La pandemia e la scienza: un’occasione perduta
Gino Satta*
La rivincita delle competenze
Nei primi tempi della pandemia, i mezzi d’informazione italiani hanno annunciato l’avvento di una nuova era delle competenze, che si stava affermando proprio a causa dell’emergenza determinata dalla diffusione del virus. Scriveva, per esempio, Michele Serra su “Repubblica” (7 aprile), che il “processo di quasi azzeramento delle competenze che negli ultimi anni aveva galoppato nelle società occidentali mano a mano che dilagava il ‘fai da te’ della Rete, è stato a sua volta quasi azzerato da una travolgente domanda di competenze”. Domanda di cui era indicata come prova inconfutabile la presenza in massa di “scienziati, medici, ricercatori, statistici, epidemiologi in tivù, alla radio, sui giornali”.
Il fenomeno globale del negazionismo e il diffondersi a livello di massa, tramite la mediazione dei social network, di teorie del complotto tra le più inverosimili sembrano suggerire che il quadro è, quantomeno, più complesso di quello tracciato da Serra, e che altre e più torbide domande e tensioni attraversano il corpo sociale. Lo sgomento per un accadimento “impensabile” fino a poche settimane prima, ha provocato in tutto il mondo non solo richiesta dicompetenze, ma anche forti reazioni di rifiuto: dalla negazione della esistenza stessa del virus o dell’epidemia, alle teorie del complotto che ne attribuiscono la comparsa ora ai laboratori militari cinesi, ora alla diffusione della tecnologia 5G, o ancora a una congiura del grande capitale internazionale (rappresentato dal solito George Soros, con l’aggiunta in questa occasione di Bill Gates).
Già questo quadro appena abbozzato basterebbe a attenuare il trionfalismo di chi ha intravisto nella pandemia una occasione per la riaffermazione delle competenze scientifiche in un mondo che aveva livellato i saperi degli scienziati e le farneticazioni dell’ultimo improvvisato commentatore, trattandoli come “opinioni” da mettere sullo stesso piano.
Gli scienziati come star mediatiche: un bene per la scienza?
Ma è proprio dalla presenza in massa dei medici, dall’affollamento di virologi, epidemiologi, e più tardi internisti e rianimatori, che mi pare utile partire per ragionare su alcune questioni sollevate da Loredana Fraleone in questo numero di Su la testa, riguardo alla condizione della ricerca scientifica in Italia.
La tesi della rivincita delle competenze mi pare infatti viziata da una lettura piuttosto miope delle dinamiche in atto nel sistema politico/mediatico: ciò cui abbiamo assistito non è – a mio modo di vedere – il segno di un improvviso e tardivoamore per la scienza e le competenze, quanto piuttosto l’indice della diffusa incomprensione per la complessità della ricerca e della produzione del sapere nella società italiana, in particolare da parte del mondo politico e dei media. Emblematica di questa incomprensione è, mi pare, l’esecrazione dei conflitti che sono emersi tra i diversi scienziati, da parte di giornalisti e politici, uniti nel chiedere loro “certezze” incontrovertibili, cioè proprio ciò che uno scienziato onesto difficilmente potrà mai fornire. Un’idea positivistica e antiquata della Scienza, che contrasta con ogni moderna epistemologia. Non meno significativa dell’incomprensione della scienza è la ricerca di rimedi miracolistici, nella quale si è certo distinto il presidente statunitense Trump, ma che è ravvisabile, a ben vedere, anche dietro i continui annunci da parte di governanti e media dell’imminente arrivo del vaccino; più vicini alle attese dell’intervento del santo patrono che a qualsiasi logica della ricerca scientifica; o, per i maliziosi, agli interessati rumors che accendono le speculazioni borsistiche e alle agende della propaganda politica.
La comparsa degli “esperti” sui media, insomma, mi pare sia avvenuta nella forma della loro “ingestione” nel sistema dell’infotainment, il quale dopo averli eletti a oracoli onniscienti, da cui si aspettava di udire la “verità” (una e una sola), e dietro i quali il potere politico (ai suoi diversi livelli) si nascondeva nel prendere decisioni, li ha rapidamente scaricati una volta che le preoccupazioni per gli aspetti sanitari dell’epidemia si attenuavano e nuovi temi venivano in primo piano.
Tutt’altro che un trionfo della scienza.
Il riduzionismo biomedico e l’assenza della dimensione sociale
Dal punto di vista delle scienze sociali, la presenza continua in TV di “virologi” (su twitter circolava la finta copertina di un album di figurine così intitolato), è una chiara espressione della riduzione della complessità della epidemia, a favore di una visione unilaterale. Ignari della massima attribuita a Virchow, il fondatore dell’epidemiologia, secondo la quale una epidemia è un fenomeno sociale che presenta anche aspetti sanitari, il mondo politico e quello dell’informazione hanno ricercato un unico tipo di “esperto”, di formazione medica, mettendo del tutto da parte quei saperi che avrebbero forse potuto fornire punti di vista sulle dimensioni sociali e culturali dell’epidemia. Fatto che è stato sottolineato da più voci e che credo abbia avuto diverse conseguenze negative nella gestione dell’epidemia, per esempio nella distanza abissale tra i protocolli immaginati per le varie “fasi” dell’epidemia, e gli effettivi usi sociali. Per settimane esperti e tecnici di diversa estrazione
hanno spiegato, con la complicità dei quotidiani alla ricerca della notizia sensazionale, come sarebbero cambiate tutte le nostre abitudini più consolidate: abbiamo visto progetti di spiagge suddivise in box di plexiglas, dove persone con la mascherina avrebbero pazientemente atteso il loro turno per fare il bagno uno alla volta; ristoranti dove i commensali sarebbero stati separati da alte barriere e altre amenità del genere.
