La “rivoluzione del concetto di rivoluzione” e la “terza fase” della lotta per il socialismo
Guido Liguori*
Il Partito comunista italiano, fondato cento anni fa a Livorno, assunse questa denominazione solo nel 1943. Era nato come “Partito comunista d’Italia (Sezione della Internazionale comunista)”. Come molti sanno per aver vissuto la cosa sulla propria pelle nel 1989, per i comunisti il nome di un partito non è questione di poco conto. Perché il partito comunista del nostro Paese si chiamò inizialmente “d’Italia” e non “italiano”? Il nome stava a significare ciò che l’aggiunta tra parentesi esplicitava: “Sezione della Internazionale comunista”. Esso si considerava cioè solo il distaccamento nazionale di un unico grande partito transnazionale: l’Internazionale comunista (o Comintern), fondata a Mosca per impulso di Lenin nel 1919.
Così era per tutti i partiti comunisti del mondo che stavano sorgendo in quegli anni: si sentivano parte di un unico grande partito mondiale della rivoluzione. Guidato da un gruppo dirigente unitario, che aveva sede ovviamente a Mosca, e di cui facevano parte rivoluzionari di ogni nazionalità. Del resto, già la Comune di Parigi – di cui si celebrano quest’anno i 150 anni – aveva affermato: «la nostra bandiera è la bandiera della Repubblica Universale!».
Il Pcd’I nacque a Livorno, ma il parto non fu felice. Negli ambienti dell’Internazionale ebbe corso l’espressione “non fare come a Livorno”, per dire che era stata un’esperienza fallimentare. Nonostante le ottime premesse, dovute alla “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, solo una minima parte degli iscritti al Partito socialista italiano lasciarono la vecchia casa per costruirne una nuova: tra i 215mila membri del Partito socialista, la mozione comunista ebbe 59mila voti, quella dei “comunisti unitari” di Serrati (che anch’essi volevano aderire al Comintern, ma senza cambiare nome e senza dividersi dai riformisti) ben 98mila. Nel Pcd’I entrerà solo un quarto degli iscritti al Psi. Ugualmente male andarono le cose nelle elezioni di pochi mesi dopo. La maggioranza del proletariato italiano era rimasta con i socialisti, non aveva capito o non aveva condiviso i motivi della scissione.
La responsabilità di questo esito fu soprattutto di Amadeo Bordiga, che nel Psi per primo aveva puntato sulla nascita del Pcd’I e che anche per questo aveva diretto il composito fronte che diede vita al nuovo partito. La sua rigidità, il suo settarismo partorirono ciò che egli, del resto, auspicava: un piccolo partito di quadri scelti, non il partito di massa del proletariato italiano che Lenin e Gramsci desideravano. Secondo la testimonianza di Camilla Ravera, Gramsci, tornato in treno a Torino dal Congresso, senza neanche passare per casa si recò subito al giornale (“L’Ordine Nuovo”, divenuto dal 1° gennaio quotidiano), spalancò la porta ed esclamò, di fronte ai suoi più stretti amici e collaboratori: “Livorno, che disastro!”. Egli non era certo contrario alla scissione, anzi: del “circo Barnum” socialista non ne poteva più. Era scandalizzato per come la scissione si era compiuta, minoritaria, settaria e perdente. E, a parte Bordiga, essa era avvenuta troppo tardi, come scrisse Gramsci il 12 marzo seguente: la scissione avrebbe dovuto aver luogo “almeno un anno prima”, nella fase alta del movimento di lotta del Biennio rosso.
Da Bordiga a Gramsci: da nucleo d’avanguardia a partito che lotta per l’egemonia
Gramsci non ebbe un ruolo di primissimo piano né a Livorno né nella “prima fase” del nuovo partito. Stretto tra la ripulsa del vecchio mondo socialista e la ferrea disciplina dei comunisti, non contestò apertamente la linea politica di Bordiga (estremista e settaria secondo lo stesso giudizio di Lenin e dei capi del Comintern), se non in riunioni locali torinesi. Nel 1922 si trasferì a Mosca a rappresentare il partito presso l’Internazionale. Piano piano fu convinto dai vertici del Comintern e da Lenin in persona a prendere il posto di Bordiga, sempre più in rotta di collisione con il gruppo dirigente leninista poiché rifiutava qualsiasi ipotesi di “fronte unico” con le altre forze del movimento operaio, persino davanti allo squadrismo e al fascismo vittorioso.
