La rivolta contro l’autonomia differenziata
Guido Lutrario*
C’è bisogno di una rivolta contro il progetto dell’autonomia differenziata che il decreto Calderoli vuole portare a compimento. La portata dell’attacco ai nostri diritti e alle condizioni di vita è tale che l’unica risposta di senso è un vasto movimento di protesta che interrompa questo processo e faccia tornare sui propri passi un disegno che parte da lontano e che ha visto collaborare tutti gli attori attualmente presenti in Parlamento.
Due sono gli assi di riferimento di questo progetto: da un lato, concentrare le risorse sulle regioni del Nord per favorirne l’integrazione con le aree più ricche dell’Europa centrosettentrionale, approfondendo lo sviluppo diseguale del Paese; dall’altro, ridurre l’intervento pubblico, introducendo i livelli minimi delle prestazioni, per favorire la progressiva privatizzazione dei servizi.
Lo sganciamento dal Sud
Le classi dominanti hanno sempre concepito lo sviluppo economico del Paese come fortemente dipendente dal sistema industriale concentrato nelle aree del Nord, assegnando al Sud un ruolo subalterno, una sorta di territorio coloniale da utilizzare come fornitore di manodopera e come mercato interno. Ieri, però, il disegno di sviluppo diseguale aveva un marchio fortemente nazionale. Era la borghesia italiana che governava all’insegna delle grandi industrie del Nord. Ora la logica competitiva, o della iper-competitività, come l’ha definita la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel Discorso dell’Unione dello scorso anno, è governata direttamente su scala continentale e il rafforzamento delle principali filiere produttive e delle aree economicamente più forti, in grado di reggere la competizione internazionale, deriva dalle scelte della UE.
Ed è proprio dentro questa logica che l’industria italiana non solo è stata fortemente ridimensionata, ma è stata integrata (in posizione subalterna) con le catene del valore nord-europee, con particolare prevalenza tedesca. Nella nuova situazione creatasi con la guerra in Ucraina, il rialzo dei prezzi energetici e la riperimetrazione geopolitica delle catene del valore internazionale, la selezione tra le industrie che vanno sostenute e quelle che possono essere lasciate al loro destino è diventata più cruda. Quel progetto di concentrazione delle risorse nelle zone più avanzate risulta oggi ancora più funzionale agli interessi dominanti.
Il cambiamento istituzionale, già preparato dalla riforma del Titolo V, coincide con la spinta allo sganciamento del sistema produttivo delle regioni del Nord dalle zone arretrate del Paese. La nostra economia viene ulteriormente sospinta verso l’export, utilizzando i bassi salari ma anche il crescente abbassamento del tenore di vita in tutto il Sud. Come segnala il recente rapporto dell’Istat su I divari territoriali nel PNRR – dieci obiettivi per il Mezzogiorno (2023), il PIL pro-capite del Sud è fermo sotto il 60% di quello delle regioni del Centro-Nord, e il Mezzogiorno italiano è ora il territorio arretrato più esteso di tutta l’area dell’euro.
Al Mezzogiorno viene assegnato il ruolo di piattaforma logistica per gli approvvigionamenti energetici (vedi la destinazione dei fondi del PNRR), di fornitore di manodopera (la trasformazione del reddito di cittadinanza ha la finalità di spingere verso Nord la forza lavoro italiana, accettando i salari da fame) e di destinazione turistica.
La riduzione dell’intervento pubblico
L’altro perno su cui regge il disegno dell’autonomia differenziata è il superamento della concezione dei servizi pubblici come universali e corrispondenti ad altrettanti diritti fondamentali, riconosciuti dalla Costituzione. Con l’introduzione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni), si stabiliscono dei “minimi” che dovrebbero essere assicurati a tutti, superando e, di fatto cancellando il precetto costituzionale dell’articolo 3, in base al quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Con i LEP assistiamo a un capovolgimento della logica del testo costituzionale: dall’obiettivo di realizzare, con i servizi, il soddisfacimento di esigenze che sono fondamentali a garantire la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, formalmente uguali davanti alla legge ma concretamente in condizioni molto diverse e con esigenze di trattamenti differenziati, ai livelli minimi uguali per tutti, con l’accortezza di non produrre nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Del resto, la reale funzione dei LEP ce la racconta l’esperienza dei LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, figli anch’essi della riforma del Titolo V, definiti una prima volta nel 2002 e successivamente aggiornati nel 2017. Come ha chiarito bene anche recentemente Ivan Cavicchi, con i LEA si è realizzata una vera e propria controriforma dell’articolo 32, e la salute, da diritto fondamentale, è stata ridotta a “diritto minimo”, al quale deve corrispondere una sanità essenziale e soprattutto economicamente sostenibile (vedi I. Cavicchi Sanità pubblica addio. Il cinismo delle incapacità, Castelvecchi, Roma, 2023, p. 92 e segg.).
