La questione del comun(e)ismo a 100 anni dalla nascita del PCI
Andrea Fumagalli*
In queste note vorrei argomentare come oggi, a cento anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano a Livorno:
1. il livello di sfruttamento del capitalismo contemporaneo sia di gran lunga superiore a quello esistente ai tempi della nascita del PCI;
2. di conseguenza il bisogno di comun(e)ismo, inteso come quell’ordine delle cose capace di sviluppare una cooperazione comune sociale in grado di consentire un processo di autodeterminazione dell’essere umano, sia maggiore di un secolo fa.
Tempo di lavoro e tempo di vita
Perché oggi lo sfruttamento è maggiore di cento anni fa? Possiamo rispondere in modo lapidario: perché oggi ad essere al centro dello sfruttamento capitalistico non è solo il tempo di lavoro ma l’intero tempo di vita. Ciò significa che la base dell’accumulazione da cui estrarre plusvalore si è notevolmente ampliata.
Per meglio comprendere l’evoluzione delle forme di sfruttamento nel capitalismo contemporaneo, riteniamo necessario partire dall’originale analisi marxiana. Il concetto di sfruttamento è in Marx strettamente interrelato a quello di valore, o meglio di plusvalore. La teoria marxiana de Il Capitale è inoltre caratterizzata da un continuo intreccio e rimando tra due nozioni che apparentemente agli occhi degli economisti tradizionali possono apparire difficilmente compatibili, come quella economica di valore e quella umanistico-filosofica di alienazione. Il ponte che li unisce è costituito dalla nozione di denaro. Nei Manoscritti Storico-Filosofici del 1844, Marx, non a caso, ha discusso di denaro e alienazione. Ne Il Capitale, introduce la teoria del valore e del plusvalore come architrave dell’analisi del “modo di produzione capitalistico”. Nei Grundrisse, infine, Marx ritorna allegame tra denaro e valore, chiudendo il cerchio: denaro come forma suprema di alienazione, ma anche come massimo potere, che nel capitalismo diventa non solo equivalente generale e misura del valore, ma trasformandosi in moneta, sta alla base della stessa valorizzazione (creazione di plus-valore e base dello sfruttamento). Se nei Manoscritti del 1844, lo sfruttamento viene trattato più dal punto di vista filosofico, ne Il Capitale Marx sviluppa un’analisi prettamente economica, che potremmo definire di critica dell’economia politica.
Come è noto, Marx parte dalla legge del valore-lavoro di ricardiana e smithiana memoria. Ma a differenza dei due economisti classici, secondo i quali il processo di accumulazione o derivava dalla divisione del lavoro (Smith) o dalla distribuzione conflittuale del reddito (Ricardo), per Marx il valore viene generato direttamente all’interno del rapporto sociale capitale-lavoro grazie allo sfruttamento della forza lavoro. L’analisi di Marx è al momento stesso dinamica e dialettica. Dinamica, perché il fattore tempo è fondamentale per comprendere l’origine del valore, dialettica perché il valore è l’esito di un rapporto sociale in una continua metamorfosi. Lo sfruttamento sta quindi, secondo Marx, nella capacità del capitale di tradurre in potenza di valore ciò che è l’atto di lavoro, grazie al “potere di disporre di una quantità di lavoro altrui non retribuita”. Tale discrepanza tra l’effettivo valore della prestazione lavorativa e l’eventuale valore della merce prodotta definisce allo stesso tempo il grado di sfruttamento e di alienazione del lavoro.
Tempo di vita in cambio di denaro
C’è una frase di Marx che chiarisce in modo lapidario questo rapporto e quindi l’origine dello sfruttamento: nello scambio sul mercato del lavoro (apparentemente libero), il/la lavoratore/trice: “realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso”.
Un valore d’uso (lavoro) che non gli appartiene più. La forza-lavoro crea così un valore superiore, tramite il periodo di lavoro. È ciò che Marx chiama pluslavoro, ovvero disponibilità di lavoro (tempo di lavoro) che è ad appannaggio esclusivo (gratuito) per il capitalista.
Ed è tramite la misurazione del tempo di lavoro, del tempo di pluslavoro che è possibile fornire una “misura” dello sfruttamento e quindi determinarne il limite.