Fondamentale, per capire il passaggio da Bordiga a Gramsci, il carteggio col quale – tra la fine del 1923 e l’inizio del 1924 – il comunista sardo cercò di ricostruire il vecchio gruppo dell’“Ordine Nuovo” per farne il nuovo gruppo dirigente del Pcd’I. Gramsci individuava nella stortura organizzativistica del “bordighismo”, collegata al “determinismo” del comunista napoletano, uno degli aspetti più rilevanti delle difficoltà del Pcd’I. L’errore del partito “bordighista” – scriverà Gramsci in una lettera del febbraio 1924 – era stato in primo luogo quello “di aver messo al primo piano e in modo astratto il problema della organizzazione del partito, che poi ha voluto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero ortodossi verso la concezione ufficiale. Si credeva e si crede tutt’ora che la rivoluzione dipende solo dall’esistenza di un tale apparecchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa determinare la rivoluzione […] Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dovere iniziare una offensiva”.
La critica gramsciana si indirizzava al come era stato costruito il Pcd’I, non certo alla fondazione del nuovo partito in sé. L’autocritica pubblica (sulla terza serie dell’“Ordine Nuovo”, fondata nel 1924) sarà ancora più impietosa e finirà con il famoso, durissimo giudizio: “Fummo – bisogna dirlo – travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana”. Eppure, concludeva Gramsci, sia pure con una buona dose di ottimismo della volontà, “il partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange di acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le forze avversarie, ma sufficiente per diventare l’armatura di una più vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto”. Per volontà del Comintern, nell’agosto 1924 Gramsci fu nominato segretario del Pcd’I – il primo segretario del partito, perché fino ad allora tale carica non esisteva e fu mutuata nell’occasione dal Partito comunista russo. A Lione, nel gennaio 1926, il III Congresso fu un vero e proprio congresso di “rifondazione” del Pcd’I, imperniato sull’assunto gramsciano di “partire dalla realtà”, dallo studio delle condizioni effettive in cui dovevano operare i comunisti italiani.
Non posso in questa sede soffermarmi sugli aspetti principali del lascito gramsciano. Voglio però richiamare un elemento della sua lezione, che è quello a mio avviso centrale: partendo da alcune indicazioni dell’ultimo Lenin (fine della tattica dell’offensiva, fronte unico, Nep), il comunista sardo operò – già parzialmente a metà anni ’20, poi più profondamente nei Quaderni del carcere – una rivoluzione del concetto di rivoluzione, secondo la quale era considerata ormai esaurita nei paesi occidentali, capitalisticamente avanzati, l’epoca delle insurrezioni e delle barricate, della “presa del Palazzo d’Inverno”, ed era iniziata l’epoca della “guerra di posizione”, della lenta conquista dei gangli vitali della società, della ricerca delle alleanze, della valorizzazione del dato sovrastrutturale, della creazione di un “nuovo senso comune” di massa. Della lotta per l’egemonia, insomma. Che però – contrariamente a quanto spesso si crede – non è e non può essere solo “culturale”: essa non può che avere anche un “contenuto economico-sociale”, da cui non può prescindere, poiché il soggetto dell’egemonia per Gramsci è sempre, in ultima analisi, una classe sociale o un insieme di gruppi sociali alleati e unificati da interessi condivisi e da una comune “concezione del mondo”.
Il PCI: Togliatti e “la via nazionale al socialismo”
Col ritorno di Palmiro Togliatti in Italia, nel marzo 1944, iniziò una seconda “rifondazione” del Pci, del Partito comunista italiano, come si chiamava dal 1943, avendo cambiato nome come gli altri partiti comunisti, per volontà di Stalin e Dimitrov, per rafforzare l’impegno dei comunisti nella lotta al nazismo a fianco delle altre forze nazionali antifasciste. Dopo la guerra e il fascismo i comunisti italiani, pensò Togliatti, dovranno operare in un contesto del tutto nuovo rispetto agli anni ’20 e ’30. Il mondo diviso in due imponeva l’impossibilità di fare a breve dell’Italia un paese socialista, ma offriva anche una possibilità nuova: la possibilità di recuperare il terreno della democrazia, su cui Togliatti (con altri dirigenti del Comintern) aveva iniziato a riflettere in modi nuovi nella seconda metà degli anni ’30 di fronte ai fascismi, e soprattutto durante l’esperienza della guerra civile spagnola.