Anche questo secondo pilastro dell’autonomia differenziata si sposa con la direzione di marcia della Comunità Europea, che sta da tempo obbligando i diversi governi nazionali a concepire l’intervento pubblico in materia di servizi ai cittadini sempre più come sussidiario rispetto a quello privato. È stato questo, per esempio, l’intento esplicito del recente Decreto Concorrenza, fortemente sostenuto dal governo Draghi e ripreso in perfetta continuità dal governo Meloni, che ha ulteriormente mortificato l’azione dei Comuni nei servizi a rete, imprimendo una nuova spinta verso la privatizzazione di aziende municipalizzate e introducendo vincoli sempre più stringenti per quelle amministrazioni che ostinatamente continuassero a preferire la gestione pubblica. E si badi, l’approvazione delle nuove regole in materia di concorrenza è stata considerata vincolante per l’erogazione delle tranche di PNRR.
Le responsabilità del centrosinistra
Il progetto ha incontrato il sostegno della sinistra di governo che, di fatto, è stata l’artefice del cambiamento del Titolo V della Costituzione (2001), avvenuto sotto il governo Amato e fortemente sostenuto dal ministro Bassanini (PD). Alcuni attribuirono quella decisione all’obiettivo del PD di strappare consensi alla Lega, ma la verità più profonda stava nella subalternità culturale alle politiche neoliberiste e negli interessi di classe che il PD scelse di rappresentare, fattori che hanno portato il centrosinistra a farsi promotore di un così profondo stravolgimento costituzionale. All’inizio del 2018 con il governo Gentiloni, ancora PD, abbiamo assistito ad un nuovo strappo, con la firma dell’intesa tra lo Stato e quelle regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) che avevano chiesto di procedere con l’attuazione degli articoli 116 e 117 riformati.
Oggi, con il decreto Calderoli, è il governo di destra che si appresta a completare l’opera, sapendo di avere di fronte un’opposizione culturalmente disarmata e che ha nel suo curriculum il peccato originale di aver dato il via a tutto il processo.
Ma c’è anche il sostegno incondizionato al processo di integrazione della UE, che costituisce un fattore identitario dell’arco parlamentare della sinistra, a condizionare la posizione di queste forze: la crescente integrazione della nostra economia con l’UE e il processo di consolidamento dell’Unione non sono alternativi alle trasformazioni istituzionali previste dal decreto Calderoli. Chi si illude che sarà l’UE a salvarci dallo smantellamento del sistema costituzionale provocato dall’attuazione dell’autonomia differenziata è destinato a rimanere deluso.
Come sul salario minimo, anche sull’autonomia differenziata c’è un pezzo del centrosinistra, anche sindacale, che ha recentemente rivisto le proprie posizioni: è un fatto positivo, perché avere di fronte un avversario diviso è molto meglio che doversi contrapporre a un fronte unito. L’importante sta nel non cedere mai più a loro l’iniziativa e salvaguardare sempre l’indipendenza del percorso.
Rimettere al centro la questione sociale
Potremo contrastare il disegno dell’autonomia differenziata solo se saremo capaci di riportare la questione sociale, a cominciare dal tema dei salari, al centro dell’agenda politica e farla diventare la vera emergenza nazionale.
Il progetto è destinato ad avere un impatto molto pesante sulle condizioni di vita, aumentando le disuguaglianze e favorendo un’ulteriore riduzione dei servizi. Ma per spiegarlo e denunciarne i pericoli abbiamo bisogno di parlare delle condizioni reali in cui si produce oggi lo sfruttamento.
Tecnicizzare la discussione sull’autonomia differenziata e circoscriverla a tema complesso per esperti di diritto sarebbe un errore imperdonabile. La questione va portata nelle piazze e sui posti di lavoro, legandola alle battaglie per l’occupazione e contro il precariato, per la difesa dei servizi pubblici e del sistema sanitario pubblico, nelle lotte per il salario e per rinnovi contrattuali veri, capaci di recuperare il potere d’acquisto che abbiamo perso in questi anni.
Per parlare di autonomia differenziata dobbiamo partire dagli operai dell’ILVA o dai braccianti del foggiano, dai precari del PNRR o dai tirocinanti calabresi, dal personale della sanità cronicamente in affanno e sottopagato, dagli ex-percettori del reddito di cittadinanza e dai lavoratori della ristorazione, super-sfruttati e con salari da fame.
E dobbiamo partire dalla classe operaia del Nord, oggi sottoposta a un nuovo pesante attacco sui ritmi e l’intensità dello sfruttamento, per i quali l’integrazione con l’Europa ha significato finora un destino da bassi salari. E dai giovani che scappano dall’Italia, destinata a diventare un paese per vecchi, sempre più povero.
A tutti questi soggetti, l’autonomia differenziata ruberà il futuro. Sempre che non decidano di rivoltarsi.
* Esecutivo Nazionale Confederale USB