimane il compito di continuare a smascherare l’ipocrisia dell’Occidente, il carattere coloniale di Israele, la brutalità dell’occupazione e dell’apartheid.