In conclusione, nello scambio sul mercato del lavoro, ciò che viene venduta è la disponibilità lavorativa (atto lavorativo) che il capitalista è in grado di tradurre in capacità lavorativa (potenza lavorativa) di cui unilateralmente con un atto di forza e di violenza se ne appropria. Il lavoratore, tuttavia, pur alienandosi il valore di scambio della forza-lavoro, rimane comunque proprietario della propria capacità lavorativa. Nello scambio di lavoro, non si verifica quindi uno scambio effettivo di diritti di proprietà (potere), ma piuttosto uno scambio di disponibilità (potenza).
La teoria dello sfruttamento di Marx e le conclusioni a cui giunge sono oggi ancor più attuali di quanto non lo fossero nel XIX secolo e sono adeguate a comprendere il processo di accumulazione del capitalismo contemporaneo, che l’approccio neo-operaista definisce “bio-cognitivo e relazionale”, per sottolineare che oggi i processi di valorizzazione si basano sempre più sullo sfruttamento delle facoltà cognitive, delle relazioni e della riproduzione sociale della vita.
Perché il comune(esimo)
Ma è evidente che rispetto ai tempi di Marx qualcosa si è modificato. Ecco alcuni aspetti da sottolineare:
1. La produzione internazionalizzata tende a diventare sempre più intangibile. I settori produttivi a più alto valore aggiunto sono oggi quelli che operano nei servizi avanzati del welfare (ad esempio, la sanità, dando origine a nuove catene del valore che vedono lo sviluppo di nuove filiere, dove riscontriamo sinergicamente, produzione farmaceutica, biogenetica, biotecnologie, apparecchiature fortemente sofisticate, logistica, big data e via dicendo) e nei servizi alle imprese (robotica, tecnologie algoritmi- che, software, app, clouds, business intelligence, web services, logistica del trasporto, ecc.). La componente materiale di queste produzioni è minoritaria e la creazione di valore è sempre più fondata sull’accumulazione del capitale intangibile (R&D, formazione, brand, semiotica, finanza).
2. Tale valorizzazione necessita nuove caratteristiche lavorative e una sua nuova de/ regolamentazione. La crisi del paradigma fordista è stata accompagnata dal declino, a partire dai paesi di più vecchia industrializzazione, del lavoro stabile a favore del lavoro precario. Un lavoro precario che sempre più tende a coincidere con una precarietà esistenziale e sociale, in un contesto in cui il processo di individualizzazione contrattuale ha via via sostituito la contrattazione collettiva (acuendo la crisi delle tradizionali forme sindacali) e in cui la protezione sociale viene smantellata e sempre più privatizzata e finanziarizzata. Oggi, nel paradigma della vita messa direttamente a valore, un nuovo fantasma si aggira nel mondo del lavoro: il lavoro non pagato. Ogni individuo, lavoratore o no, semplicemente vivendo produce valore di scambio. Il capitalismo attuale (nella sua frontiera attuale, quello delle piattaforme) se ne appropria per lo più gratuitamente (furto di tempo di vita) e lo trasforma in valore di scambio. Tale questione apre un problema teorico e politico di estrema rilevanza.
3. Il problema teorico è il problema della misura. Quando le trasformazioni tecnologiche e organizzative favoriscono il diffondersi di produzioni sempre più immateriali, quando si mettono a valore tutta una serie di attività umane e soggettive che sono legate ai processi d’apprendimento, alla riproduzione sociale e alle reti di relazione, allora si pone il problema della “misura”. Il tema della misura è legato al calcolo della produttività del lavoro. A differenza del passato, dove tale calcolo era possibile perché dipendente da un’attività lavorativa che poteva essere misurata in ore di lavoro e da una quantità di produzione altrettanto misurabile su base individuale, oggi la produttività ha cambiato forma: essa tende a dipendere in misura crescente dallo sfruttamento di nuove forme di economie di scala, le econome di apprendimento e di rete (learning e network economies). Sia l’apprendimento che la relazione e la riproduzione sociale, infatti, necessitano di un contesto sociale, comune e cooperativo, di riferimento. La produttività di cui si parla nel capitalismo bio-cognitivo è quindi in primo luogo produttività sociale e la cooperazione che ne è alla base è cooperazione sociale o, con riferimento al ruolo della conoscenza, general intellect. Non solo la produttività individuale ma anche lo stesso prodotto della cooperazione sociale non è misurabile. Quando si producono simboli, linguaggi, idee, forme di comunicazione, controllo sociale, strumenti di sorveglianza, che tipo di misurazione possiamo adottare? Salta ogni relazione valoriale tra l’output, il suo tempo di produzione (misurato in orario) e la sua remunerazione (misurata in salario), anche se fittizia e inferiore al valore prodotto. È in questo scarto che si insinua la gratuità di un atto di vita, che si esprime come produzione di valore d’uso, e che viene trasformato dal capitalismo delle piattaforme in produzione di valore di scambio, “valore-rete” e “valore vita”. La crisi della teoria del valore-lavoro deriva proprio dal fatto che non solo l’apporto individuale oggi non è misurabile ma anche la componente intangibile dell’output tende a sfuggire a un’unità di misura. E ciò avviene in un contesto in cui la misura del valore non è più condizionata da un fattore di scarsità. L’apprendimento (conoscenza) e le relazioni (spazio) sono, infatti, fattoti produttivi abbondanti, teoricamente senza limiti (soprattutto se pensiamo allo spazio virtuale), almeno quanto la natura umana. Una teoria del valore fondata sul principio di scarsità, come quella implicita della teoria del libero mercato fondata sulla legge della domanda e dell’offerta, oggi non ha più alcun principio di rilevanza nella realtà economica e sociale. Ma paradossalmente, l’unica teoria del valore che appare adeguata al capitalismo bio-cognitivo contemporaneo, la teoria del valore-lavoro, – secondo la quale il valore di un bene è commisurato al contenuto di lavoro vivo necessario per produrlo – non è in grado di fornirne una misura.