Solo dopo diverso tempo questa miope impostazione è stata in parte corretta con l’inclusione nel Comitato Tecnico Scientifico di alcuni “scienziati sociali”. Ancora una volta una concezione piuttosto ristretta della scienza, e tutt’altro che un trionfo.
Liberare il sapere e la ricerca
Che epidemiologi e virologi in cerca di notorietà siano diventati ospiti fissi di telegiornali, talk show, programmi di vario intrattenimento, non sembra insomma aver inciso significativamente sulla drammatica condizione della ricerca in Italia. Della priorità attribuita (a parole) alla ricerca e al sapere non si è finora vista traccia nelle politiche del governo Conte 2. Anche a seguito della diffusione di voci su un’ampia distribuzione di risorse in arrivo, negli ambienti accademici si sono create grandi aspettative sul rifinanziamento della ricerca e dell’insegnamento universitario (entrambi in Italia ai livelli più bassi in Europa in rapporto al PIL), che possano contribuire a invertire una tendenza al definanziamento almeno ventennale, e trasversalmente perseguita da tutti i governi che si sono succeduti.
Al ventisettesimo posto tra i paesi OCSE in termini di investimenti nella ricerca, tra i pochi paesi europei ad aver diminuito la spesa per università e ricerca negli ultimi 10 anni, con un corpo docente sempre più anziano e in drammatico calo numerico (per via del protratto blocco delle assunzioni), ma ciò nonostante ai primi posti per il livello della produzione scientifica (8° nell’OCSE, per ciò che valgono le classifiche) e con laureati che, in assenza di prospettive nel paese, riescono con una certa facilità a farsi apprezzare dove le risorse sono meno scarse, l’Italia avrebbe assoluta necessità di una inversione di tendenza: per ridare ossigeno a un sistema che si sta spegnendo, non fosse altro che per motivi anagrafici, e che faticherà sempre più a mantenere livelli qualitativi tanto incongruamente alti a fronte delle risorse di cui dispone.
Ma se anche questa dovesse finalmente arrivare, non sarebbe sufficiente a garantirne una rinascita. Resterebbe comunque in piedi quel processo di riforma neoliberale che ha devastato l’università e la ricerca, non solo in Italia. Perché la pandemia non rappresenti un’occasione persa è necessario non solo che siano portati a livelli europei gli investimenti per la ricerca e l’università, ma che sia recuperata una visione del sapere libera dai vincoli dell’ordine neoliberale. La ricostruzione di un sistema universitario nazionale, dove l’autonomia non sia intesa come una competizione generalizzata (secondo lo schema neoliberale ben delineato da Dardot e Laval in La nuova ragione del mondo1) per le scarse risorse distribuite dal Ministero: università che competono per strapparsi gli studenti e raggiungere “parametri” che siano premianti nella distribuzione dei fondi, Dipartimenti che competono per i (pochi) posti attribuiti all’Ateneo, docenti e ricercatori che si scannano per la suddivisione (ovviamente “premiale” e non “a pioggia”) delle scarsissime risorse disponibili. Il tutto sotto la supervisione di un ente (l’ANVUR) tanto costoso quanto dannoso, che alimenta le più perverse pratiche di audit e di accounting, prese in prestito dal management aziendale, nonché la burocratizzazione del lavoro accademico (si passa più tempo a fare progetti, domande, rapporti, valutazioni, autovalutazioni, che non a fare ricerca).
Certo l’inversione della tendenza al definanziamento sarebbe un primo importante segnale di discontinuità. Ma rappresenterebbe solo l’inizio di un lungo percorso necessario per restituire all’università la sua missione storica: produrre e trasmettere sapere e conoscenza secondo logiche che, pur non avendo nulla di irenico, sono però diverse e distanti da quelle della produzione di merci per il mercato.
1 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma, 2019
* Gino Satta insegna Antropologia culturale presso l’Università di Bari “Aldo Moro”. Fa parte del direttivo dell’Associazione internazionale Ernesto de Martino. È direttore di Nostos. Laboratorio di ricerca etno-antropologica e membro della direzione di Parolechiave. Gestisce l’archivio digitalizzato di Ernesto de Martino, del quale è stato anche il principale realizzatore. Tra le sue pubblicazioni: Zone di contatto. Percorsi di ricerca e nuovi oggetti antropologici nell’era della mondializzazione, Cleup, Padova 2005; (a cura di) con C. Gallini, Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Meltemi, Roma 2007 dell’Università di Bari.
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