Si trattava dunque di “tradurre” gli insegnamenti di Gramsci nella nuova situazione del mondo del dopo Yalta, sviluppando gli aspetti del suo pensiero maggiormente riguardanti l’importanza della conquista del “consenso”. Certo, Togliatti pensava che la collaborazione tra le forze antifasciste, anche a livello mondiale, durasse più a lungo. Ma in ogni caso i risultati raggiunti soprattutto con la “svolta di Salerno” e poi con la Costituzione repubblicana permisero di costruire un partito lontano dagli aspetti più consunti della Terza Internazionale (che non a caso era stata sciolta durante la guerra): il Pci divenne un partito comunista di tipo nuovo, democratico e di massa, che tentava di coniugare, secondo la lezione gramsciana, classe e nazione, interessi delle classi popolari e volontà di guidare in senso progressivo l’intera compagine nazionale verso quelle “riforme di struttura” che potessero portare gradualmente a una società a un tempo politicamente democratica ed economicamente sempre più socialista. La teorizzazione della “via nazionale al socialismo”, ribadita con grande forza dopo lo choc del ’56, fu anche una “fuga” dal modello sovietico, dal tipo di società oppressiva che Togliatti aveva conosciuto bene negli anni ’30 e che non voleva riproporre certo in Italia. Il Memoriale di Yalta del 1964, il testamento politico di Togliatti, rafforzava questa indicazione, sosteneva la necessità che il movimento comunista divenisse policentrico, accettasse le differenti strade al socialismo. Nella stessa direzione andò il sostegno attivo di Luigi Longo alla “primavera di Praga” del 1968, il tentativo di svolta democratica intrapreso dal Partito comunista cecoslovacco, soffocato brutalmente nell’agosto dall’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia.
La terza fase della lotta per il socialismo è compito attuale
Anche Enrico Berlinguer si pose sulla stessa scia. Se il compromesso storico fu in gran parte un tentativo fuori tempo, e dunque fragile, senza interlocutori reali, di riprendere la politica togliattiana dell’alleanza tra i partiti antifascisti e più in generale l’incontro con il mondo cattolico, o con la sua parte migliore; l’eurocomunismo, e poi la “terza via”, e la “terza fase”, furono una alta affermazione del tentativo di coniugare insieme i valori del socialismo e della democrazia, del socialismo e del rispetto delle libertà fondamentali (politiche, sindacali, culturali, religiose). Nel 1977 Berlinguer ebbe il coraggio di ribadire a Mosca, di fronte a tutti i partiti comunisti filosovietici, che la democrazia era la via al socialismo, la via per antonomasia, la scelta necessaria, non solo una possibile variante nazionale.
Teorizzando più tardi la “terza fase”, egli si spinse oltre l’orizzonte togliattiano. Se infatti il concetto spaziale di “terza via” indicava la possibile compresenza di vie diverse al socialismo, il concetto temporale di “terza fase” diceva con chiarezza una cosa nuova: era finita sia la fase della Seconda che quella della Terza Internazionale, ovvero sia il tentativo dei partiti socialdemocratici che quello dei partiti comunisti di origine e stampo terzinternazionalista. Inoltre, dopo il ’68 e la politicizzazione della società, la politica doveva rinnovarsi profonda- mente, anche la politica del Pci. Sono gli anni dell’“ultimo Berlinguer”, che va ai cancelli della Fiat, che dialoga col movimento pacifista e col movimento femminista, che mostra uno spiccato interesse per le tematiche ecologiche e si interroga sul ruolo dell’informatica nelle trasformazioni della politica e della società. Parlando di “terza fase” Berlinguer afferma che la lotta per il socialismo deve cercare strade del tutto nuove, e che l’idea stessa di socialismo va ridefinita in modo nuovo, né economicistico e quantitativo, né politicistico e imperniato sulla centralità assoluta del partito, a scapito degli altri luoghi e delle altre forme del “fare politica”. La costruzione di questo «socialismo del XXI secolo» è il compito che ancora abbiamo di fronte.
* Guido Liguori insegna Storia del pensiero politico presso l’Università della Calabria, è presidente della International Gramsci Society Italia e capo-redattore della rivista di cultura politica “Critica Marxista”. I suoi interessi di studioso riguardano la storia del marxismo, il pensiero socialista, il pensiero politico italiano del Novecento, e in particolare il pensiero di Gramsci e la sua diffusione nel mondo. Ha scritto numerosi saggi e libri su Gramsci, Lenin, Rosa Luxemburg, la tradizione del marxismo italiano, e sul Pci e sulla sua fine.
Foto di Carlo Pelagalli da www.panoramio.com