4. Il problema politico è l’organizzazione del “comune” come modo di produzione, in un contesto di elevata eterogeneità del lavoro certificato come tale (e quindi remunerato) e della vita produttrice di un valore non riconosciuto e quindi non remunerato. La ricomposizione sociale (prima ancora che tecnica) è la sfida che abbiamo di fronte e l’analisi di questo aspetto richiederebbe molto più spazio di quanto ora ce ne è concesso.
Proprio partendo da queste considerazioni, la sussunzione del lavoro al capitale (prima formale, poi, a partire dal sistema “fabbrica”, reale) si trasforma in sussunzione della vita al capitale, ovvero in sussunzione vitale, un misto di processi di estrazione di ricchezza che vanno dalla mercificazione degli individui all’aumento dell’intensità di accumulazione grazie alle nuove tecnologie algoritmiche, di controllo e auto-controllo dei processi formativi e relazionali (“imprinting”).
Il grado di sfruttamento si è così oggi ampliato al punto tale che non è possibile misurarlo.
A 100 anni dalla nascita del PCI, siamo di fronte a una torsione del rapporto tra lo scorrere del tempo e la definizione della propria soggettività. Se il processo di valorizzazione del capitalismo bio-cognitivo – come abbiamo scritto – è sempre più fondato sulla conoscenza e lo spazio, esito della messa a valore delle facoltà vitali degli individui, assistiamo, da un lato, al nascere di una possibile economia dell’abbondanza (essendo la conoscenza e lo spazio, se inteso come spazio internettiano, non soggetti a scarsità), dall’altro, al riconoscimento delle potenzialità del singolo individuo quando si connette con la cooperazione sociale. Il nuovo vincolo diventa il fattore tempo (24 ore al giorno), l’unica variabile che è oggi soggetta a scarsità.
Su questo trade-off si innestano le contraddizioni del presente. I tentativi che oggi vengono esperiti ci parlano della possibilità di immaginare un mondo di “condivisione” (sharing) tale di essere in grado di superare la conflittualità, sempre immanente tra liberazione individuale e idea di comunità.
Il concetto di comune, oltre la dicotomia tra privato e pubblico, rappresenta oggi una prospettiva di futuro. Parliamo del comune come possibile orizzonte futuro di un nuovo modo di produzione, finalizzato alla produzione di valore d’uso e non di scambio. Ovvero del comune come nuova modalità di organizzare la valorizzazione produttiva che è insita dentro di noi, decidendo il come, il quanto e il dove e a vantaggio di chi “produrre”.
Da questo punto di vista – differentemente dalla tematica dei beni comuni -, il comune potrebbe consentire l’autogestione del proprio tempo e la sostenibilità ecologica, risolvendo la dialettica tra tempo e essere. Allo stesso tempo, è espressione di desiderio e potenzialità, nel momento stesso in cui la produzione di valori d’uso risulta centrale nell’organizzazione comune della produzione. Non più solo “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” ma anche “da ciascuno secondo le sue potenzialità, a ciascuno secondo i suoi sogni”. Allora, si potrà cominciare a parlare, all’interno di un esodo, questa volta, costituente, di comun(e)ismo.
* Andrea Fumagalli è professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pavia
Foto di Andrew Becraft da Flickr.com